C’è adesso un drago

Il popolare come chiave di lettura del presente.

La lava raggiunge l’area di Leilani, 6 maggio 2018. Fonte: Courtesy of Bruce Omori-Paradise Helicopters / EPA-EFE / Shutterstock Leilani Estates, Isola di Hawai’i.

Il testo seguente è la versione italiana inedita della seconda parte dell’introduzione — edita in inglese — del volume collettaneo Disasters in popular cultures. Il libro, curato da Giovanni Gugg, Elisabetta Dall’Ò, e Domenica Borriello, è stato pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Il Sileno Edizioni, all’interno della collana Geographies of the Anthropocene (vol. 2, n. 1) ed è scaricabile gratuitamente in formato ebook. La prima parte è stata pubblicata l’11 Ottobre, sempre su queste pagine.

L’area semantica che fa riferimento al termine “leggendario” permette di costruire ossimori, di creare ibridi tra realtà e finzione. È quello che Della Bernardina definisce “effetto delega” (Della Bernardina 1997: 4), ossia un modo per de-realizzare un evento carico di ambiguità, per sottrarlo alla contingenza storica cristallizzandolo in un’immagine di elevato tenore metaforico (Bronzini 1985) e simbolico (Simonnet 1997). Come osserva Valière, «il racconto non è per complicare la vita» (Valière 2006: 109), anzi ha una funzione terapeutica, dal momento che «permette di riattualizzare, sotto forme diverse, angosce e preoccupazioni interiori, nascoste nel profondo di ognuno di noi, rivelando, pur mantenendo una necessaria distanza critica, le tensioni all’interno […] del gruppo sociale a cui apparteniamo» (Valière 2006: 143).

Queste produzioni culturali funzionano, dunque, perché evocano un déjà-vu, di cui la loro struttura parabolica fa da garante, impartendo una lezione di vita: nessuno è in grado di esercitare l’attività critica senza logorarsi, per cui l’impiego di sublimazioni e stereotipi assolve al compito di esercitare in nostra vece il principio di autorità: «Legittimati dalla tradizione, o semplicemente dalla convenzione, questi operatori ad un tempo simbolici e morali ci esentano dall’obbligo di valutare, e dunque di argomentare le nostre scelte, fissando a priori, una volta per tutte, il campo dei buoni e quello dei cattivi» (Della Bernardina 1997: 6).

H. G. Willink “Wilderwurm Gletscher”, incisione realizzata nel 1892 per l’opera di C.T. Dent, “Mountaineering”.

Il leggendario è dunque quel luogo a metà strada tra l’esistente e l’immaginario che ci permette di risolvere sul piano simbolico contraddizioni inerenti il reale: ci permette di riconoscere il noto, di ampliare l’esperienza attraverso informazioni rimaste inaccessibili, di evadere e consolarci, di identificarci e solidarizzare, di superare le difficoltà della vita e di elaborare «una dimensione sociale nella quale e attraverso la quale un gruppo umano si ritrova e si esprime» (G. Léser cit. in Valière 2006: 51).

Da questo punto di vista, il volume “Disasters in popular cultures” è molto ricco, sia per le tematiche, sia per gli sguardi disciplinari, sia, infine, per i campi etnografici. Ne fanno parte dodici contributi (tre in lingua francese, quattro in inglese, cinque in italiano) che toccano uno spettro geografico che copre l’intero pianeta: dalle Hawaii alla Sicilia, dalle Alpi all’area napoletana coi Campi Flegrei, Ischia e il Vesuvio, dalla Repubblica Democratica del Congo all’India, dalla Papua Nuova Guinea all’America Latina. I saggi, inoltre, procedono da prospettive antropologiche, sociologiche, geografiche, filosofiche e psicologiche, fornendo così un ampio ventaglio di letture che, come si diceva nella prima parte, hanno il merito di superare i confini disciplinari mettendo a disposizione tagli interpretativi che si completano ed integrano vicendevolmente.

Una tanto varia e ricca produzione culturale si ritrova sia sul fronte dei disastri che della letteratura popolare/orale. Nel primo caso vengono evocate eruzioni vulcaniche, terremoti, siccità, frane e colate di fango, ghiacciai e riscaldamento climatico. Nel secondo, invece, si analizzano leggende popolari, proverbi, fiabe, miti, memoria collettiva, racconti verosimili, teorie del complotto e leggende metropolitane. In un caso, infine, quello del saggio di Virginia Garcia Acosta che chiude il libro, forniamo un contributo teorico di taglio antropologico-filosofico sul concetto di antropocene e sull’importanza del ricorso alla storia.

L’incontro – simbolico, culturale e di ricerca – avvenuto tra le pagine di questo volume grazie ai tanti autori che vi hanno contribuito, prende le mosse anche a partire da un altro incontro, avvenuto in occasione del convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata, SIAA, tenutosi a Catania nel 2017; occasione in cui i curatori si erano confrontati e avevano individuato nuove possibili traiettorie di analisi epistemologica e metodologica sul tema dei disastri, dei cambiamenti climatici e dell’antropocene, consci che «il carattere storico, sociale, culturale e politico dei disastri rende ancora più evidente la relazione di causalità e co-implicazione che li interconnette ai processi di cambiamento climatico in corso» (Dall’Ò et al. 2018).

Nella Prefazione del volume, Joël Candau osserva che «grazie all’incessante lavoro di memoria, il disastro non è tanto un fine quanto un inizio». Questo presupposto ha indirizzato il lavoro dei curatori e di ciascun autore: riflettere sul “memorabile” per aprire nuovi orizzonti di analisi e comprensione del contemporaneo. Nel nostro presente attraversato da preoccupazioni globali e da disorientamenti individuali (Latour 2018), il clima che cambia al di fuori del nostro controllo – e di quello della politica e della scienza – è il tema di fondo di un disastro in corso, invisibile se non a sprazzi, che affrontano in modo esplicito o implicito tutti i contributi del volume.

Nel suo fondamentale saggio The Climate of History, Dipesh Chakrabarty (Chakrabarty 2009) esamina la proposta di climatologi e geologi di definire l’attuale epoca col nome di Antropocene. Per quanto non ci sia un pieno accordo riguardo alla possibile datazione, ciò che è certo è che l’era dell’Antropocene definisce il periodo nel quale l’umanità, intesa come specie, ha acquisito il potere di modificare i processi naturali della Terra, in modo del tutto simile a quello di una forza geologica; motivo per cui negli ultimi anni il concetto è andato via via assumendo sempre maggiore consistenza storica, antropologica e politica. Secondo Chakrabarty, la “storia ambientale” ha sempre avuto molto a che fare con la biologia e la geografia, eppure ha anche avuto grandi difficoltà ad immaginare l’impatto umano sul pianeta in una scala geologica: «It was still a vision of man “as a prisoner of climate”» (Chakrabarty 2009: 206), e non dell’uomo come suo produttore.

Definire gli esseri umani come agenti geologici, come fanno i climatologi, vuol dire “scale up our imagination”, estendere la nostra immaginazione dell’umano. A questo proposito, possiamo definire gli esseri umani, a pieno titolo, delle forze geologiche, anzi degli “agenti atmosferici” seppur inconsapevoli. In questo filone, risulta particolarmente incisivo quel che Elena Bougleux dice dell’inquietudine umana: quel sentimento che ci fa smarrire quando abbiamo a che fare con qualcosa che esce dalla portata delle nostre azioni e della nostra comprensione:


L’inquietudine che mette addosso pensarci nelle vesti di attori di cambiamenti ambientali epocali che non sappiamo poi fermare, controllare e neanche capire è la conseguenza di un salto di scala enorme, troppo grande e imprevisto, della capacità umana di impattare sull’ambiente: un salto che come specie abbiamo già compiuto, non sappiamo neanche bene quando, ma che come individui genera più di una riflessione sul senso del termine “possibilità” (Bougleux 2015: 82).

Nella cornice di pensiero dell’Antropocene dunque, l’uomo diventa agente di cambiamento, la sua “agency di specie” ridiviene importante, alla pari di quella delle grandi forze della natura, nel dare forma – una forma deteriorata, peggiorata – all’ambiente. Un’agency che se da un lato, in forma aggregata (di specie), è potente e agisce come agente di impatto sul pianeta e sul clima, dall’altro, a livello individuale, si smarrisce facendo i conti con un’assoluta consapevolezza di impotenza, di inadeguadezza e di inefficacia.

Le narrazioni scientifiche e mediatiche sul presente dell’Antropocene si trovano, loro – e nostro – malgrado, ad avere a che fare con l’invisibilità; alla grande cecità su cui ci allerta Amitav Ghosh (2017) fa eco l’invisibilità intrinseca dell’oggetto stesso dei nostri discorsi che, forse proprio perché “globale”, sembra non solo sfuggire a uno sguardo d’insieme, ma anche sottrarsi a ogni tentativo di afferrarlo. Gli impatti sul nostro pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai artici, l’estinzione di specie, le alterazioni della composizione dell’atmosfera, del fluire delle correnti marine, la scomparsa delle barriere coralline, sono fenomeni che non rientrano nella nostra portata percettiva, e per quanto ci vengano raccontati e descritti dall’informazione ufficiale, non abbiamo la capacità di figurarceli, di renderli reali. Tuttavia, su una scala più ridotta, locale, i cambiamenti ambientali vengono percepiti, e narrati.

Nei contesti di cui ci siamo occupati in “Disaster in popular cultures”, contesti in cui la storia dei luoghi è radicata nella memoria del territorio vissuto, e in quella di chi lo abita, la percezione di questi fenomeni è avvertita come un’esperienza “reale” e “presente”, anche se disarticolata rispetto alle narrazioni “ufficiali” su larga scala. La ritroviamo nelle narrazioni orali, nei miti, nei discorsi che la rendono attuale e che le danno forma nel quotidiano, agendo su un piano profondo e ricordandoci, con Gilbert Keith Chesterton, che «Le favole non servono a raccontare ai bambini che i draghi non esistono. Loro lo sanno già che esistono. Le favole servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti».

La copertina del libro “Disasters in popular cultures”. L’immagine raffigura un gigante seduto accanto al Vesuvio ed è tratta da Giacomo Milesio, “Vera Relatione del miserabile, e memorabile caso successo nella falda della montagna di Somma, altrimente detto Mons Vesuvij”, Napoli, Ottanio Beltrano, 1631.

Bibliografia

Bougleux, E. (2015). Incertezza e cambiamento climatico nell’era dell’Antropocene. In “EtnoAntropologia”, n. 5 (1), pp. 79-94.

Bronzini, G. B. (1985). La ricerca del significato nella fiaba popolare. In Il viaggio, la prova, il premio. La fiaba e i testi extrafolklorici, a cura di L. Besuschi, numero monografico di “La Ricerca folklorica”, n. 12, Grafo edizioni, pp. 33-36.

Chakrabarty, D. (2009). The climate of history: Four theses. In “Critical Inquiry”, n. 35, fasc. 2, pp. 197–222.

Chesterton, G. K. (2007) [1909]. Tremendous Trifles. New York. Cosimo Inc.

Dall’Ò, E.; Falconieri, I. & Pitzalis, S. (2018). Disastri e cambiamenti climatici. In “Lavoro Culturale”, 18 gennaio 2018: 

Della Bernardina, S. (1997). L’effetto delega. Leggenda, ideologia, morale. In Leggende. Riflessioni sull’immaginario, a cura di D. Perco, numero monografico di “La ricerca folklorica”, n. 36, Grafo edizioni, pp. 3-12.

Ghosh, A. (2017). La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile. Vicenza. Neri Pozza.

Latour, B. (2018). Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica. Milano. Raffaello Cortina.

Simonnet, P. (1997). Le conte et la nature. Essai sur les méditations symboliques. Parigi. L’Harmattan.

Valière, M. (2006). Le conte populaire. Approche socio-anthropologique. Parigi. Armand Colin.

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