In Turchia, il 21 di marzo, Twitter è stato dichiarato fuorilegge dal governo. È stato bannato. Vietato. Escluso. E, poiché una rondine non fa primavera, il 27 di marzo anche YouTube l’ha raggiunto. I social media fanno male? Forse. In ogni caso, migliaia e migliaia di turchi hanno aggirato il ban tramite cambio di dns, uso di vpn o di tor, e hanno continuato a twittare e a postare dei video.
Già, del resto come si può solo pensare di chiudere Internet? Non si può. Internet, la patria dell’anarchia virtuale, non ha porte se non quelle che lo legano a un computer. Per chiudere Internet si dovrebbe staccare la spina o chiudere l’erogazione dell’energia elettrica nel paese e questo, al momento, non è stato previsto.
Ora, la decisione del governo turco di chiudere Twitter e YouTube è tragicomica. Tragica perché viola la libertà di espressione dei cittadini; comica perché anche i politici che fanno parte di questo governo continuano a twittare come se nulla fosse: un cinguettio è sfuggito persino al presidente della Repubblica Abdullah Gül, noto politico canterino.
Insomma, in teoria Twitter e YouTube – a quando Facebook? – sono chiusi. Sono chiusi perché sui social media dall’inizio della rivolta turca, quella cominciata con i fatti di Gezi Park, si condividono le informazioni. Purtroppo, i media mainstream turchi non sono stati molto presenti. Ricordo che all’inizio della protesta, mentre la CNN International mandava le immagini degli scontri, la CNN Turchia mandava splendide immagini di documentari sui pinguini. Quest’assenza dei media mainstream è stata colmata dall’operato di diversi citizen journalist, da diverse persone che hanno deciso di controbilanciare sia la lacuna delle notizie non date sia di quelle date ma in maniera errata. Tra queste persone ci sono anch’io.
Fino alla fine di maggio avevo usato i social solamente per postare, sporadicamente, le recensioni dei libri che leggevo. Collaboravo con un’agenzia letteraria turca – che avrebbe dovuto cercare un editore per un romanzo che ho scritto – e recensivo libri italiani dal catalogo Minimum Fax ed Einaudi. La paga era inesistente, ma mi permetteva di fare quel che mi piaceva: leggere. Dopo che avevo recensito il libro per l’agenzia tagliavo diverse parti, giravo il commento in italiano e lo postavo. Entravo sui social solo quando dovevo spammare e poi ne uscivo, di corsa.
Non mi piaceva vedere tutta quella moria di quadrupedi insieme ad autoscatti pretenziosi che prendono nel linguaggio comune il nome di selfie. Nota: scordarsi Van Gogh. Ma quando in Turchia è cominciata la protesta, e in Italia non passava nessuna notizia, ho deciso di mandare un tweet a centinaia di persone enfatizzando quel che stava succedendo; mi ricordo che ho usato impropriamente l’espressione “guerra civile” prima nei tweet e poi in un pezzo che ho scritto. L’ho fatto apposta. Volevo attirare sulla protesta più attenzione possibile. Prima delle persone, però, ho contattato diversi media mainstream.
Ma dato che giornali tipo La Repubblica e Corriere Della Sera non mi rispondevano, e nemmeno Il Fatto Quotidiano e Huffington Post, sono passato oltre. Ho capito che difficilmente questi media mi avrebbero “creduto” e allora sono andato a rompere le scatole direttamente alle persone. Molti nomi noti del panorama politico italiano chiaramente non hanno risposto, e così cantanti, attori, soubrette, eccetera. Dovevo parlare alla gente come me, anche se in realtà non sapevo chi fossi – e, sinceramente, non lo so tuttora. Ma a forza di provare ho trovato i nomi giusti e grazie ai loro retweet gli articoli che scrivevo hanno raggiunto un esiguo numero di persone che si documentano anche attraverso vie non convenzionali.
La mia idea sui social, da quel momento, è cambiata. E al posto di domandarmi “se i social media fanno male?” ho cominciato a pensare se, invece, potessero fare del bene. Ci ho creduto davvero. Ci ho creduto perché vedevo che non ero il solo a postare delle foto di quel che succedeva, a documentarmi, a scrivere e a lottare affinché le notizie vere venissero a galla nel marasma della disinformazione; e forse ci ho creduto poiché nel mese di giugno, al centro dell’attenzione, non ho fatto molto caso a chi mi seguiva.
Da giugno ho cominciato a vivere attaccato a Twitter 24 ore su 24, una specie di malattia. Una malattia che, comunque, mi ha salvato la pelle. Non scherzo. A volte, durante le tre settimane di occupazione di Gezi Park, non si vedeva altro che il gas sparato dalle forze dell’ordine e il fumo delle barricate date alle fiamme. L’unico contatto con il mondo esterno era il telefonino, l’unica cosa che potessi vedere.
Su Twitter – come nella vita reale oserei dire – il fatto di “seguire” delle persone al posto di altre è molto importante. Faccio un esempio: una sera vengono segnalati degli scontri in piazza Taksim, a poca distanza da Gezi Park. Io in quel momento ero a casa, come potevo sapere se era vero o no? Una giornalista incompetente scrive che è tutto tranquillo, un semisconosciuto blogger invece dice che è un macello; i tweet mi arrivano sullo schermo uno dopo l’altro, entrambe le persone dicono di stare sul posto.
Grazie al controllo incrociato con altre fonti riesco a capire che la giornalista è una bugiarda, non era lì, probabilmente twittava da casa sua (se a Istanbul o altrove non so). Quando la sera del 15 giugno Gezi Park è stato sgomberato io ero lì e mi sono salvato solo grazie all’aiuto di un telefonino e alle fonti che avevo selezionato. Devo molto a Manolo Luppichini; che non era lì ma è come se ci fosse stato. Certo, è probabile che non sarei morto. Al massimo avrei preso un (altro) po’ di mazzate. Ma il fatto di seguire le giuste fonti ha permesso la fuga non solo a me ma a tantissime altre persone. E questo non solo nel parco ma persino in un albergo, il Divan hotel, nel quale ci eravamo rifugiati durante lo sgombero e che poi è stato assaltato dalle forze dell’ordine, siamo scappati dalle cucine. Allora, fa bene internet? Dipende.
Durante gli eventi di Gezi Park ho racimolato talmente attenzione, sui social, che persino i Wu Ming si sono accorti di me e mi hanno proposto di realizzare un reportage. Testimone a Gezi Park è uscito a fine giugno su Giap, il loro blog. È stato l’inizio della caduta nell’oblio. Il parco sgomberato di Istanbul è stato superato dalla guerra civile, questa sì, che c’è stata in Egitto. E poi piazza Tahrir è stata dimenticata per la rivolta in Brasile. E poi Grecia, Bulgaria, persino la Germania con Amburgo. Ogni settimana, del resto, c’è una nuova rivolta. Così dopo un po’ di Venezuela, in sordina, siamo arrivati all’Ucraina. L’unica resistenza della quale si parla poco, mi sembra, è quella siriana. Comunque, nel momento in cui la rivolta turca non è stata più à la page mi sono ritrovato di nuovo da solo, o quasi. Perché?
Non l’ho capito immediatamente, l’ho dovuto prima metabolizzare per poterlo analizzare. Mentre i morti aumentavano in Turchia fino a raggiungere il numero di dieci l’attenzione dei clickativist si era spostata altrove. All’ultima protesta. E allora Gezi Park era stata solo una sveltina? Non lo so. Ma con il passare del tempo, divenendo le notizie di morti e feriti una normalità, con il romanzo che avevo ricavato dal reportage rifiutato da più di cinquanta editori italiani (compresi quelli in teoria impegnati), ho perso la voglia di scrivere a ritmi forsennati e ho cominciato a riflettere sul fatto che Internet fosse solo un contenitore vuoto fatto per essere riempito a nostro piacimento. E nell’era delle immagini sono pochissime le persone che vogliono approfondire, che non si accontentano di vedere un’immagine ma vogliono leggere per capire quel che succede. Ma le immagini vincono, sono più fruibili e hanno un impatto immediato. Che queste siano selfie, lotte, cani, gatti, piedi… tutto va bene.
Tutto va bene purché sia controllato – non solo le foto. Edward Snowden non ci ha forse avvertito di cosa sono capaci quelli della Nsa (National Security Agency)? Lo sapevate che questa società può accedere ai dati da Skype e Facebook? Non solo. Sono in grado di monitorare non solo i click che un utente fa ma anche i non click poiché Facebook traccia anche gli aggiornamenti sugli status che gli utenti cominciano ma non finiscono ed eliminano, in modo da capire meglio perché le persone decidono di non pubblicare. Negli Stati Uniti, addirittura, con un controllo incrociato tra social media, spese al supermercato via internet e voto elettronico, la Nsa controlla quasi tutto lo scibile umano. E poiché Obama ha ottimi rapporti con le cancellerie europee non è da escludere una ramificazione di questo sistema.
Ma allora perché la gente continua a digitare sui social? Bella domanda. Spesso perché le persone ignorano questi processi, un po’ perché se ne fregano e qualche volta perché non hanno molto da dividere se non autoscatti e gossip dell’ultima ora. È un mondo difficile. Eppure, io sento il bisogno di correre il rischio di essere visto come un pazzo mentre dico questa cosa. No, niente rivelazioni. E nessun abuso del mito della caverna, vi risparmio Platone.
Semplicemente avverto la necessità di non rimanere ignavo davanti ai fatti, siano questi belli o brutti, della vita reale come di quella virtuale. È una gran fatica, lo ammetto. E il fatto di vedermi ogni giorno sorpassato da incompetenti mira la mia autostima. Quando continuo a leggere delle cazzate enormi sui giornali, sulla Turchia come altrove, però non posso rimanere lì a guardare.
Già, tutto il mondo è paese. Eppure i social media in Turchia, in generale, vengono usati in maniera differente rispetto all’Italia. Se n’è accorto persino Paolo Giordano a cui il Corriere Lettura ha lasciato carta bianca per un articolo di costume sull’apertura del Marmaray, la metro che passa sotto al Bosforo e collega il lato europeo con quello asiatico. Che volevate che davano l’opportunità a uno che risiede in Turchia? Certo che no. Avevo smesso di usare “guerra civile” da tempo ma la guerra incivile che pongono i media mainstream agli Uomini in rivolta 3.0 è niente rispetto a una consapevole bugia. Del resto oggi Camus è molto più semplice da vendere, no?
E poi è sempre più facile preoccuparsi delle rivolte da lontano, senza approfondire. Per l’Italia e le sue disobbedienze, invece, poche speranze. Se non mi credete chiedete ai No Tav o ai No Muos, bizzarri fenomeni di costume locale, come vengono trattati dai media mainstream; e magari guardate che uso smodato che fanno dei social e capirete che per loro la rete fa bene, a meno che non sia una retata.
Comunque, mentre scrivo questo pezzo Erdogan ha vinto le elezioni amministrative, brogli inclusi. La chiusura dei social gli ha dato ragione. Non solo. Oltre ai social l’intelligence turca ha deciso di chiudere persino il rubinetto di Google. Il boomerang preventivato dagli analisti non si è realizzato e lo “schiaffo ottomano” l’hanno preso loro, non lui. Allora i social fanno male? E a chi?
I social, come tante altre cose nella vita, non fanno né bene né male. Sono uno strumento: potente e pericoloso se usato in un certo modo, debole e innocuo se usato in un altro. In un mondo che corre verso l’ultimo morto e l’ultima notizia drammatica, però, capisco che non è facile districarsi.
Se non leggi i giornali non sei informato e se li leggi sei informato male. I social integrano le lacune dei media mainstream, ma non le eliminano del tutto. La ricerca della cosiddetta verità costa uno sforzo enorme e quello che si raggiunge è solo una porzione. Ma in un mondo dove l’informazione è controllata bisogna correre il rischio di vedere, di pensare e di scrivere. Di scrivere quel che si vede. Di essere testimoni. E pazienza se la Nsa, o chi per loro, ci controllerà. Gli daremo in pasto le nostre idee e le nostre idiozie. Chi non risica non rosica. Ed io non vedo l’ora di essere accusato del reato d’opinione.