di Alessandra Molinero e Martina Tarasco
Piazza Salimbeni piena, molto più di quanto ci si sarebbe aspettati. La manifestazione senese, con l’eco delle altre, in ogni città, è stata bella. Era il momento giusto. “Se non ora quando?” per l’appunto. L’affluenza è stata considerevole. Le donne c’erano e c’erano anche gli uomini, anzi a tratti sembravano loro, i maschi, i più numerosi. Il che stimola riflessioni, anche polemiche. Da giorni ormai gli uomini erano chiamati a raccolta dai volti noti che hanno promosso la manifestazione. Certo rincuora vedere tante facce maschili in quella piazza. La solidarietà e l’identificazione sono un motore importante nelle lotte di piazza. Siamo d’accordo che il tema dell’immagine femminile e quello del ruolo dei maschi oggi siano il recto e il verso di uno stesso argomento. E che proprio la distinzione dei due abbia finito nel passato per logorare e impoverire entrambi. È necessario costringere la riflessione sui due fronti, serratamente parallela e continuamente intersecata; altrimenti non serve. Interessante però sarebbe contemporaneamente scoprire quanti di quegli uomini che oggi si sentivano parte della manifestazione e probabilmente anche eticamente fieri di esserci, predicano bene e razzolano male: covano cioè, nelle pratiche quotidiane e nelle relazioni personali, sotto sotto, un inconfessabile atavico maschilismo. Tanto più inconfessabile, naturalmente, quanto più il credo politico di appartenenza ne impone una pubblica rinnegazione.
È stata finalmente una manifestazione di contenuti, sapevamo perché eravamo lì e non capita più così spesso. È da questi contenuti che bisogna ripartire, mettendoli in discussione e ridefinendoli, per evitarne la scomparsa. Contenuti che dunque vanno difesi contro ogni sorta di strumentalizzazione che ci sarà, e che c’era già prima. Dobbiamo difenderci da quanti ci dipingono come implacabili moralizzatori. Il “rigido puritanesimo” era effettivamente assente dai propositi della manifestazione e affermare il contrario è un’operazione intenzionale per cercare di aggirare i contenuti veri e temuti di questa giornata. Il problema etico che emerge dal berlusconismo (anche nei suoi ultimi risvolti) è ben lontano dal bacchettonismo puritano, e dobbiamo stare attenti a dimostrarlo. È un problema etico e culturale che non ha nulla a che fare con la pudicizia. Tutt’altro. Infatti, paradossalmente, per potenziare la manifestazione di oggi bisognava tener conto del moralismo proprio come di un pericolo reale e possibile. Adoperarsi perché non si insinuasse nelle parole dette. È questione di un attimo, cadere nella trappola. Per questo fondamentali sono state le parole di una donna che, decisa, ha voluto ribadire la completa estraneità della manifestazione al concetto di peccato. La causa dell’indignazione che ci ha portati in piazza non è certo il peccato, concetto che esula totalmente dalla cultura che vogliamo difendere; ma piuttosto il bisogno di una battaglia culturale che rielabori i modelli femminili e maschili della società moderna. Le ultime vicende trascendono in parte la questione femminile, hanno a che fare con qualcosa di più profondo: con il tema centrale della ricattabilità, e quindi estrema debolezza, di un uomo politico e con il senso perduto delle istituzioni. È necessario ripetere, visto il dibattito, che il femminismo originario ha lottato per la liberazione sessuale, per creare una coscienza femminile allora assente o silenziosa e isolata. Ha dato la possibilità alle nostre mamme di vivere il sesso come un piacere, mentre solo le nostre nonne venivano “adoperate” dall’unico piacere possibile, quello maschile. La liberazione sessuale non era finalizzata alla prostituzione. Dall’autocoscienza alla puttana il passo è però lungo, sfumato e complesso. Non c’è un legame diretto, come vorrebbero farci e farvi credere.
Le donne si mettono contro le donne, si autodistruggeranno: altra trappola da cui difendersi, altra strumentalizzazione quasi certa del 13 febbraio. Nel vademecum del sito però al punto uno si legge: “La manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, contro altre donne, o per dividere le donne in buone e cattive.” Questione molto delicata da affrontare, il vero nodo problematico di tutta la faccenda su cui è bene tornare. È necessario, sì, evitare qualsiasi giudizio morale sulla condotta delle donne, ma ciò non significa giustificare e proteggere qualunque azione provenga dal mondo femminile. Come emerge dalla retorica della piazza, l’approccio delle donne alla questione del ruolo, del corpo e dell’immagine femminile è oggi inesorabilmente viziata da una pericolosa convinzione di fondo: l’equazione facile tra donna e bene, legata ad un conseguente, latente e controproducente vittimismo. Ma questa equazione non funziona, oggi più che mai non può funzionare. Siamo proprio sicuri che quello che ci serve è un’unione di genere “a testuggine” perché unite non ci sconfiggeranno? Ma allora chi è il vero nemico? Condividiamo davvero la stessa idea del femminile e del maschile di una sedicente femminista come Alba Parietti o come la Mussolini? Non può forse servirci affermare che “noi siamo diverse”? Abbiamo davvero ancora paura di dire che sono molte donne a determinare quell’immagine femminile che aborriamo? È davvero ancora necessario rappresentarci come vittime dei “maschimaschilisti”? L’opera di autocritica e di autocoscienza deve partire da questi interrogativi, deve smascherare l’insostenibile ipocrisia delle paladine dei diritti delle donne che mette dalla stessa unica parte, la Santanchè, Barbara d’Urso e le femministe storiche. Proprio per restituire dignità alle donne, dobbiamo noi assumere il compito di liberarci da questa identificazione della donna con il bene, che non fa altro che riprodurre nelle dinamiche femminili il tanto combattuto atteggiamento paternalistico degli uomini nei confronti del “sesso debole”. “Se non noi, chi?” verrebbe da dire.
A noi sta infatti anche il compito di confrontarci con il mostro sacro del femminismo storico. Non è un monolite intoccabile. È anzi necessario toccarlo, smontarlo pezzo per pezzo: nel bene e nel male è un’eredità che va presa in mano e rimodellata. Come sempre il passo più difficile è prendere in considerazione quella zona grigia che più ci è vicina, che ci appartiene, e che pure ha delle responsabilità; è il passo più duro, che costa più fatica, quello più utile. Anche se lentamente, bisogna demitizzare. Solo con la consapevolezza che le conquiste culturali e politiche del passato conservano il più grande valore per noi oggi, si possono e si devono contemporaneamente riconoscere anche le conseguenze più ambigue e a volte dannose del movimento. Non dobbiamo aver paura di affermare le responsabilità del mondo femminile stesso nella determinazione di quel modello insieme maschile e femminile che noi oggi vogliamo criticare.
Se non noi, chi? Noi e ora. Perché solo noi – figlie fiere di quelle conquiste – possiamo permetterci di decostruire, anzi ne abbiamo il dovere. Noi, perché abbiamo la necessaria distanza critica da quella cultura alla quale comunque intimamente apparteniamo. Ora, perché quella cultura delle vallette-ministre e delle soubrette-deputate è ormai consolidata; ci siamo piano piano abituati a questa cultura nuova e alle sue devastanti conseguenze politiche. È un problema culturale, politico, non morale. Ed è su questo livello che bisogna muoversi, lavorando sulla lunga durata, sull’elaborazione di modelli culturali altri da curare nella prassi quotidiana.
Non possiamo infatti accontentarci di una condivisione formale delle rivendicazioni, facile e a volte conveniente. A maggior ragione ora che viviamo in un mondo che formalmente garantisce la piena parità di genere; perché è qui che si radica una forma di maschilismo (negli uomini ma perpetrata anche dalle donne) più forte, nascosto, ma per questo forse più difficile da individuare e combattere. Quante donne della piazza accettano o addirittura cercano nel privato quello che pubblicamente deplorerebbero senza transigere? E quanto, pensare di condividere in astratto la lotta delle donne al maschilismo della destra berlusconiana distrae pericolosamente ognuno di quegli uomini solidali, della piazza, dal maschilismo subdolo delle relazioni personali, delle dinamiche sociali di ogni giorno? Per una reale trasformazione, crediamo fondamentale una riflessione che parta dagli aspetti più concreti del nostro vissuto. Banale, eppure sembra proprio un esercizio utile.