Il manicomio criminale e i sentieri tortuosi della comprensione

Una riflessione di Lorenzo Urbano a partire da Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale, di Luigigiovanni Quarta, da poco uscito per Meltemi (Milano 2019).

 

«Non darti pena per prima. Qui nulla è come sembra. Bisogna capire. Bisogna solo capire».

Queste le parole con cui Gualtiero tentò di rassicurare Luigigiovanni Quarta dopo una particolarmente complessa presentazione agli internati di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) del suo progetto di ricerca, presentazione che aveva immediatamente turbato la precaria tranquillità di questi ultimi. Gualtiero, egli stesso un internato, aveva offerto queste parole a Quarta dopo una lunga conversazione, la loro prima conversazione. Una consolazione, forse, per non essere stato in grado di tenere il polso della situazione. Un consiglio, sicuramente, per come affrontare la lunga e assidua presenza in OPG. Parole che, in qualche modo, rimangono al centro di Resti tra noi, e dello sforzo di Quarta di farci comprendere, e comprendere lui stesso, un’istituzione opaca, spesso illeggibile, in apparenza monolitica e totale.

«Istituzione totale» è probabilmente l’etichetta di più facile applicazione ad un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Un’istituzione che al di sotto della sua presunta finalità terapeutica non fa che desoggettivare, sottrarre lo status di persona a coloro che vi rimangono intrappolati. Un’istituzione che, assieme al sapere psichiatrico che determina l’accesso dei soggetti al suo interno, produce marginalizzazione e sofferenza. Queste le rappresentazioni delle istituzioni totali a partire da Asylums di Erving Goffman, e le stesse rappresentazioni dalle quali la ricerca di Quarta prende le mosse. Senza dubbio, esse hanno una certa corrispondenza con l’esperienza etnografica dell’autore: «nella quasi totalità degli internati che ho conosciuto si potevano rintracciare forme di abbandono, di sradicamento. E forse questa considerazione più generale potrebbe essere estesa anche a molti agenti della Polpen [Polizia penitenziaria]» (264). Allo stesso ricercatore l’istituzione ha fatto resistenza, ha reso evidente che la sua era una presenza indesiderata.
Un’immagine sulla quale sembra esserci poco altro da dire, dunque. L’OPG come istituzione totale par excellence non soltanto emerge in quanto tale nelle storie degli internati, ma anche nel tormentato percorso di ricerca di Quarta, al quale è dedicato l’intero terzo capitolo, che riflette attraverso una narrazione dai toni fortemente autobiografici (forse, auto-etnografici) sulle dinamiche inclusive ed esclusive, sulle interazioni quotidiane utilizzando come lente i movimenti del ricercatore nel suo campo. E di nuovo, quello che pare emergere è un’istituzione che non accetta uno sguardo esterno, una prospettiva diversa da quella che intreccia da una parte il sapere psichiatrico e dall’altra la prassi detentiva. Ma nel corso di tutto il libro Quarta resiste alla tentazione di fornirci una spiegazione così immediata, che confermerebbe le numerose rappresentazioni degli Ospedali Psichiatrici (giudiziari e non solo) come spazi di desoggettivazione. Al contrario, «[l]a debolezza analitica di questi scritti risiede proprio lì dove essi edificano la loro forza narrativa, ovvero in una rappresentazione monolitica e unidimensionale di queste istituzioni, rappresentazione costruita attraverso un lessico che ammicca più alla semantica della morale che a quella della descrizione scientifica» (82).

«Comprendere» l’OPG significa invece non fermarsi alla sua natura di istituzione violenta e spersonalizzante. Comprendere significa prestare attenzione a quella dimensione di informalità, di incertezza, di negoziazione presente anche nella più totale delle istituzioni. Se «niente è come sembra», come aveva sostenuto Gualtiero, allora Quarta attraverso la sua etnografia cerca di mostrarci qualcosa di controintuitivo: anche nell’OPG, i soggetti mantengono una loro creatività, una loro capacità di agire, di muoversi negli interstizi lasciati dalle regole, dai codici, dalle norme, dalle terapie.

La prima e più immediata conseguenza è la possibilità di ripensare le stesse istituzioni totali. Nella rappresentazione che ce ne dà Quarta, l’OPG non è soltanto uno spazio in cui si produce marginalità e sofferenza. Sicuramente, la sua dimensione “violenta” non è trascurabile, ma essa non esaurisce la vita dei soggetti che si muovono al suo interno. Siano essi internati, personale sanitario, polizia penitenziaria, questi soggetti si muovono all’interno e attraverso reti di relazioni e significati che non sono mai dati una volta per tutte. Status sociali, confini, alleanze, hanno tutti confini frastagliati, porosi, costantemente oggetto di negoziazione da parte di chi li abita. Concetto chiave, quello di negoziazione, per scardinare l’edificio dell’istituzione totale e monolitica: impossibile all’interno di un contesto che si presenti come assolutamente rigido, è stata tuttavia la chiave di volta dell’esperienza etnografica di Quarta. E ancora una volta, non soltanto attraverso i racconti e le vite degli internati o del personale dell’OPG, ma anche del suo stesso percorso nei mesi di ricerca. Il suo tentativo di rendersi “leggibile”, riconoscibile agli occhi della Polpen come del personale sanitario, di trovare una collocazione e allo stesso tempo mantenere un certo grado di autonomia, mette efficacemente in evidenza quanto la quotidianità di queste negoziazioni sia realtà comunemente accettata, benché formalmente opposta alla rigidità delle norme che regolano la vita in OPG. Il racconto, proprio perché irrimediabilmente intriso di soggettività (in entrambi i sensi che questo termine può assumere), ci consente di accedere a quelle ambiguità e quelle prossimità delle esistenze condivise in quella istituzione adesso forse non più totale.

Ancora più radicalmente, Quarta si oppone all’idea che l’OPG, e le istituzioni in generale, agiscano in qualche modo. In molte delle rappresentazioni delle istituzioni totali, l’idea che ci viene più o meno esplicitamente comunicata è quella di una sorta di agentività dell’istituzione stessa, come se fosse superiore in qualche modo alla somma dei soggetti che la abitano. Resti tra noi ci offre invece una rappresentazione della vita e delle relazioni all’interno dell’OPG in cui quest’ultimo, nella sua dimensione “istituzionale”, sbiadisce fino a «tornare ad essere solo un oggetto» (273). Un campo, in senso bourdieusiano, sicuramente in grado di influenzare soggettività e habitus di chi lo abita ma attraverso le sue condizioni storiche e non una qualche “azione” autonoma. O meglio ancora, poggiando sui recenti lavori di Didier Fassin, un mondo morale, in cui si articolano le poste in gioco esistenziali ed etiche dei soggetti. Pensare l’OPG come iscritto all’interno di specifiche economie morali, come quella della punizione o della riabilitazione, e ai soggetti morali come coloro che, nel relazionarsi tanto con questi valori che reciprocamente, danno vita all’istituzione, ci consente di riportare l’attenzione dell’etnografia sulle vite, sulle esistenze delle persone.

A questo scopo, è possibile fare un passo ulteriore: dall’istituzione alle relazioni, dalle relazioni ai soggetti, alla costruzione del soggetto come soggetto etico. Nel quarto capitolo, Quarta riflette sull’unica verità che sembra inarrivabile, intoccabile: quella del sapere psichiatrico, della diagnosi, che sembra essere il «limite ultimo della negoziazione» (216). In una prospettiva “critica”, la stessa che legge l’OPG come monolito desoggettivante, potremmo dire che la diagnosi, l’assegnazione a qualcuno dell’etichetta di «folle», è l’ennesimo esempio di produzione di marginalità, una marginalità che in questo caso si ammanta anche di oggettività scientifica. Ma anche di fronte a questo limite il soggetto si mostra sempre creativo, capace di esercitare la propria libertà, in qualche misura. E così, attraverso due esperienze radicalmente opposte di negazione assoluta, da una parte, e di accettazione, dall’altra, della diagnosi, del giudizio e del percorso terapeutico da parte di due diversi internati, Edgar e Alessandro, Quarta ripensa il discorso del folle, utilizzando un linguaggio foucaultiano, come pratica di verità, come lo sforzo del soggetto di dire la propria verità su sé stesso, e in questo modo costituirsi come soggetto etico. L’obiettivo, di nuovo, non è necessariamente quello di mettere in dubbio la “verità” della diagnosi psichiatrica, o di presentare una “verità” di natura ontologica; pensare al discorso del folle come discorso che si vuole sempre vero ci mostra come questo discorso informi quelle poste in gioco etiche ed esistenziali che si articolano all’interno dell’OPG. Ci mostra, in sostanza, cosa fanno i soggetti di queste rappresentazioni che sono state loro assegnate.

Ritorniamo, infine, a Gualtiero, e alla necessità di «capire». Resti tra noi non si propone di offrirci una spiegazione di come funziona l’OPG, o le istituzioni totali più in generale. Giustamente, mette in evidenza le problematiche empiriche delle rappresentazioni “critiche” di questa istituzione. Altrettanto giustamente, non intende confutare l’epistemologia del sapere psichiatrico, o la “realtà” della malattia mentale. Proprio per questo motivo, a mio avviso, nemmeno Quarta adopera quella «descrizione scientifica» che, nel primo capitolo, oppone al linguaggio moralistico di chi dipinge i soggetti come schiacciati dall’istituzione. Al contrario, ponendosi pienamente in quella prospettiva che fa dell’empatia una condizione necessaria alla comprensione, il narrare, riflettere, descrivere, analizzare di Quarta è fortemente, per quanto diversamente, morale. Il processo del comprendere non è, non può essere, neutro e distaccato, perché come Resti tra noi efficacemente ci mostra esso si nutre delle relazioni che l’antropologo costruisce sul campo. Come sostiene nella prefazione Fabio Dei, non possiamo pensare di descrivere (e, aggiungerei, di riflettere su) le relazioni umane senza esplicitare il modo in cui noi, in quanto etnografi, ci posizioniamo al loro interno. «L’unica oggettività possibile consiste nel rendere visibili le condizioni del rapporto (…) con un campo così complesso» (11).

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