Un cerimonia a Edimburgo, uno spettacolo di Romeo Castellucci a Parigi. Insieme.
Pochi giorni fa, il 22 novembre, si è tenuta all’università di Edimburgo un’importante cerimonia di restituzione coloniale. Nello stesso giorno, e alla stessa ora, alla Villette di Parigi è andata in scena una replica dello spettacolo di Romeo Castellucci La vita nuova. Alla cerimonia di Edimburgo non ero presente, allo spettacolo di Parigi sì. Eppure, ero presente anche alla cerimonia.
Restituire e re-istituire
L’università di Edimburgo ha scelto di restituire ai loro discendenti i teschi di nove membri di una tribù dello Sri Lanka. I teschi risalgono a circa duecento anni fa e sono stati acquisiti – in modalità ignote – dall’università per la propria collezione anatomica circa cento anni fa, in un contesto di violenti rapporti di forza coloniali. Durante la solenne cerimonia di restituzione che si è tenuta a Edimburgo, il capotribù presente ha dichiarato: «Anche se questi resti sono stati a Edimburgo per molti anni, i loro spiriti sono rimasti con noi in Sri Lanka».
Nel comunicare su Twitter la restituzione, il museo di anatomia ha scritto: «Negli ultimi due anni abbiamo lavorato con il Capo Wanniya Uruwarige e il popolo Wedda dello Sri Lanka per scoprire nuovi elementi sui loro antenati. Oggi, in una commovente cerimonia, i teschi appartenenti ai Vedda sono stati restituiti dall’Anatomical Museum per intraprendere finalmente il loro viaggio di ritorno verso casa». Al tweet era abbinata questa fotografia:
Non passa inosservato il teschio che regge in mano il capo Wanniya Uruwarige. Ma, alla sua destra, non passa inosservato neanche quel busto classico. Più da vicino:
Parigi. A un certo punto dello spettacolo a cui in quelle stesse ore stavo assistendo, La vita nuova (la replica delle ore 13, perché tutte quelle serali erano esaurite), i cinque attori di origine africana ribaltano un’automobile per più volte. La prima volta che lo hanno fatto, ci viene mostrata una certa presenza sotto l’auto (l’immagine dalla replica di Bruxelles):
Poi lo hanno rifatto ancora, ed ecco cosa c’era stavolta sotto l’auto:
Il busto classico si era trasformato in un teschio. Ecco perché, nel leggere della cerimonia di restituzione, ho appreso qualcosa di sorprendente: che c’ero anch’io, e che non me ne ero accorto. E con me c’erano anche tutti gli altri spettatori parigini, c’erano quei cinque attori, c’era il capo della tribù Wadda Wanniya Uruwarige, c’era tutta la sua gente, e tantissimi altri e altre. C’eravamo tutti e nessuno, come sempre nella storia e come sempre nel presente sensibile.
L’inconscio delegato
Qual è la nostra disponibilità a delegare una piccola parte del nostro inconscio alle opere d’arte con cui veniamo a contatto? Nel nostro modo di stare al mondo e nel nostro immaginario più intimo, quale margine di manovra siamo disposti a lasciare ai libri che leggiamo, alla musica che ascoltiamo, all’arte che guardiamo, agli spettacoli teatrali a cui assistiamo e così via?
A pormi con forza quasi imbarazzante queste domande sono alcuni dei libri, dei dischi e delle opere d’arte a cui sono più profondamente legato, e che mi fanno per quel che sono. Ma gli spettacoli di Romeo Castellucci lo fanno in una maniera del tutto specifica, se non problematica. Forse, ogni volta che vado a un suo spettacolo corrisponde a un nuovo tentativo di capire perché, tentativo puntualmente – e forse opportunamente – fallimentare. Perché, mi chiedo sempre, questa sorta di piccola ossessione?
Excusatio non petita
Dai due o tre amici che fanno teatro con cui mi sia capitato di parlare di Castellucci ho ottenuto sempre risposte piuttosto infastidite: con il budget di un solo spettacolo dei suoi, mi dicono, ci si potrebbero finanziare tutte le compagnie teatrali sotterranee d’Italia, che invece faticano moltissimo a sopravvivere. Al di là di queste divergenze di vedute, sta di fatto che, dopo essermi trovato per puro caso a un concerto in cui Scott Gibbons suonava la musica composta per quegli spettacoli e dopo essere andato a vedere Il velo nero del pastore, ho preso a inseguire freneticamente le opere di Castellucci. Ogni volta che se ne presenti la possibilità, corro ad assistere ai suoi lavori, compresi quelli in dvd o in streaming, e incluse le regie operistiche, come il più infantile dei fan. Vado agli spettacoli di Castellucci con una voracità che invece non riservo al resto della scena teatrale contemporanea (anzi, del teatro in generale), che eppure la mia attenzione di semplice spettatore la meriterebbe eccome.
È che, anche a distanza di anni, mi tornano spesso in mente immagini da quegli spettacoli, senza nessuna ragione particolare e senza alcuna avvisaglia: visioni istantanee che arrivano nei momenti più improbabili e se vanno come sono arrivate, flash, ostinati ricordi visuali e sonori che, non richiesti, fanno capolino nella mia quotidianità, senza nessun apparente rapporto di causa ed effetto con le circostanze di quella stessa quotidianità. Il ricordo dello spettacolo per lo più passa, mentre rimane forte la memoria di singole immagini, singoli momenti sonori e visuali, singoli grumi di tensione. È come se i lavori di Castellucci avessero il potere di riservarsi un piccolo ma fortificato e inespugnabile pertugio del mio inconscio di spettatore, depositandovi a ogni spettacolo nuove visioni che ogni tanto faranno capolino nella mia memoria involontaria.
È una dinamica che in fondo, per certi versi, condivide lo stesso meccanismo del trauma: immagini che vorremmo scomparissero per sempre dalla nostra memoria e dal nostro inconscio, e che invece si ostinano a rifarsi vive quando meno te lo aspetti, come spiritelli dispettosi. Ma le visioni degli spettacoli di Castellucci sono spiritelli – e minuscoli traumi? Qual è il confine? – benvenuti, almeno per ora, soprattutto quando – sempre – si presentano senza una buona ragion per farlo.
La vita nuova
Stavolta è stato il turno de La vita nuova, alla Villette di Parigi, per il Festival d’Automne. Veniamo fatti entrare in un grande garage, illuminato da file di neon e pieno di automobili parcheggiate e ognuna coperta da un telo bianco. Una leggerissima nebbia pare avvolgere tutto. Sentiamo cinguettii, canti di uccelli e rumori della foresta, suoni che si trasformeranno presto nella musica elettronica ossessiva – e perfetta – di Scott Gibbons, collaboratore di sempre di Castellucci e della Socíetas Raffaello Sanzio.
Entra in scena un meccanico, vestito di bianco, e poi cinque ragazzi, neri, molto alti, vestiti di una tunica bianca, indossano scarpe con i tacchi, reggono ognuno un bastone. E cominciano i loro movimenti fra le auto parcheggiate. Azioni lente, ieratiche. I neon si accendono e si spengono in una coreografia di luce fredda. Poi i cinque attori ribaltano sul fianco una delle auto, più volte. La prima volta vediamo che sotto c’è un busto di arte classica, la seconda un teschio, la terza un sacchetto con cinque arance. Inutile arrovellarsi a cercare una trama narrativa: questi spettacoli non sono rebus da risolvere.
Tornano alcuni motivi ricorrenti negli spettacoli di Romeo Castellucci: il ramo d’oro che si era già visto nella regia del Parsifal di Wagner (già, James Frazer), gli incidenti automobilistici, e così via. Un’auto capovolta può far pensare tanto a un incidente quanto a una sommossa urbana, ma è prima di tutto un’auto capovolta.
Osservo e ho la costante sensazione di vivere quella densità con la ferma consapevolezza che solamente quei gesti e quei ritmi e quei suoni – non un centimetro in più né uno in meno, non un semitono in più né uno in meno – avrebbero potuto crearla e sarebbero stati in grado di mantenerla, di proteggerla da tutto ciò che avrebbe potuto turbarla, se non dissolverla, risvegliandoci in maniera brusca e mettendoci in pericolo, come quando si dice che, per la loro incolumità, è importante non svegliare i sonnambuli. Ed era proprio quella consapevolezza a legittimarne un’altra: quella di esserci, di esser lì, di assistere a quello spettacolo facendone parte, e di partecipare alla costruzione collettiva di quel nuovo minuscolo pezzo d’inconscio che, nei giorni e anni che verranno, mi farà ogni tanto tornare in mente quelle immagini, quei suoni e quegli istanti.
Non una parola di più
Ben oltre la metà dello spettacolo, inizia il monologo di uno degli attori, rivolto verso il pubblico. È un testo di Claudia Castellucci, un poema. Dice, fra le altre cose, che il problema non è come poter noi uscire da quel luogo, da quel garage, ma come quel luogo potrà mai uscire da noi. Ha ragione, non lo farà, come non lo hanno fatto gli altri spettacoli di Castellucci a cui ho assistito. E una delle auto finisce per essere capovolta del tutto. Si accende il motore, potenza e potenziale inespressi, esce del fumo bianco dal tubo di scappamento, le ruote girano a vuoto. Si riaccendono i neon. È ora di andare.
Usciamo dalla sala, e per farlo passiamo accanto all’auto capovolta. Le sue ruote continuano a girare a vuoto, come quando i chitarristi di gruppi noise o postrock escono dal palco dopo aver poggiato la chitarra per terra e mentre continuano a uscire forti dai loro amplificatori feedback e distorte risonanze rumoristiche delle corde lasciate libere di vibrare incustodite. Ma viene il dubbio che quelle ruote e quel motore non stiano girando a vuoto, e che invece stiano portando quell’auto e i suoi passeggeri verso una realtà capovolta dove siamo noi a essere sottosopra, e dove sia normale, se non perfino auspicabile, che le auto siano capovolte.
E neanche stavolta, per fortuna, sono sfuggito ad alcune perplessità, altra costante della mia esperienza di spettatore di Castellucci. Di fronte a La vita nuova, per esempio, sono perplesso all’idea che uno spettacolo così visivamente, sonoramente ed esperienzialmente denso debba includere una parte parlata (circa gli ultimi dieci minuti di spettacolo), benché così interessante. Oppure, sono perplesso di fronte alla costante sensazione del kitsch dietro l’angolo, kitsch nel senso deteriore del termine; e, infine, la sensazione che basti un niente e quell’incanto oscuro e quella densità si rompono, fragili come sono. Eppure non succede. E, in quel dispositivo che è uno spettacolo di Castellucci, finisce che le perplessità che mi accompagnano mentre esco dal teatro e vado verso la più vicina fermata della metro, al di là delle legittime riserve di uno spettatore, sono, da una parte, la frizione fra il mondo che ho abitato durante quell’ora di spettacolo e il mondo che invece ritrovo lì fuori; e, dall’altra, estasi travestita da perplessità.
Modo, mondo
Abbiamo la sacrosanta possibilità di proteggere con i denti il sacro spazio di permeabilità strutturale fra le proprie opere d’arte preferite (letture, visioni, ascolti…) e il proprio vivere e agire quotidiano, anche – anzi, soprattutto – nei casi in cui sia difficile o impossibile vedere, intuire o creare artificiosamente un legame di causalità o, anche peggio, di applicabilità fra quegli stimoli artistici e la realtà. Alla luce e all’oscurità di tutto questo, mi sembra il caso d’invertire la domanda iniziale, metterla sottosopra, proprio come quelle auto e quelle ruote che girano a vuoto de La vita nuova: non mi chiedo più qual è la nostra disponibilità a delegare all’arte il nostro modo di stare al mondo, ma, al contrario, qual è la nostra disponibilità a delegare al mondo il nostro modo di stare di fronte all’arte, alla pagina scritta, al gesto teatrale, all’atto sonoro e a tutte le altre forme di capacità di dire e agire. La vita nuova era allora la mia, quella che è iniziata ieri all’uscita da quel teatro e quella che inizia ogni volta che chiudiamo un libro o usciamo da un cinema o da un museo, letteralmente rimessi al mondo.
Liberazione, indipendenza, futuro
Nel programma di sala che mi sono messo in tasca ieri alla Villette, guardandomi bene dal leggerlo prima dello spettacolo, trovo una breve intervista a Romeo Castellucci. L’intervistatrice Sylvia Botella gli chiede in quali circostanze abbia creato La vita nuova, e lui: «Ho cominciato a pensarci mentre, qualche anno fa, ero assorto in alcune immagini di artigianato africano di rara qualità. Di fronte all’inaudita potenza formale di quegli artefatti ho provato un senso di liberazione e d’indipendenza. Di futuro». Un senso di liberazione, indipendenza, futuro. Già. Quelli che Romeo Castellucci stava ammirando non erano solo artefatti africani. Erano, camuffati, anche antichi teschi dallo Sri Lanka.