Come la pandemia ha accelerato la crisi dell’agroindustria

Con il termine Antropocene identifichiamo l’epoca geologica contemporanea nella quale l’azione umana condiziona fortemente l’ambiente terrestre nelle sue forme fisiche, chimiche e biologiche. Gli effetti dell’antropizzazione dell’uomo sono evidenti. Il cambiamento climatico ne rappresenta la sfida più grande. Per dirla con Jason Moore il nostro sistema economico estrae risorse dal nostro ambiente naturale esternalizzando i costi della riproduzione ecologica. Gli allarmi lanciati dagli esperti e le crescenti catastrofi naturali hanno promosso la nascita di protocolli internazionali sulle riduzioni delle emissioni di gas serra. A partire dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992 fino all’accordo di Parigi del 2016, il primo ad essere giuridicamente vincolante. Tuttavia, non si è mai ipotizzato (e forse mai immaginato) di poter fermare drasticamente le attività produttive per ridurre l’impatto dell’inquinamento. Eppure, l’esplosione della pandemia di COVID-19 ha cambiato gli scenari.
Sulla diffusione del virus esistono diverse teorie, ma una delle ipotesi più accreditate si focalizza sulla contiguità spaziale dei pipistrelli con gli allevamenti intensivi di suini. La necessità di produrre sempre più carne per rispondere ad una crescente domanda a livello globale ha spinto gli allevatori a farsi spazio fin dentro le foreste. La pratica di disboscamento non è certo una novità ma comporta la vicinanza di forme animali che hanno sempre vissuto in habitat distinti. Il primo salto del virus sarebbe avvenuto quindi dai pipistrelli ai suini. La densità degli allevamenti e un periodo di adattamento del virus a una biologia simile a quella umana avrebbe poi creato le condizioni per il secondo salto: dai maiali all’uomo.
Nel suo oramai famoso ‘Big Farms make Big Flue’ Rob Wallace traccia il modo in cui l’influenza e altri agenti patogeni emergono da un’agricoltura controllata da multinazionali. Se gli ecosistemi di questi animali non fossero stati stravolti dai processi di mercificazione delle risorse naturali e dall’intensificazione della produzione agroalimentare, il virus non avrebbe avuto probabilmente la possibilità di trasmettersi all’uomo e di diffondersi a livello globale. Questa pandemia è innanzitutto una questione di giustizia climatica che passa per una nuova politica ecologia. Infatti è necessario costruire nuovi approcci che tengano conto che in futuro la comparsa di nuovi virus sarà sempre più frequente.

Per rispondere alla propagazione del COVID-19 e limitare i contagi, i governi hanno limitato la libertà di circolazione dei cittadini e hanno imposto la chiusura delle attività produttive non essenziali. Il lockdown (nelle sue diverse forme) ha prodotto pesanti effetti sulle catene di approvvigionamento del cibo a livello globale.
La mancanza di lavoratori nelle campagne, l’impossibilità di trasportare una quantità di derrate sufficienti per soddisfare il fabbisogno dei consumatori e di farlo in modo abbastanza rapido, ha generato disequilibri all’interno del mercato globale. Alcuni paesi come India, Vietnam, Cambogia hanno vietato o bloccato le esportazioni di riso, gli Stati Uniti intendono ridurre quelle di grano, mentre in Europa i paesi produttori di pomodori hanno limitato i volumi dei prodotti in scatola.
L’effetto nel breve termine è stato l’incremento dei prezzi che ha generato forti tensioni sociali. I governi dei paesi occidentali hanno implementato alcune misure di sostegno al reddito ma nei paesi in cui mancano forme di welfare sociale (istituzionale o informale) sarà difficile contenere queste spinte. Nelle aree più povere delle megalopoli globali come Mumbai in India, Johannesburg e Città del Capo in Sudafrica, Rio in Brasile e Lagos in Nigeria si prevedono disordini e saccheggi per la mancanza o l’impossibilità di acquistare il cibo.
Ma in che modo i governi occidentali stanno provando a fronteggiare la crisi del sistema agroalimentare globale? Uno dei problemi più immediati è la mancanza di forza lavoro nelle campagne. Il governo italiano e altri paesi europei stanno lavorato alla riapertura dei flussi dei lavoratori stagionali provenienti dai paesi dell’est Europa.
Il governo inglese, inoltre, ha lanciato una campagna nazionale chiamata ‘Pick for Britain’ dove si chiede a studenti e disoccupati di raccogliere frutta e verdura. Una simile strategia è stata adottata da Coldiretti con il portale ‘Jobincountry’ che in pochi giorni ha collezionato cinquemila domande. Come testimonia uno dei responsabili del progetto : ‘Qui il telefono squilla in continuazione. La maggior parte di quelli che chiamano sono ex addetti al turismo: cuochi, camerieri, personale stagionale degli hotel o degli stabilimenti balneari, che cercano un’alternativa’. Sembra quindi prodursi un esodo di lavoratori dai settori più duramente colpiti dalla pandemia, come il turismo, verso il settore agroalimentare. Soggetti che sono spinti dalla necessità di trovare nuove forme di sostentamento.
Queste soluzioni possono fronteggiare la crisi nel breve periodo, ma quali possono garantire la produzione sostenibile (economicamente, socialmente ed ambientalmente) di cibo nel medio e lungo periodo? I dati sul finanziamento delle food startup ci indicano un forte interesse per i business che stanno lavorando alla produzione di carne vegetale. Tuttavia, è la Cina il paese che sta implementando la strategia di digitalizzazione dell’agricoltura più ambizioso a livello globale.

Il paese di Xi Jinping è tra i più grandi importatori di derrate alimentari al mondo e la migrazione dei giovani dalle campagne nelle città ha lasciato circa 250 milioni di agricoltori in età avanzata nelle aree rurali. Per ridurre le importazioni ed ovviare all’invecchiamento dei lavoratori il governo cinese nel piano di sviluppo 2019-2025 ha previsto ingenti finanziamenti nel settore AgTech. Secondo le stime del Ministero dell’Agricoltura (fatte prima della pandemia) a volare nei campi entro l’estate di quest’anno ci saranno trentamila droni.
Ma questo è il modello auspicabile per l’agricoltura globale post COVID-19? L’implementazione di queste tecnologie digitali cosi come l’utilizzo dei sistemi previsionali delle colture tramite sensori e big data, piuttosto che l’utilizzo degli EcoRobotix è un settore controllato dalle grandi corporations globali. Gli strumenti dell’agricoltura di precisione invece di essere una forma di emancipazione per i piccoli contadini stanno promuovendo la normalizzazione dei sistemi di agricoltura egemonica, rafforzando le dinamiche di controllo e potere. La pandemia, però, ha aperto alcuni spazi di possibilità sia nell’immaginario che nelle pratiche sociali ed economiche. Come per il caso delle mascherine stampate in 3D e le maschere da snorkeling trasformate in respiratori.
Pratiche che promuovono nuovi scenari per ripensare le riconfigurazioni delle attività produttive.
Se la produzione e l’approvvigionamento di cibo a livello globale diventa più difficile a causa delle fragilità del sistema, possiamo immaginare un modello di agroecologia in cui le tecnologie digitali si integrino con le esigenze delle piccole comunità e non sviluppino un’agricoltura di controllo come sembra imporsi in Cina? Le esperienze internazionali che vanno in questa direzione sono diverse. Negli USA, la rete di Farm Hack lavora alla produzione e condivisione di conoscenze e tecnologie open source al fine di abilitare i piccoli produttori alla costruzione e modifica degli strumenti di lavoro.
L’obiettivo principale di questa comunità è quella di sviluppare e produrre nuove attrezzature agricole e perfezionare quelle già esistenti per migliorare la produttività e la redditività dell’agricoltura sostenibile e la produzione locale. I progetti sviluppati spaziano dalla creazione di sistemi di monitoraggio del bestiame alimentati ad energia solare e collegati ad Internet tramite dispositivi mobili, alla creazione di sistemi in grado di raccogliere i livelli della temperatura e umidità dei campi attraverso una rete di sensori che archiviano i dati in un registro aperto, fino alla riconfigurazione dei tosaerba in piccoli trattori. In Giappone a due ore da Tokyo è stato creato un Hacker Farm, uno spazio di co-working destinato allo sviluppo di progetti per migliorare le pratiche neo-rurali attraverso la tecnologia. I fondatori mirano alla creazione di progetti che riescano a riunire artisti, innovatori e residenti locali intorno ad un obiettivo comune: migliorare la vita di tutti.

Tra i progetti sviluppati vi è quello di un sistema di tracciamento dei cinghiali per la caccia legale al fine di ridurre le invasive distruzioni dei raccolti causati da questi animali, fino al monitoraggio dei campi di riso a distanza. In Italia, il gruppo di ricerca Rural Hack lavora a nuove forme di produzione alimentari che mettono insieme giovani agricoltori che recuperano grani autoctoni, genetisti agrari ed esperti di tecnologia 4.0. L’obiettivo è quello di sviluppare una via all’innovazione agroalimentare che combini tecnologie e comunità locali come parte dello stesso processo. I progetti sviluppati sono diversi, dalle applicazioni blockchain che possono aiutare i piccoli produttori nella gestione dei farmers market, all’implementazione di sensori che attraverso tecnologie Internet of Things (IoT) possono misurare le esternalità positive sull’ambiente prodotte dalle tecniche tradizionali di coltivazione. In questo modo sarebbe possibile riconoscere il lavoro dei contadini come custodi di un territorio e ripagare questo lavoro attraverso una cripto moneta comunitaria.
Nel mondo post COVID-19 sorgeranno nuove esigenze ed incognite. Le esperienze come Rural Hack ci insegnano che creare un nuovo sistema del food non è un problema né di tecnologia né di immaginazione. Quello che manca è un modello sociale che sappia integrare questi strumenti per costruire e valorizzare nuove forme resilienti e rilocalizzate di produzioni alimentari. I possibili approcci emersi dalle piccole pratiche di innovazione, cresciuti fuori dalla visione soluzionista, determineranno il nostro cammino e la nostra futura sopravvivenza nell’Antropocene.