La frontiera del giornalismo cooperativo

Il blog il lavoro culturale fa un’attività informativa e professionale a tutto tondo. Ma non produce reddito. Produce commesse, progetti, mansionari, ma non una retribuzione propriamente detta.

Questo è il vero problema, non solo nel giornalismo o nell’informazione online, ma della stragrande maggioranza dei freelance e precari. Più in generale: di tutto il lavoro indipendente, quello che Sarah Horowitz, la fondatrice della Freelancers Union — il più grande sindacato dei freelance al mondo — chiama la “forza lavoro del futuro”.

La recente disdetta del contratto nazionale di lavoro da parte degli editori della Fieg con le annesse richieste al sindacato dei giornalisti rivela, una volta di più, il futuro della professione del giornalista in Italia: un nucleo duro di iper-garantiti (tra l’altro in drastica diminuzione) che governa una nuvola di collaborazioni fatte da freelance o da collaboratori precari sempre meno pagati e senza tutele. Se oggi il compenso è di una manciata di euro al pezzo, immaginiamo cosa possa diventare questo lavoro tra dieci anni. Lo potrà fare solo chi può permetterselo, pagandoselo. Perché il salario non lo si ottiene in cambio della visibilità della propria “firma”.

Cos’è l’autoimpiego

Esperimenti riusciti, e con quanta fatica, come il lavoro culturale possono rappresentare una via di fuga in un mondo in cui l’informazione è sempre più specifica, distribuita, cresce dal basso e si interfaccia con i media civici o culturali indipendenti. I media tradizionali hanno pochi rapporti con l’informazione tra pari dove il messaggio, il discorso e i saperi possono diffondersi in maniera orizzontale, secondo meccanismi che mirano alla cooperazione e non all’imposizione dall’alto di una notizia.

Per realizzare un simile modello bisogna risolvere un problema molto materiale: come riconoscere il valore, in termini di reddito, di professionalità, di codici del lavoro giornalistico, e in particolare di quello digitale? La proposta è sperimentare nuove vie dell’auto-impiego. il lavoro culturale è già in sé una forma di auto-impiego, tramite forma associativa, dei redattori che si sono conosciuti nelle aule e nei corridoi universitari e da anni conducono un’attività giornalistica coordinata nella stessa testata. In altre parole è, potenzialmente, una piattaforma cooperativa.

Una piattaforma cooperativa è la sintesi tra il mutualismo tra i pari tipica del free software e la forma cooperativa del lavoro. È il rovescio del modello dominante del giornalismo oggi e delle piattaforme della sharing economy — quella bancaria Kiva, quella dell’ospitalità Airbnb, nel commercio al dettaglio Etsy, del trasporto Uber, del lavoro diversificato TaskRabbit — che prevede stock options per i manager e enormi guadagni in borsa per i proprietari. In basso esistono debolissimi standard di lavoro, distruzione dell’unione tra lavoratori, annientamento del salario e lavoro gratuito.

Se la cultura network dominante — sia sul piano dell’editoria mainstream che su quello della sharing economy affluente— concentra il valore del lavoro in cornici transnazionali e lo espropria ai suoi produttori che non guadagnano nulla, la cooperazione di piattaforma trae il valore necessario dallo scambio e dalle relazioni create insieme.

La nuova frontiera del giornalismo cooperativo permette di sviluppare — in un quadro definito e aperto — le nuove pratiche professionali; garantisce un potenziale innovativo sia sulla tecnologia che nell’informazione; si ispira a un modello economico simile a quello delle cooperative di credito o alle società di mutuo soccorso che appartengono a chi deposita danaro o alle cooperative alimentari appartenenti a chi acquista; costituisce un modello di affidabilità e socialità dato che può coinvolgere un numero importante di lettori fedeli e sufficientemente coinvolti alla piattaforma presente sia in rete che sul territorio come membri/co-proprietari,

Web, territori, lavori e professionalità possono trovare così una nuova sintesi politica e culturale: «È all’interno di strutture relativamente modeste che i giornalisti hanno innovato, nel corso della storia, cercando al tempo stesso dei nuovi business model» (Una legge ancora valida oggi).

Non solo start up

In Italia c’è un gran parlare di auto-impiego e auto-imprenditorialità. Esiste un numero sterminato di microprogetti (come Garanzia Giovani) o istituzioni (come Invitalia), senza contare le fondazioni bancarie, che distribuiscono fondi a pioggia. L’impressione è che sia più forte la retorica “startuppara” (i creatori di “start up”) che una visione dell’innovazione sociale e, per quanto ci interessa qui, dell’informazione e della comunicazione.

L’auto-impiego non è l’auto-impresa. Non è detto che il lavoro autonomo si dia soltanto nella forma dell’impresa e per di più in quella della start-up tecnologica. Viceversa, l’auto-impiego è una modalità molto più plastica: può darsi nella forma dell’associazione culturale, nella cooperativa di attività e di impiego, nella forma societaria della Sas o della Srl, o nell’impresa sociale. Senza escludere la start-up. L’interesse per questa forma di auto-attivazione riscosso sia sul lato delle cooperative che su quello delle imprese o dello Stato dimostra il ruolo crescente dell’associazione dei freelance nelle nostre società.

Lauto-impiego può essere valorizzato, ed esteso, attraverso una forma cooperativa che distribuisce il valore tra i soci, forma una proprietà collettiva a partire dal fare in comune. La cooperazione tra i pari è, infatti, il tratto fondamentale della nuova economia della condivisione. Se non si vuole cedere alla retoriche, e si vuole uscire dalla nebulosa dell’innovazione incastrata nei dispositivi dell’auto-imprenditorialità, allora bisogna ispirarsi a una legge elementare: partiamo da zero, insieme costruiamo, insieme possediamo, insieme viviamo.

Che fare

Riconoscere la categoria dell’auto-impiego nel lavoro giornalistico. Allo stesso tempo, allargare le maglie del contratto nazionale del giornalisti alle nuove figure nate nelle testate online, webtv, social network, blog che si auto-organizzano in cooperative, associazioni, piccole società, cooperative o, quasi sempre, persi nell’economia degli eventi. E’ la nuova scena del giornalismo digitale e interessa molte realtà locali o specialistiche (sport, cultura, economia, intrattenimento, cronaca).

A questo punto c’è un’obiezione: considerati i magri guadagni dei nuovi giornalisti come si può chiedergli di versarsi i contributi, l’iscrizione all’ordine professionale che invece andrebbe abolito? L’autoimpiego non è inserito, né mai sarà probabilmente inserito, in un meccanismo di subordinazione. Resta, e resterà, un lavoro autonomo. Quindi, senza diritti. Come tutti i freelance.

Esiste una duplice soluzione, tutta da costruire. Si potrebbe costituire un apposito fondo presso la cassa previdenziale per i giornalisti freelance e collaboratori Inpgi2 e, in più, inserire un fondo solidaristico all’interno della legge per l’editoria (teoricamente in discussione) riservato all’editoria cooperativa di nuova generazione. Un fondo di questo tipo sarebbe stato già previsto dal governo Renzi, ma è molto probabile che possa andare disperso su una scena altamente confusa e, per di più, ricavata sul modello neo-imprenditoriale delle start up. Poco utile, e sin troppo rigido, per valorizzare l’eterogeneità del nuovo giornalismo digitale.

Questa doppia iniziativa permetterebbe, previa formulazione di norme ad hoc anche in sede di contratto dei giornalisti, di sostenere i “nuovi” giornalisti i cui redditi non permettono nemmeno l’iscrizione all’ordine né la sostenibilità dei contributi Inpgi. Tale fondo potrebbe inoltre rientrare in una politica strutturale di avviamento e strutturazione economica e normativa del nuovo ecosistema informativo, coniugando i diritti con l’esigenza della sostenibilità dell’impresa (che non è, tutta, imprenditoria).

Lavoro digitale 2.0

Basta questo per rendere sostenibile il nuovo giornalismo? Può essere un inizio. Assicurare un finanziamento alle realtà cooperative, un sostegno previdenziale e quindi al reddito, creare un’identità professionale è importante almeno quanto gli strumenti (spesso poco adeguati) di auto-finanziamento come il native-advertising o il crowd-funding. Senza un riconoscimento in quanto lavoratori si finisce solo a parlare di imprenditorialità. E non si valorizza il lavoro in sé, cioè l’impresa comune di questi lavoratori che creano qualcosa con le loro idee. Senza una propria consistenza, il lavoro digitale diventa solo un erogatore di servizi per assessorati, imprese, politica e banche, senza una linea editoriale, un pubblico di lettori. La rete delle collaborazioni rischia così di diventare una rete di cooptazione politica, insomma la vecchia e odiosa realtà italiana dove il reddito è deciso da chi ha una nomina o una posizione di potere.

Senza garantire i diritti a chi lavora – perché il lavoro digitale è un lavoro – si favorisce una selezione di classe e geografica. Possono sopravvivere soltanto coloro che vivono nelle smart-city come Milano dove la comunicazione di servizio, il contatto con sponsor e finanziatori, la relazione con alcuni assessorati o con le reti sono già costituite e favorite da politiche specifiche, molto spesso a una visione dall’alto dell’innovazione sociale.

Coop-unionism

Questa visione strategica, ispirata al più attuale dibattito sulla cooperazione nella sharing economy, è tutta da costruire. Sebbene già pesantemente ipotecata dalle retoriche dominanti, finanziate a pioggia dall’alto (fondazioni e governi), tale visione resta disponibile per una diversa interpretazione da parte dei diretti interessati. È necessario che questi ultimi si facciano sentire e maturino il senso per le coalizioni.

Pochi, davvero pochi, oggi sanno come fare. Nell’ambito della mia attività di neo-sindacalista in Stampa Romana, la federazione dei giornalisti del Lazio, affronto quotidianamente questo problema. Solo in via sperimentale, e in coalizioni con i diretti interessati e le reti sociali che ormai si interrogano su questi problemi, credo che un sindacato molto tradizionale come quello dei giornalisti potrà – un giorno – trovare il bandolo.

Serve la cooperazione reale, in tutto questo parlare di condivisione. La si può istituire dal basso, con prudenza, a partire dal poco che abbiamo. Che è già molto. Mettiamo in collegamento mondi che non si parlano – e spesso si ignorano – per approntare un prototipo politico, amministrativo e giornalistico che funzioni sia sul piano contrattuale (per chi vuole entrare nel perimetro del lavoro giornalistico strettamente inteso); su quello normativo delle leggi sull’editoria, del lavoro e della previdenza; sul piano più ampio dell’innovazione sociale intesa come sperimentazioni di coalizioni tra cittadini laboriosi senza un’identità professionale prestabilita dall’appartenenza a una categoria lavorativa.

In un’ottica di coalizione, il sindacato può cooperare alla creazione di un’infrastruttura dove i freelance organizzati in piattaforme cooperative accedano finalmente a uno statuto del lavoro che, fino ad oggi, nessuno gli ha mai riconosciuto. Si apre l’era del coop-unionism. Il sindacalismo cooperativo è un’impresa collettiva, non è solo il mestiere di chi rappresenta i lavoratori. Sempre che questi vogliano essere rappresentati da qualcuno e non si sentano invece cittadini del mondo.

Creiamo insieme nuove istituzioni, saremo più forti. Iniziamo?

frontecartolina

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