Elezioni inusuali

L’ampia vittoria di Biden e gli Stati Uniti che lascia Trump

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adesivi “I voted” in inglese e spagnolo, Virginia, USA, November 2014. (Foto Organization for Security and Co-operation in Europe (OSCE)

Nella notte di giovedì 5 novembre 2020 un pezzo di mondo si ferma per le prime dichiarazioni post-elettorali di Donald J. Trump dalla Casa Bianca. Non c’è ancora un vincitore ufficiale, ma il trend sembra piuttosto chiaro. Trump ha la faccia crucciata e guascona, quella che mette su quando sta per dire qualcosa di grave e significativo. Comincia un discorso che potrebbe passare alla storia come il momento più basso e grottesco della sua presidenza, e sicuramente uno dei peggiori di una democrazia che nonostante i luoghi comuni è sempre stata fragile e escludente. Lamenta brogli che non esistono. Il sottopancia della CNN spiega in maniera chiara, da manuale del giornalismo anglosassone, “Senza prove, Trump sostiene di essere vittima di una frode”. Altri network (ABC, CBS e NBC) preferiscono interromperlo. L’anchorman di MSNBC, Brian Williams rientra in studio dicendo “Mi trovo nella situazione inusuale non solo di dover interrompere il presidente degli Stati Uniti ma di correggere il presidente degli Stati Uniti […] Non ci sono voti illegali di cui siamo a conoscenza, non c’è stata alcuna vittoria di Trump per quanto ne sappiamo”. 

Una situazione inedita e inusuale perché solitamente dietro al Presidente gli statunitensi si compattano. È la guida del paese, il Comandante in capo, colui che una volta eletto si fa portavoce delle istanze di tutti (come ha fatto prontamente Joe Biden), e che specie in un periodo di crisi dovrebbe essere qualcuno a cui guardare per farsi forza. Il presidente Trump – lo sarà fino al 20 gennaio – non è nulla di tutto ciò, e non lo è stato nei quattro anni della sua presidenza. Questi giorni passati, dalle elezioni di martedì 3 novembre fino (e oltre) a sabato quando Biden è stato ufficiosamente proclamato Presidente degli Stati Uniti d’America, passeranno alla storia come alcuni dei più strani, tesi, non rituali che il paese ha vissuto – con gli occhi di mezzo mondo puntati addosso.

Giorni inusuali

Se il discorso dalla Casa Bianca di giovedì notte, il primo dopo le elezioni, può essere visto come la tragedia finale dell’amministrazione Trump, la farsa arriva sabato mattina, quando il comitato elettorale di Trump, e in particolare il suo avvocato ed ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, tengono una conferenza stampa piuttosto delirante davanti ad un anonimo garage della periferia di Philadelphia. Per qualche strano corto circuito comunicativo infatti, i giornalisti vengono convocati al Four Seasons Total Landscaping, un negozio di giardinaggio, con un nome simile però al Four Seasons, catena di hotel di lusso presente anche nella città della Pennsylvania. Il comitato elettorale si è affrettato a dichiarare che no, proprio lì volevano parlare con i giornalisti in uno dei momenti più delicati della storia statunitense recente, ma è molto più probabile che invece abbiano semplicemente sbagliato posto.

Giorni inusuali, insomma, con un riconoscimento della sconfitta da parte di Trump che ancora non arriva, aggrappato a un’idea di brogli davvero difficilmente dimostrabili. Giorni in cui i media hanno dovuto provare a reinventarsi come si raccontano le cose, nell’attesa di una notizia quasi scontata che ci ha messo giorni ad arrivare, nonostante il luogo comune per cui negli USA la sera delle elezioni si sa chi ha vinto – e non come in altre democrazie dove bisogna fare alleanze, costruire coalizioni e via dicendo. Giorni in cui ci siamo appassionati alle vicende di una contea della Georgia, di qualche sobborgo di Detroit, dei voti di Miami-Dade consapevoli che dalle scelte di qualche statunitense di luoghi lontani fisicamente e non  dipendesse il futuro non solo degli USA, ma anche di un po’ di mondo. Giorni inusuali persi a controllare se i capi di stato stranieri avessero riconosciuto o meno la vittoria di Biden; a verificare che pezzi grossi dell’establishment repubblicano si congratulassero con Biden visto che Trump non lo faceva – lo ha fatto un ex presidente repubblicano come George W. Bush; persino, a leggere notizie sugli osservatori internazionali che parlano dello svolgimento del voto in un paese che in genere si erge a faro democratico. Non sembra peraltro ancora finita, con Trump che ha licenziato il segretario della Difesa Mark Esper, un membro di peso sua amministrazione (nonostante questa stia per concludersi) e tiene impegnati i suoi avvocati con ricorsi e disperati tentativi. Tutto questo restituisce il senso di un avvicendamento atipico, molto diverso dal consueto passaggio di poteri tra un presidente e l’altro, solitamente non conflittuale, lineare, rituale. Giorni così strani che il magazine dello Smithsonian Institute (il grande network di istituti e musei finanziati direttamente dal Governo USA) ha pubblicato un articolo di divulgazione scientifica per spiegare cosa succede nelle nostre teste mentre aspettiamo i risultati delle elezioni. 

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Primo Maggio 2019 a Los Angeles – Foto di Luca Peretti

Biden e Trump

Biden diventa presidente con una legittimità elettorale incredibile (è il presidente USA numericamente più votato di sempre) a seguito con elezioni che hanno visto un’affluenza record con oltre il 65% degli aventi diritto, circa 23 milioni di persone in più rispetto al 2016, di cui – i dati preliminari sembrano evidenziare – moltissimi non-bianchi. Kamala Harris sarà prima la vicepresidente donna e non-bianca, un segno importante di cambiamento, nonostante molti progressisti notino il suo passato di posizioni ondivaghe su molti temi – tra gli altri, organizzazioni LGBTQI hanno già espresso dubbi e contrarietà.

Trump non è stato però un presidente unamerican, alieno alla cultura e intelaiatura statunitense. Al contrario, è stato un presidente che ha rappresentato gli istinti e i desideri non repressi di milioni di statunitensi. Istinti razzisti, fascistoidi, maschilisti, che spesso obnubilati dal mito americano da qui, dall’Italia, fatichiamo a vedere. Più di 70 milioni di persone hanno votato per Trump. Un solco sempre più grande si sta scavando tra centri urbani (dove vincono i democratici) e ciò che sta fuori dalle città – e che è un po’ riduttivo chiamare semplicemente “campagna” – dove invece vincono i repubblicani. Biden sembra un presidente normale, ma non c’è, come per la crisi pandemica, una rilassante e tranquilla normalità a cui tornare, perché la normalità non solo era il problema, ma è quello che ha reso possibile Trump.

Eppure non c’è dubbio che per quattro anni Trump è stato visto anche come un’anomalia, come un qualcosa da estirpare. Sono stati infatti quattro anni puntellati da lotte e proteste, dai primi giorni della sua presidenza, con DisruptJ20 il giorno stesso del suo giuramento e soprattutto l’immensa Women’s March a Washington DC del giorno dopo, il 21 gennaio 2017, una delle manifestazioni più grandi della storia degli USA. Quattro anni che si sono chiusi con il più grande movimento di massa della storia degli Stati Uniti, quello sceso in piazza (si stima tra 15 e 26 milioni di persone) da fine maggio in seguito al brutale assassinio di George Floyd. Se Trump è quintessenzialmente americano, lo sono anche queste lotte, proteste e movimenti che hanno puntellato la sua amministrazione, che come l’humus che ha reso possibile Trump vengono da lontano e ora proveranno a reinventarsi con questa nuova presidenza.

Biden infatti, tendenzialmente un moderato, ha sicuramente avuto un grande appeal al centro e ricevuto voti e sostegno anche di qualche repubblicano non-trumpiano, come l’ex governatore dell’Ohio John Kasich (Stato che però è rimasto a Trump). Ma è stato eletto anche grazie al sostegno fondamentale della sinistra del Partito Democratico, di organizzazioni e partiti più piccoli come i Democratic Socialists of America (che proprio in questi quattro anni sono diventati importanti e riconosciuti) e Working Families Party. Una parte politica che lo ha votato compatta, fatto quadrato ed evitato polemiche, a partire da Bernie Sanders, che ha fatto campagna per lui come del resto l’aveva fatta per Hillary Clinton quattro anni fa, a Alejandra Ocasio-Cortez, che ha aspettato la vittoria annunciata di Biden per tornare a criticare il partito, il cui establishment del resto continua a non gradirla. È innegabile anche la spinta dei movimenti popolari e sociali, come la vicepresidente eletta Harris ha riconosciuto nel suo discorso post-elezioni, che adesso proveranno a fare pressione da sinistra su un presidente sulla carta non così di sinistra.

Un sobborgo di Columbus (Ohio) – foto di Luca Peretti

E adesso?

Cosa rimane quindi di Trump e del Trumpismo e cosa dobbiamo aspettarci? Intanto, tecnicamente tra quattro anni il presidente uscente potrebbe persino ricandidarsi (non ha infatti fatto due term), mentre ci sono suoi famigliari che in questi anni hanno goduto di una ribalta mediatica e fatto esperienza politica nella stanza dei bottoni – e in un paese in cui le famiglie politiche contano più di qualcosa questo è un dato da tener presente. E poi “dagli assalti populisti- argomenta Ida Dominijanni su Internazionale – la democrazia non si salva tornando a com’era prima: o fa un salto di qualità o si impantana in una deriva inarrestabile verso il peggio di prima”. Zeynep Tufekci su The Atlantic fa un passo avanti notando come in fondo Trump fosse un fortunato incapace, un populista di destra meno bravo degli altri che impazzano nel mondo adesso, e che nonostante ciò sia riuscito a lasciare una Corte Suprema stabilmente in controllo repubblicano per gli anni a venire, un Senato che dovrebbe mantenere la maggioranza repubblicana, una Camera dove non è andata poi così male, e un supporto crescente anche tra i non-bianchi. Sembra la situazione perfetta, argomenta Tufekci, per un politico di talento per vincere nel 2024 su una piattaforma trumpista. Detto in un altro modo: essersi liberati di Trump non vuol dire essersi liberati di quello di cui era espressione. “Trump se ne potrà pure andare – scrivono Pietro Bianchi e Tania Rispoli su DinamoPress – ma gli Stati Uniti con cui dovremo avere a che fare a partire dal 4 novembre saranno comunque ancora i suoi”. E questi sono gli Stati Uniti che Biden dovrà provare a condurre fuori da una crisi sanitaria, economica, e sociale di dimensioni catastrofiche. 

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