Buscetta-Bellocchio: l’uomo che tradì se stesso

Su “Il traditore” di Marco Bellocchio (2019)

In un’Italia che ancora stenta a prendere coscienza di sé, immersa nel dramma della pandemia, anche la cerimonia per la consegna dei David di Donatello 2020 è avvenuta, il 9 maggio, senza applausi, senza pubblico e red carpet. La giuria ha premiato il film Il traditore di Marco Bellocchio che, giusto un anno fa, esordiva al festival di Cannes. Non solo miglior film, ma altre cinque statuette importanti: alla regia, alla sceneggiatura originale, al montaggio, agli attori – protagonista Pierfrancesco Favino e non protagonista Luigi Lo Cascio.

Lo stile del regista rimane fedele all’irruenza con cui si presentò, giovanissimo, nel mondo del cinema. Nel 1966 la sua opera prima I pugni in tasca segnò una svolta per la sua capacità di anticipare tutta la rabbia giovanile che da lì a poco sarebbe esplosa; a Bellocchio, ieri e oggi, non interessa interpretare lo spirito del tempo, ma vuole mettere in scena, partendo da microcosmi come la famiglia, la nascita, la riproduzione e l’esplosione di rapporti malati, violenti e autoritari. Una degenerazione patologica che dal micro (la famiglia) passa al macro (la società), capace di produrre effetti catastrofici e irreparabili: strappi, lacerazioni, traumi, tradimenti e morte. Bellocchio stesso è un traditore: nei confronti della sua famiglia borghese prima; poi nei riguardi del suo partito marxista-leninista dopo una lunga e intensa militanza, e, infine, nei confronti della scuola di psicoanalisi collettiva di Fagioli del quale era stato, per anni, devoto adepto.

Negli stessi anni de I Pugni in tasca, Palermo viveva una feroce guerra fra le famiglie mafiose e all’interno delle famiglie stesse. Era la prima guerra di mafia, scatenata da un gruppo di giovani violenti, pieni di rabbia e di sete di successo, dopo un passato di miseria, privazioni e umiliazioni.

Buscetta, nato nel 1928 nel sottoproletariato del centro storico di Palermo, in una numerosa famiglia di artigiani del vetro, costruiva la sua fortuna grazie all’uso spregiudicato della violenza imposta, mitra in pugno, nei cantieri della speculazione edilizia, nella gestione del racket, nel contrabbando di sigarette che arrivavano dai porti del nord Africa e poi nel commercio internazionale della droga comprata in Medioriente e venduta nel mercato del nord Italia ed Europa, via Milano, e negli Stati Uniti via Marsiglia.

In questo vortice di arricchimento senza limiti, di viaggi internazionali, di vita lussuosa, di posizioni criminali scalate a colpi di mitra e autobombe, Buscetta conquista uno spazio privilegiato. La scheda compilata dalla commissione nel 1970 non lasciava dubbi: «Tommaso Buscetta, inteso “Masino”, è uno dei più audaci e spregiudicati contrabbandieri palermitani, legato a gruppi mafiosi dediti a questo delittuoso traffico e ad altri interessi di natura illecita. Secondo alcune testimonianze raccolte dall’autorità giudiziaria che ha istruito i processi a suo carico, si tratta di “un individuo privo di scrupoli e prepotente, borioso e vanitoso, tanto da millantare amicizie e relazioni altolocate”». Anche se apparteneva alla mafia, Masino già sembrava un traditore, perché era il contrario di quello che nell’immaginario romanzesco e filmico era un mafioso: non un uomo della tradizione, dell’onore, della pace, tutto casa, famiglia e lupara. Non era certo un uomo della vecchia mafia, aveva già tradito in questo senso. Masino era un libertino, un sanguinario, un trafficante di stupefacenti, che aveva conquistato un posto importante nel grande commercio internazionale verso gli Stati Uniti, passando dal Canada, o dal Brasile o dal Messico.

Alla permanenza in carceri italiani ed esteri, tra un arresto e l’altro, Masino alternava soggiorni in giro per Sud e Nord America, dove, oltre a farsi più famiglie contemporaneamente, si posizionava in nodi strategici della fitta rete del commercio della droga negli Stati Uniti, cadendo però nelle maglie della grande inchiesta Pizza Connection. Davanti ai giudici americani Buscetta tradiva il suo vecchio capo Gaetano Badalamenti e decideva di collaborare.

Tutta questa storia non c’è nel film di Bellocchio, è solo rievocata attraverso il suo arresto da parte della polizia brasiliana, il tutto in bilico fra realtà e onnipresente pensiero della morte. Buscetta si rifiutava di collaborare ed era sottoposto a indicibili torture. Le note struggenti di “Historia de un amor” introducono una ripresa aerea che mostra dall’alto la baia di Rio De Janiero e l’emblematica statua del Cristo Redentore. Subito dopo si vedono alcuni militari su un elicottero tenere sospesa in aria per le braccia la moglie brasiliana di Buscetta, con la minaccia di gettarla in mare, mentre il marito su un altro elicottero, sanguinante e gonfio per le botte ricevute, guarda rassegnato la scena sapendo di doversi arrendere per salvarle la vita. Un momento reso ancora più intenso dallo sguardo impaurito della donna che guarda il marito implorandolo con gli occhi di non farla morire. Il contrasto tra musica leggera e sequenza tragica rende a pieno il pathos della scena.

La stessa intensità è nella scena del ballo ambientata in una villa palermitana nel giorno del festino di Santa Rosalia, il 14 luglio. In un magnifico salone sono riuniti tutti i vertici della mafia per firmare una pace alla quale nessuno crede, infatti da lì in poi inizierà una lunga catena di delitti che Bellocchio ripropone con dovizia di particolari, facendo scorrere in basso un cronometro che aggiorna il numero dei morti ammazzati, tra cui molti della famiglia di Buscetta. Il valzer che risuona nelle stanze della villa, scritto da Nicola Piovani e che ricorda quello composto da Nino Rota per Il Gattopardo di Luchino Visconti per un altro celebre ballo, si trasforma in una contraddanza sfrenata durante la quale si capisce che non esiste da parte dei presenti nessun legame di fiducia che possa garantire quella pace. Come si può essere traditori in un mondo senza riconoscenza, senza affetti, senza onore, dove nessuno mantiene le promesse fatte e la parola data?

Durante la scena del Maxiprocesso risuona il Nabucco, il canto che da più parti viene spesso indicato come nuovo inno nazionale, e qui Bellocchio lo usa per un “teatro di nervi”, per un sabba che tocca il grottesco, grazie anche alla perfetta performance, in palermitano strettissimo, di Luigi Lo Cascio nella parte dell’altro grande pentito di mafia, Totuccio Contorno.

Tanti anni fa, ai tempi di Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Bellocchio avrebbe scelto le immagini di repertorio del Maxiprocesso, di per sé perfette, ma ora no, perché quell’aula è l’Italia, è il palcoscenico di una nazione malata che ha bisogno di cure, che crede alle recite, alle sociopatiche retoriche recitate nei tribunali. Il “Va pensiero” così cede il posto a “L’italiano” di Totò Cutugno, altro inno nazionale, canzone utilizzata in due distinti momenti del film, come arma di minaccia e sberleffo contro Buscetta e la sua famiglia. L’orgoglio di essere italiani copriva, così, i più micidiali momenti della storia del paese e giustificava ogni tradimento.

Le scene di morte e quelle oniriche sono le parti più interessanti del film. Il funerale del capomafia Bontade è uno straordinario spaccato visivo, perfetto in ogni particolare, della violenza dei rapporti umani in una società come quella mafiosa, che trasforma il rito in una recita, in un momento di passaggio del potere, dove vittime e carnefici, pur odiandosi e tradendosi sino alla morte, stanno accanto e si baciano; ma ancora più magistrale è la scena nella quale Buscetta sogna di morire, forse la più bella del film, con un incredibile lamento funebre ripreso da un testo basato sulle tradizionali stereotipie del pianto palermitano, documentato dalla voce di un’anziana donna della Kalsa, il quartiere in cui Buscetta era nato.

Sono questi particolari, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri, a rendere il film di Bellocchio affascinante. Sin quando non ci si inoltra nelle pagine didascaliche delle sue ultime vicende giudiziarie, quelle successive alla morte di Falcone – personaggio molto in ombra nel film.

La scena che veramente chiude il film è quella in cui Buscetta, ormai vecchio e malato, durante una piccola festa per i suoi 68 anni, ubriaco e con lo sguardo perso nel vuoto, canta “Historia de un amor”. La scelta, invece, di far durare Il traditore 148 minuti è dettata dall’inserimento di una lunga parte dedicata alle dichiarazioni e ai processi di Buscetta dopo l’assassinio di Falcone, nei quali fa il nome di Giulio Andreotti come capo mafia. Nell’impossibilità di dimostrare tale asserzione, parte il ritornello secondo il quale non si è andati mai fino in fondo a combattere la mafia, che la mafia ha vinto sempre e sempre continuerà a vincere. È una scelta che il regista compie perché la sua principale fonte di ispirazione storica è una delle quattro (auto)biografie di Buscetta, l’ultima in ordine di tempo, scritta insieme da Saverio Lodato, che portava il titolo apocalittico La mafia ha vinto (1999), la più elusiva riguardo la storia di Buscetta, tutta intenta a dimostrare le complicità tra Repubblica italiana e mafia. Con la storia italiana ridotta al servizio dei disegni criminosi dei mafiosi. Una tesi già avanzata da Pino Arlacchi nella precedente e ancor più depistante biografia “Addio Cosa nostra” (1994) ma assente in quella di Enzo Biagi “Il boss è solo” (1986), best seller mondiale, tradotto in inglese e spagnolo, che abilmente costruisce e cuce su Buscetta l’abito del padrino della vecchia mafia che poi Falcone gli avrebbe fatto indossare a pennello.

A dire il vero, basta leggersi la prima, sconosciuta, biografia scritta da Lucio Galluzzo nel 1984 per capire chi era Buscetta. Un ritratto asciutto e privo di enfasi su vecchia e nuova mafia o sulla mafia che domina e sconfigge lo Stato. Il titolo, non a caso, recitava “L’uomo che tradì sé stesso”. Anche quello di Bellocchio non è un film sulla storia della mafia, ma sul tradimento, nella vita pubblica e privata, di sé stesso.

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