Il dibattito tra sostenitori del Sistema di Valutazione Nazionale e i suoi oppositori si fa sempre più acceso. Pubblichiamo un tentativo di “recensione comparativa” in due puntate che lo riprende e rilancia.
Recensione a Alma matrigna. L’università del disincanto (Imprimatur, 2013) di Pier Luigi Celli e Valutare e punire (Cronopio, 2012) di Valeria Pinto.
L’atmosfera patinata è quella dello spettacolo serale, da vestito importante. Il grande lampadario che pende dal soffitto affrescato dello storico Teatro non riverbera la luce su attrici e attori, non illumina maschere e costumi. Tre meritoveli studenti e poi tre acclamati professori selezionati dal gradimento delle utenze, del pubblico plaudente, ricevono ora dalle mani di un paterno magnifico rettore – ancor di più magnifico nel suo abito scuro – ringraziamenti, incitamenti e gratifiche professionali. Nel frattempo, forse in un oscuro scantinato della sede storica i loro omologhi non meritevoli, gli ultimi in classifica, i poco graditi, vengono svestiti delle nobili insegne accademiche. Espulsi dall’istituzione come punizione per non aver neanche provato a primeggiare, per non aver prodotto una tangibile e spendibile esperienza di ricerca e di studio. Premi e punizioni, buoni e cattivi. Il rinnovamento dell’insegnamento, la meritocrazia tra gli studenti. Non si tratta di uno scenario distopico, del quadro un po’ inquietante di un futuro totalitario come in una puntata della serie tv britannica Black mirror. È invece quanto sta cominciando a prender corpo, da Venezia a Genova, passando per Padova, dell’Università della valutazione e del merito, dell’istituzione demiurgicamente modellata dagli strumenti statistici approntati dall’ANVUR. Valutazione e autovalutazione, customer satisfaction, scatti di anzianità nelle carriere degli insegnanti determinati dai questionari di valutazione compilati dagli studenti, e in caso di esito negativo possibilità per i ricercatori di non vedersi rinnovato il contratto.
Forse si tratta del nuovo che avanza anche in un mondo chiuso e autoreferenziale come l’accademia italiana. Non bisogna temere il giudizio degli studenti, pardon delle utenze, se si rende un servizio di “qualità”. È quanto prova a spiegarci nel suo ultimo libro (Alma matrigna. L’università del disincanto) Pier Luigi Celli, dimissionario nel luglio 2013 dalla carica di direttore generale della LUISS ed ex quotato manager di aziende statali e partecipate, anche nel campo dell’industria culturale (vedi le sue gesta da direttore generale RAI alla fine degli anni ’90). È un pamphlet sul crepuscolo dell’accademia italiana osservato con disincanto da una comoda altura manageriale. Certo, i toni del libro non sono paragonabili all’accorato appello a fuggire dal destino professionale del lavoratore italiano che il noto manager scrisse – a mezzo quotidiano nazionale, in una riedizione tecno-chic di “C’è posta per te” – al figlio Matteo. Con polemica ironia Celli ibrida la forma tradizionale del saggio con intermezzi narrativi, gallerie di “leggende ricorrenti” nel mondo accademico, rappresentate nella forma del rovesciamento onirico: c’è la gattopardesca riunione dei Dipartimenti per aggirare le nuove norme sulla valutazione della ricerca, c’è il giovane allievo beffato dal mentore-barone, c’è lo studente-lavoratore che si vendica di un relatore strafottente, c’è l’accademico narcisista geloso del proprio orticello teoretico, c’è lo studente all’ultimo esame scisso tra la necessità di rispondere opportunamente alle domande e il desiderio di confronto critico con l’esaminatore, c’è infine l’immancabile e kafkiana attesa in segreteria.
Ma è la cornice teorica quella che ci interessa, l’insieme di pragmatiche critiche e utili consigli che Celli prodiga pro domo et mundo (imperdibile, per i fan delle Dodici Tavole, il decalogo della matricola alle pp. 111-118). E se gli utili consigli invitano giovani ricercatori e studenti a lanciare il cuore oltre l’ostacolo, ad osare creatività ed autoimprenditorialità (cfr. il cap. Essere giovani oggi, pp. 38-40) come se il dramma degli under 40 italiani fosse la tossicodipendenza da chimerico impiego statale a tempo indeterminato, le pragmatiche critiche offrono una gustosa insalata da libellistica sulla didattica delle competenze e sfrontate filippiche sul conservatorismo accademico. Non mancano dunque i richiami a recuperare l’orizzonte di senso dell’azione didattica, interessi questa la scuola o l’università, perchè in questo orizzonte di senso è iscritto il futuro, la capacità per i giovani di collocare la propria azione professionale nel lungo periodo, di recuperare quel «futuro-passato» koselleckiano, motore dei cambiamenti nel presente storico. Purtroppo per noi questo orizzonte è quello corto, cortissimo, dell’impresa. Secondo Celli il sistema d’istruzione italico s’è ammalato nel corso dell’ultimo ventennio riformatore di una «deficienza di afflato morale e strategico», del «misconoscimento del fatto che non sono le tecniche a fare difetto, ma le virtù civili ad essere desuete e delegittimate nei fatti» (p. 24).
Concorsi truccati, vassallaggio accademico, assenza di pianificazione e progettazione didattica, difesa di interessi corporativi consolidati. Quali sono le cure proposte dal navigato manager? Quale taumaturgico impegno collettivo permetterà alla scuola e in particolare all’università – organismo quanto mai chiuso e autoreferenziale – di recuperare l’afflato morale e strategico? La requisitoria celliana verte su due hotspots delle riforme dell’istruzione forgiate dall’ultimo ventennio: agganciare la didattica delle discipline scolastiche e universitarie alla strategia OCSE sulle competenze ed elaborare una “buona cultura della valutazione”, distante tanto dall’impermeabilità di un certo mondo accademico a mettersi in gioco quanto dalla cecità delle tecniche ANVUR nei criteri utilizzati.
Sulla “rivoluzione delle competenze” l’ex dg LUISS tira per la giacchetta l’ormai proverbiale “testa ben fatta” di Montaigne[1] per poi cacciarla in un circolo vizioso dalla quale riemerge “testa flessibile”. Se i mercati del mondo globale richiedono una maggiore competitività e quindi una costante diversificazione e gerarchizzazione delle competenze del giovane laureato italiano – argomenta l’autore – allora il sistema d’istruzione deve adeguarsi, attraverso una rivoluzione delle strutture e dei metodi d’insegnamento, a questo stato di cose. E a dar manforte al proprio argomento Celli chiama in causa la riflessione di Margareth Mead, approfondita ed estesa da Gregory Bateson, sull’importanza delle forme e delle strutture attraverso cui è veicolato nel processo di apprendimento un determinato contenuto disciplinare:
È il contesto, generalmente inteso come sociale a innescare le domande di fondo e a sollecitare le risposte più costruttive. Servirebbe averla questa sensibilità. Aiuterebbe, se non a far a meno di riforme di legge surreali, almeno a scriverle avendo più chiari gli obiettivi. Tra i quali, una riflessione meno leggera sulla precarietà d’impiego dei prodotti del ciclo scolastico e universitario, porterebbe a considerare che l’accorciarsi del ciclo di vita delle competenze, unito alla frammentarietà dei periodi lavorativi non può veder consegnato alla pretesa tenuta e scientificità delle conoscenze impartite la capacità di armonizzare i contraccolpi di un mercato indifferente alle aspirazioni dei singoli. Serve una testa “flessibile”, che non ragioni solo per adattamento e succube (p. 30).
Come a dire, la realtà unica, il contesto inamovibile è il “mercato indifferente”, l’ultima incarnazione del fato. La razionalità didattica può solo adeguarsi a questo stato di cose mettendo in mobilità i saperi, prendendo atto delle competenze a tempo determinato trasmesse dall’insegnamento scolastico e universitario, licenziando quelle invecchiate e assumendone senza sosta di nuove. Insomma, per Celli l’assioma di base della formazione richiesta dal mercato è “sapere è affrontare un problema con un insieme flessibile – cioè usa e getta – di competenze”. La scuola e l’università sarebbero i canali di trasmissione di questa scienza triste abilitata a far passare gli schemi di orchestrazione delle possibili soluzioni a probabili situazioni problematiche. Quello che Celli presuppone, ritenendola una conclusione delle proprie osservazioni critiche è che la pedagogia delle competenze sia un riflesso pavido e ossequioso, una profezia teorica, della tendenza necessaria ad abbassare il costo del lavoro, subissando quest’ultimo di lavoratori/zecche,bruciati vivi dalla consunzione del problem solving aziendale.
Ma Bateson – di cui Celli vorrebbe farsi diligente ascoltatore – non intendeva certo la logica dell’apprendimento secondario nell’alveo della continuità neoliberale tra formazione e mercato del lavoro, tra competenze ed esigenze aziendali![2] Quanto invece alla “cultura della valutazione” Celli osserva come in un’agenda delle priorità da affrontare i metodi e gli strumenti approntati dall’ANVUR, il rating delle riviste scientifiche, gli indici bibliometrici e le cosiddette “mediane”, possono diventare espedienti retorici per manterenere gattopardesche posizioni di privilegio e centri nevralgici di egemonia culturale e politica:
Succede così che è sempre più facile – o, almeno, lo sarà – officiare carriere di ricercatori di indubbia qualità anche se didatticamente impreparati o… distratti, spingendo in secondo piano il valore stesso della didattica, così difficile da inquadrare nella purezza di un numero e restia a farsi consegnare alla “schiavitù” di un diagramma o di una tabella (pp. 52-53).
Quello che qui non s’intravede, per via degli alberi, è il bosco. È la costruzione stessa della cornice semantica della “ricerca di qualità” attraverso la presunta neutralità degli strumenti statistici dell’ANVUR: la valutazione se-leziona le buone pratiche di ricerca ed indica la strada per diventare buoni ricercatori.[3] In altre parole si tratta di orientare la pratica della ricerca secondo il principio spicciolo del “pubblica qua anziché lì!”, dello “studia nell’ateneo virtuoso!”, nella cornice di un meccanismo valutativo che distribuisce premi e punizioni. Concentrandosi sull’uso della valutazione come strumento di conservazione delle posizioni di egemonia accademica, Celli trascura invece ciò che rappresenta la posta in gioco nella trasformazione in senso comune della “cultura della valutazione”: l’oblio della libertà individuale nella ricerca come ethos di tutte le discipline accademiche, viste non come dispositivi di ri-produzione tecnica dei saperi, secondo criteri di efficienza e produttività, ma come ambiti di propensione attiva alla creazione di vita[4].
Note
[1] «Per un figlio di buona famiglia che si volga alle lettere, non per guadagno (perché uno scopo tanto abietto è indegno della grazia e del favore delle Muse, e poi riguarda altri e dipende da altri), e non tanto per i vantaggi esteriori quanto per i suoi personali, e per arricchirsene o ornarsene nell’intimo, se si desidera farne un uomo avveduto [un habile homme] piuttosto che un dotto [un homme savant], vorrei anche che si avesse cura di sceglierli un precettore che avesse la testa ben fatta che ben piena, e che si richiedessero in lui ambedue le cose, ma più i costumi e l’intelligenza che la scienza» (Michel de Montaigne, Saggi, Libro I, Cap. XXVI, tr. it. di F. Garavini, Bompiani, Milano 2012, p. 269). L’immagine tratta da Montaigne diventa proverbiale nel dibattito sulla didattica delle competenze con il titolo del libro di Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2000 e ha prodotto nei suoi lettori superficiali uno scivolamento dal piano originario della libertà d’insegnamento – la testa ben fatta è per Montaigne propria del precettore in grado di intelligere bisogni e relazioni – al piano del soggetto in apprendimento.
[2] Cfr. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, tr. it. di G. Longo e G. Trautteur, Adelphi, Milano 1977, p. 204: «Ciò che viene ignorato [a proposito dei progetti di “ingegneria sociale” come l’ingegneria neoliberale] è il fatto che gli strumenti della manipolazione sociale non sono martelli e giraviti. Un giravite non viene seriamente scandalizzato se in un’emergenza lo adoperiamo come un cuneo. […] Ma nella manipolazione sociale i nostri strumenti sono persone e le persone apprendono e acquisiscono abitudini più sottili e penetranti dei trucchi che il pianificatore insegna loro. Con le migliori intenzioni del mondo egli può allenare i bambini a spiare i loro genitori allo scopo di sopprimere in essi qualche progetto antagonista al successo del suo progetto sociale, ma siccome i bambini sono persone, andranno oltre l’apprendimento di questo semplice trucco: inseriranno questa esperienza nella globalità della loro visione del mondo e di conseguenza ne risulterà colorato definitivamente il loro atteggiamento verso l’autorità».
[3] Sull’orizzonte biopolitico della se-lezione attuata dai sistemi d’istruzione nella modernità liquida cfr. Sloterdijk P., Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’ “umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, ed. it. a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266.
[4] Paradossale e contradditorio perché come ha rilevato Foucault è nell’ambito della ricerca individuale, della tecnologia del sé che fa capo al socratico «conosci te stesso», che si stratifica e cresce in età moderna la stessa soggettivazione neoliberale; per una sintesi cfr. Foucault M., Tecnologie del sé, a cura di L. H. Martin, H. Gutman, P. H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 11-47 e , tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003.