Una voce. L’esperienza del Torino Mad Pride

Il Torino Mad Pride ha partecipato al convegno “Tanti modi per fare centro”, organizzato dall’associazione “insieme”, composta da familiari di utenti del Servizio di Salute Mentale di Torino. Di seguito, l’intervento di Luca Atzri curato da Riccardo Ierna e Luca Negrogno.

IL MAD PRIDE AL CONVEGNO “TANTI MODI DI FARE CENTRO”

Il convegno serviva ad affrontare un tema cruciale: come far funzionare i centri diurni, perchè queste strutture sembrano in crisi, condannate a rimanere lontane dai bisogni delle persone? Abbiamo chiesto a Luca Atzori di spiegarci come si è svolto il convegno, che rapporti il Torino Mad Pride ha con le altre associaizoni che si occupano di salute mentale, quali sono i temi che loro promuovono per trasformare i servizi.

Si può dire che il filo conduttore di tutte le attività del  Torino Mad Pride sia il tentativo di operare un docile “sabotaggio della normalità”. I paradigmi psichiatrici meritano, secondo noi, di essere sottoposti ad una critica folle, e saggia. Quel che vediamo mancare nella psichiatria è proprio la possibilità che dovrebbe offrire agli utenti di maturare consapevolezza sulla propria condizione. La psichiatria nasconde la follia anche agli occhi di chi la vive e questo risulta poco onesto agli occhi di molti, perché dimostra che di quel che sta accadendo agli utenti sa nulla. Quel che accade nei momenti di disperazione, di confusione, di delirio, non lo sa perché per reggere sé stessa deve riempire bene la propria pancia. La psichiatria comunica solo con l’esterno, con una cittadinanza impaurita dal disagio, dalla minaccia di vedere crollare le proprie certezze. Essa vende loro il sollievo di poter pensare che quella persona che tanto rende difficile la quiete, è solo un malato.

Il 28 febbraio abbiamo partecipato ad un convegno che si è tenuto a Torino nella sala polivalente Mario Operti, intitolato “Tanti modi per fare centro,  organizzato dall’associazione di familiari “insieme”, con la tematica dei centri diurni. E’ un’associazione che ha rapporti stretti con il Dipartimento di Salute Mentale. Come è normale pone in esso aspettative che talvolta rischiano di sfociare nell’affidamento. Questo punto che metto in luce non è esposto per porre una critica ma piuttosto per valorizzare l’intensità dei bisogni che emergono da questo tipo di associazioni i cui strumenti, però, sono spesso carenti. Questo a mio parere accade perché le voci dei loro figli sono messe su un piano minoritario. Erano presenti operatori di diversi dipartimenti che presentavano i loro progetti e vari psichiatri. Il punto di riferimento fra questi ultimi era Giorgio Gallino.

La domanda che ci si poneva era: “perché i centri diurni non funzionano più?”. La ponevano i familiari che avvertono un abbandono da parte dei servizi e una preoccupazione per quanto riguarda la gestione della quotidianità dei loro parenti. L’esempio che veniva presentato come emblema di questo era la chiusura del centro diurno di via Vassalli Eandi di Torino: un punto di riferimento per molti utenti. Gli utenti spesso hanno espresso insoddisfazione per quanto riguarda le attività che vengono loro proposte. Gli operatori ravvisano una carenza di valorizzazione della propria professione. Questa crisi, più che essere stata espressa, la si è vissuta. È agli occhi di tutti. Gli psichiatri stessi si domandavano, quindi, quale soluzione si potesse adoperare. La risposta era ovviamente assente, ma venivano fatte emergere diverse problematiche. C’era la consapevolezza dilagante che la struttura sociale che dovrebbe reggere la salute mentale, fosse pressoché inaridita fino allo spegnimento. Si sapeva che una buona risposta sarebbe potuta essere “perché vi siete dimenticati di guardare in faccia le persone che vi chiedono aiuto”. Eppure nulla emergeva. Per paura, in fondo. Perché ciascuno ha bisogno di poter contare sulla propria professione cercando di esercitarla al meglio, pur sapendo che il contesto intorno la sta riducendo a un servizio immiserito da una stupida e isterica regolamentazione.

Il problema principale che ci si poneva era quello concernente l’accreditamento dei centri diurni. L’accreditamento, rilasciato da enti istituzionali facenti parte del sistema pubblico, offre la garanzia che una struttura esterna offra determinati servizi, poste alcune condizioni che facciano rientrare le attività svolte all’interno di un determinato standard. I bisogni che vengono presupposti, sono però identificati dall’istituzione, non emergono “dal basso”.  Non avviene un’autentica contrattazione. Le strutture vengono accreditate in base a esigenze istituzionali confrontate con esigenze delle strutture. I bisogni degli utenti e quelli dei familiari non sono parte in causa all’interno di questo rapporto di negoziazione, ma sono piuttosto il “negoziato”. Tutti sapevano che accreditare i centri diurni significa gettare un enorme macigno sopra i reali bisogni degli utenti. Sapevano tutti che trasformare l’operatore sociale in una sorta di infermiere sociale significa soltanto togliere quella poca possibilità che questi professionisti hanno di trovare incidentalmente le relazioni di amicizia  sufficienti a far dimenticare il “muro del matto”. Sanno anche che non aprire a tutta la cittadinanza i centri diurni significa generare stigma.

Lo sanno ma sono costretti a raccontare quanto sia necessario che invece le cose vadano verso l’ il verso che si oppone al loro desiderio, e quanto loro si impegneranno a dare il meglio di sé stessi per far si che quella disumanità possa apparire un po’ più umana. Sono ricattati, perché è la loro professione. Perché il giudizio sull’ efficienza li aspetta a fine mese. E così, per magia, ecco che quella realtà che tanto disprezzano, la costruiscono con le loro stesse mani. Non li giudico. Sarebbe infantile. È raro, in fondo, che si lavori in malafede. Il lavoro è questo, ed è giusto che queste persone facciano il possibile per tornare a casa e dire “oggi ho guadagnato il mio stipendio facendo al meglio il mio lavoro”.

Il problema sorge quando gli utenti e i famigliari che vivono sulla loro stessa pelle il disagio della psichiatria, contribuiscono anche essi ad alimentarlo. Lì mi si para davanti una possibile risposta a quella domanda “perché i centri diurni non funzionano più?”. La risposta è che quelle strutture non lavorano minimamente a rendere consapevoli le persone che le frequentano, ma al contrario le intontiscono per far si che rimangano semplici “clienti malati” (o anche “clienti parenti” o anche solo “parenti”). Questo è paradossale, perché fa si che quegli stessi servizi da esse offerti, non funzionino. Ritengo che il Mad Pride, così come ogni realtà che voglia invece dare la precedenza ai bisogni degli “utenti in quanto cittadini”, abbia la potenzialità di creare un grande spazio che valorizzi il significato di quel disagio muovendosi intorno alla quotidianità delle persone. Camminare a fianco della vita di chi delira o di chi non riesce ad alzarsi dal letto, con occhi umani, non clinici. Dare alle persone una città che le conosca. Creare contrattazione fra i bisogni e le istituzioni. Chiederlo a gran voce, perché è un diritto. Partire quindi dal considerare che è una vergogna che molte persone vengano tacitate con atti di interdizione o contenzione. Schiaffare in faccia ai professionisti della salute mentale la responsabilità che hanno. Gridargli in faccia di svegliarsi, e iniziare a fare bene il proprio lavoro, senza avere paura che il delirio del matto li turbi.

Perché in fondo, quando Basaglia diceva “visto da vicino nessuno è normale”, intendeva anche che lui stesso faceva lo psichiatra perché aveva qualcosa da imparare da quel malessere che si proponeva di curare. E forse il suo sogno era proprio quello di far vedere in faccia a tutti il disagio che normalmente intendono nascondere. Forse è possibile essere soggetti politici solo dal momento in cui si scoprono i propri bisogni, quindi si ascolta e si accetta il proprio disagio e si cerca di trovare per esso soluzioni. Forse l’unica cura è proprio politica.

Per chi è interessato a scoprire altre attività del Torino Mad Pride, consigliamo la visione dei video che trovate qui sotto, sul progetto “Matti a cottimo”: un’idea innovative per sottrarre i più deboli al circuito infinito di falsi lavoretti, infiniti percorsi di inserimento lavorativo, soffocanti percorsi di formazione lavoro.

Print Friendly, PDF & Email
Close