Ci sono tre notizie che, nel panorama dell’informazione di queste ultime settimane, risaltano per il differenziale (lo spread, diremmo) tra la gravità intrinseca e la lievità di trattamento ricevuto.
La più lontana nel tempo è quella della bambina bionda, in Grecia, di cui un uomo ed una donna rom si dichiarano genitori, ad un controllo della polizia. Troppo bionda la bambina per essere veramente la loro figlia, e troppo forte il peso della leggenda nera della zingara rapitrice, studiata da Sabrina Tosi Cambini[1], perché la solerte polizia non procedesse a verifica biologica, scoprendo che avevano visto giusto: le tv nazionali ed estere si sono scatenate riaprendo tutti i casi di bambine scomparse, e implicitamente, consolidando la veridicità dello stigma avverso agli singari ed in paticolare, alle loro donne.
Il secondo caso è quello di una coppia residente in un paesino del civile norditalia, che rientra da un viaggio – mi pare in Germania, o in un altrove europeo – e registra un bambino come figlio naturale al locale ufficio anagrafe. Anche qui un solerte ufficiale, di stato civile, ricorda di non aver mai visto incinta la signora che si dichiara madre e, in constanza di una legge che rende illegali ed inefficaci le dichiarazioni di stato civile mendaci, fa scattare una procedura di verifica biologica che scopre la verità: la coppia ha fatto ricorso, all’estero, alla maternità surrogata e questo non si deve fare, secondo la legge 4. Il bambino, risultato estraneo biologicamente ad entrambi, diventa res nullius e viene spedito in una casa famiglia, per essere avviato all’adozione. Il bambno ha 18 mesi di età, quindi ha ben chiaro chi sono i genitori, ma stato civile, assistenti sociali e tribunale dei minori hanno un’altra idea dei legami filiali e genitoriali.
La terza notizia, di due giorni fa, è ancora più estrema: solo le leggende metropolitane si erano spinte a tanto. Una giovane donna di Chianciano, in avanzato stato di gravidanza, viene sorpresa a Londra, nella civilissima Londra, da una crisi depressiva e finisce ricoverata in un reparto psichiatrico. Già che ci sono i solerti terapeuti e gli avveduti operatori dei servizi sociali, si spingono fino a pensare che una così non avrebbe mai potuto affrontare il parto e tantomeno la maternità, quindi: sedazione, parto cesareo, estrazione di una bambina e l’avvio della procedura per la sua adottabilità. Possiamo rileggerlo come si vuole: ma questa notizia sta tra le leggende del furto di organi, nell’area di studio che sta tra Campion-Vincent e Schepher Hugues e le storie di maternità violate per motivi politici (le nonne di Plaza de Mayo in Argentina ne sanno molto) o per finalità di selezione razziale (la genitorialità negata agli aborigeni australiani).
In tutti e tre i casi, ciascuno sufficiente in sé a giustificare prese di posizione della società civile e degli opinion makers, si è invece manifestata una strana dis/attenzione: dettagli confusi, allusione, verbi al condizionale. Come se fosse possibile mediare tra vero e falso in casi come questi. Solo Voyager (alias Kazzenger) potrebbe permettersi di dire “sembra che una giovane donna si sia vista strappare la figlia dai servizi sociali”, senza curarsi del peso della notizia. Per tutte le altre fonti di informazione, dovrebbe invece scattare una ben diversa reazione: se è vera, è una notizia da prima pagina e da crisi diplomatica ma non per motivi nazionalistici (qualcuno ha scritto in proposito che non sarebbero state rispettate le convenzioni vigenti tra Italia e Inghilterra), bensì per delitto contro l’umanità.
Che cosa ci è successo, per non sentire il bisogno di appurare una storia che, ove verificata, si configurerebbe come un ritorno alla barbarie – ma alla barbarie nazista, non allo stato selvaggio! Che cos’è, se non meramente disumano, l’atto di estorcere un figlio dal corpo di una donna contro – o senza – la sua volontà? Come è possibile che una notizia così navighi verso le pagine di cronaca e, magari, finisca per approdare ai programmi pomeridiani tra un’infinità di altri finti processi e scandali del mondo vip? A questo ci hanno abituato le quotidiane storie di uccisioni di donne disobbedienti?
Che cosa ci è successo se in un paese come il nostro, dove migliaia di studenti – pur dichiarando redditi familiari inesistenti –, possono ostentare auto di lusso e ammennicoli ipercostosi di fronte a funzionari pubblici che “non vedono” e si riparano dietro le scartoffie delle dichiarazioni Isee?! Nessuno trova anomalo che un ufficiale di stato civile “si ricordi” di non aver in precedenza visto nessun segnale di gravidanza nella donna che gli si presenta a dichiararsi come madre? E come è possibile che le procedure di accertamento della verità biologica siano scattate e proseguite senza blocchi fino all’esito finale?
Lasciamo stare l’aspetto del danno ai diritti del bambino che si è visto a 18 mesi sottratto alla cura ed all’affetto di chi aveva fatto carte false per averlo (letteralmente); fermiamoci all’aspetto della “rivolta” del funzionario di stato civile: ha dato ascolto alle voci di paese? ha constatato di persona? Si è prestato ad una rappresaglia locale? Sono stati applicati gli stessi criteri di “messa in dubbio” di fronte a tutte le altre dichiarazioni? E come ci si comporta, per conseguenza, con i figli bastardi, quelli che ogni paese conosce come tali e di cui riattribuisce, per somiglianze, paternità e financo la maternità?
Simonetta Grilli, nei suoi lavori sulle nuove famiglie e sui nuovi legami di genitorialità, ricorda come in passato la genitorialità era un effetto secondario del legame matrimoniale e come, in vece, oggi è anche effetto di una dichiarazione[2]. Domani sarà il risultato di un percorso di analisi biologica? Di quale verità abbiamo deciso di fare uso, nell’amministrare il nostro diritto alla cura filiale ed all’impegno genitoriale?
La prima storia, quella della coppia rom è andata a finire in un modo che non ha trovato troppa attenzione, nei giornali e nei programmi nazionali: la bambina non era figlia di coloro che si erano dichiarati genitori; ma non era neppure stata rapita e non era neppure bionda.
Un’altra coppia, rom anch’essa, con altri figli, albini – da cui l’equivoco sulla biondezza – ha chiesto aiuto per crescere una figlia che non riusciva a sfamare.
Una figlia ceduta: una figlia accolta, non rapita; quante storie come questa sono celate – quando non orgogliosamente rivendicate – nelle nostre storie familiari? Quante coppie sterili hanno cresciuto come propri figli, i figli generati da altri parenti, consanguinei o affini, che non riuscivano a crescerli in salute? Quante coppie infertili nobili hanno fatto ricorso ad una “donazione” informale trovando così una propria continuità nella persona di un figlio altrui?
La storia della figlia rapita, seppure maturata in quella zona di margine che le società occidentali hanno riservato ai gruppi rom, è invece esemplare di una pratica della genitorialità come scelta, come negoziazione tra esigenze e risorse, come costruzione di reti sociali e riconoscimento – o presa d’atto – della imperfetta condizione umana!
Altro che zingara rapitrice!
Al contrario, le altre due storie, da cui sembrano ristabilirsi la verità biologica e il primato della sanità mentale, stanno lì a negare questo valore culturale della scelta genitoriale e delle pratiche che la fondano e la sostanziano e a renderci visibile lo strapotere di un piano formale/burocratico che fa corpo con l’evidenza della verità biologica. Senza contare il supporto della morale comune, o del comune senso della genitorialità che, in questa compagnia, attribuisce a queste storie terribili di violenza strutturale, la loro parvenza di rispetto delle norme, il loro potenziale di ragionevolezza.
Le tre storie terribili, e – ribadisco – il loro scarsissimo rilievo, stanno a dirci che c’è un piano inclinato sul quale l’intera materia della maternità/paternità, della sfera privatissima della costituzione di nuclei di familiarità, dei diritti individuali non negoziabili, dello squilibrio tra certezze bio-mediche (il test del DNA, le diagnosi psichiatriche) e procedurali (il diritto di intervento dei servizi sociali e delle istituzioni che tutelano i minori), assieme alla delicatezza dei singoli casi, sta scivolando sempre più velocemente verso l’aberrazione di un mondo che mentre difende il diritto all’esistenza in vita congelata di migliaia di embrioni, lascia affondare singoli individui, privati del più elementare dei diritti: quelli di essere amati e di poter amare. È questo uno dei tanti modi in cui la nostra società contemporanea si sta mitridatizzando, abituandosi a dosi di violenza strutturale sempre più frequenti e crescenti, fin quando non ce ne accorgeremo più, o, come già sta accadendo, ci limiteremo ad inarcare il sopracciglio, e ci convinceremo che se è andata così, chi lo ha fatto, avrà avuto le sue buone ragioni.
Note
[1] S. Tosi Cambini, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), Cisu, Roma 2008.
[2] Cfr. S. Grilli, F. Zanotelli (a cura di), Scelte di famiglia. Tendenze della parentela nella società contemporanea, ETS, Pisa 2010.