Passata è la tempesta

Una riflessione a margine della drammatica alluvione che ha colpito la Sardegna

Nel momento in cui provo a produrre una riflessione generata (ma non solo) dalla dura alluvione che ha colpito la Sardegna – anche la Sardegna –, penso a come si percepisca lucidamente, persino partendo dalla nostra corporeità, la realtà di un cambiamento profondo, generale. A come esso attraversi le usuali analisi critiche allo stato di cose presente.

Intanto è un cambiamento che investe il Mediterraneo e che ripropone, paradossalmente, ma non troppo, un aggiornamento della Questione Meridionale e delle sue radici, dei suoi luoghi. Ritmi e pensieri meridiani devono ora anche includere la nascente dimensione tropicale…! Un mutamento intimo, che incide direttamente sul destino di paesaggi pregiati che sono risorsa eccellente di isole e mezzogiorno d’Italia, assieme naturalmente ad una nuova, potente aggressione da parte del “capitalismo energetico”.

La potenza inusitata dell’ordine del discorso dominante si somma dunque alle scansioni epocali di routine planetaria, mettendo in atto un mutamento così profondo al quale è necessario rapportare nuovi sistemi di attenzione territoriale. La “straordinarietà” si trasforma in “ordinaria negoziazione”, facendo passare in sordina le grosse responsabilità politiche (ad eccezione di qualche timida denuncia).

Ora possiamo dire che la Sardegna partecipa di un dissesto territoriale e idrogeologico preoccupante, di premesse antiche ma di logiche radicate nella modernità; se questo dissesto – non solo della nostra isola, ovviamente – ricorda quello narrato da Platone nel suo Crizia (scritto in un’epoca nella quale si iniziava già a percepire in maniera distinta, nelle poleis sviluppate, il senso del concetto di “contabilità ambientale”), nella realtà è moderno, anzi assai contemporaneo. Si tratta di un dissesto che si associa ad una politica che oggi cerca di andare avanti guardando però al passato, facendo finalmente i conti con quella legge Galasso del 1985, annidata nel Codice dei Beni culturali e del paesaggio, le cui norme provarono a costruire un contenimento agli effetti drammatici della ricostruzione capitalistica del paese nel dopoguerra, del suo boom economico imperniato su gomma, asfalto e cemento.
Se per un versante, però, è certamente importante difendere quelle conquiste giuridiche – il tentativo, cioè, di salvare almeno la linea e il fronte delle tutele interpretate dal precedente Piano Paesaggistico Regionale della giunta Soru –, dall’altro non è affatto sufficiente.

Gli attori dell’attuale scena politica, non c’è che dire, agiscono in maniera del tutto schizofrenica. Per un versante abbiamo assistito al polverone della polemica e dell’indignazione contro il devastante Piano Paesaggistico del proconsole berlusconiano Ugo Cappellacci; dall’altro, quest’ultimo, pur maledicendo il fato, i mutamenti climatici e la “catastrofe millenaria” corre cinicamente da una conferenza all’altra per presentare la sua infallibile strategia volta ad autorizzare cementificazione e consumo del territorio – chiaramente dopo aver cancellato i fondi per la protezione idrogeologica, nel Piano di cui sopra. L’impressione è che in questo gioco delle parti nessuno appaia realmente in grado di recitare il ruolo di chi propone e legge il territorio dal punto di vista delle comunità che ci abitano. Anche nei casi in cui la volontà politica e civile sembra animata dalle migliori intenzioni di cura dei territori – aspetto comunque non irrilevante, perché una maggior cura è senz’altro auspicabile –, ciò che si avverte è un’incapacità di fondo di pensare altrimenti: pensare nuovi quadri di riferimento, nuovi criteri di giudizio, la costruzione di un senso diverso di appartenenza ai luoghi e del loro abitarli, la gestione del sistema dei beni comuni ad essi relativo. E, soprattutto, saper vedere il lavoro, il ruolo, che i lavoratori cognitivi vi giocheranno – il processo è già in atto – come intellettuali organici alle varie comunità.

Le tutele classiche, infatti, che già versano in una profonda crisi giuridica e istituzionale, non offrono alcun valido sostegno per pensare altrimenti. Senza un’idea di paesaggio che significhi anzitutto sviluppo sostenibile della vita umana e capacità – si chiama propriamente “democrazia” – di decidere del destino dei luoghi, ci troveremo, anche con le migliori delle norme urbanistiche e l’applicazione integrale e arcigna degli articoli della legge 42/2004, a tamponare i danni di luoghi vissuti male e abitati ancora peggio.

Fuori dalle istituzioni e dalle codificazioni vigenti, questa idea sta però innervando nuove pratiche collettive territoriali, in maniera forse discontinua e talvolta imprudente, ma crescente. Realtà di resistenza e proposte di autodeterminazione da parte di migliaia di cittadini, tra di loro in collegamento fisico e digitale; comitati che esprimono irriducibilità alla ragione del sacco del territorio e avanzano l’esigenza di luoghi diversi.

La gestione dei beni comuni presuppone infatti un uso profondamente diverso del territorio, la sua bonifica, il lavoro della terra e quello cognitivo. Più che un’idea romantica, oppure utopistica, si tratta di fattori che incrociano uno snodo storico decisivo, relativamente a chi debba governare il principale mezzo di produzione (per l’appunto, il territorio) e averne, in termini classici, la proprietà.

È evidente come tale “proprietà” sia sempre stata storicamente importante, ma oggi il punto di scontro e di caduta è più acuto: lo scontro fra la visione capitalistica del consumo del suolo e il tentativo di sottrarsi ad essa attraverso la democrazia dei beni comuni si muove su un crinale storico, come tutti quelli di vera crisi, drammatico.

La resa dei conti verso le tutele inaugurate dalla legge Galasso e dal suo sistema di norme avviene nella fase terminale del sistema classico della tutela, sia normativa che istituzionale. Nel corpo non “omogeneo” delle classi dominanti, accanto a una serie di azioni dirette, potenti e rinnovate di aggressione del territorio (ad esempio da parte del “capitalismo energetico”: da questo punto di vista la Sardegna è attualmente sottoposta ad un attacco senza precedenti da parte di ENI, SARAS, padroni dell’eolico e poteri delle centrali termodinamiche), emergono strategie più attente all’ambiente, coscienti del rischio che una tale risorsa produttiva possa esaurirsi, e con essa importanti attese economiche. Lo dimostra la cura particolare che elementi non certo marginali di tali classi dominanti riservano allo sviluppo di cultura e paesaggio, con scenario ed espressione comunicativa di prestigio nelle iniziative, ad esempio, dello stesso “Sole 24 Ore”.

Non desta dunque sorpresa che cultura e paesaggio (scelta strategica della formazione del lavoro cognitivo in questi campi), critica alla cementificazione, e persino l’esigenza di risanamento e bonifiche, siano ormai parole d’ordine presenti nella comunicazione espressa dai circuiti culturali più attenti delle classi dominanti (in Sardegna, anche di recente, in un convegno del FAI assai critico contro il Piano Paesaggistico di Cappellacci).

Settori più avvertiti della “borghesia” colgono quindi le possibilità dei sistemi pregiati di paesaggio e dei beni culturali, coniugati con le nuove tecnologie e l’industria del tempo libero, e i rischi contro tali possibilità. Vi è il progetto nascente di una gestione privata e speculativa, nobilitata da obiettive ricadute, ma parziali e assai selettive sui monumenti e i contesti naturali “di rarità e pregio” (tali da far rivoltare nella tomba Ranuccio Bianchi Bandinelli), e non sulle reti dei paesaggi e dei luoghi.

Il confronto è fra una gestione democratica e partecipata del “territorio bene comune”, che dia sostanza reale alla vecchia intuizione democratica del “pubblico”, e l’uso privatistico del territorio, nelle sue forme neo-antiquarie ed estetizzanti. È un confronto storicamente assai interessante, che vale la pena abitare, e rendere esplicito. La crescente pratica sociale di comitati e collettivi territoriali, la centralità del ‘nuovo lavoro’ e lo sviluppo della teoria dei beni comuni, con le nuove proposte di sistemazione giuridica in atto da parte della Costituente dei Beni Comuni, sono vie privilegiate per tale esplicitazione.

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