Lo spot natalizio e la pandemia: c’è un alternativa a Bezos?
Natale è il periodo degli spot emotional che puntano dritto al cuore dei consumatori. Ma quest’anno, ormai si è capito, non sappiamo bene con quale spirito potremo addobbare le nostre festività. Ed ecco che Amazon batte tutti sul tempo e rilascia un video killer, di quelli che stenderebbero anche il più cinico dei cinici, ma che allo stesso tempo lascia addosso una sensazione inquietante, che forse merita un piccolo esercizio decostruttivo.
In quattro minuti, il colosso di Bezos mette in scena la storia della nostra vita degli ultimi nove mesi: una giovane ballerina viene scelta per essere la protagonista dello spettacolo invernale e comincia così, con grande impegno, a lavorare alla sua parte. E mentre lei continua a danzare, in casa, a scuola, nelle scale del palazzo, per strada (dove incrocia gli sguardi di un suo coetaneo), il mondo intorno a lei cambia. Arriva il Coronavirus, prima chiudono le scuole, poi è il tempo delle lezioni online e infine lo spettacolo è annullato. Ma la sorellina non si dà per vinta e così le organizza uno spettacolo all’aperto. A questo punto, finalmente, dopo oltre un minuto di rispecchiamento emotivo nella storia della giovane ballerina, il consumatore capisce chi è il proprietario dello spot: il ragazzo incrociato per strada va su Amazon e compra una torcia per poter illuminare la sua stella su quel palcoscenico improvvisato. Sotto una leggera neve che sa di Natale, la ballerina danzerà davanti al pubblico accorso ai balconi: the show must go on.
La prima cosa che colpisce è sicuramente la qualità estetica del video. Un montaggio serrato si muove sulle note della famosa canzone dei Queen, proposta in una trattenuta versione strumentale. Le immagini scorrono al ritmo di musica e danza, come se si inseguissero, scandendo il tempo di un racconto, che diventa subito racconto collettivo. Alla grana pop dell’immagine fa da contrappeso l’intensità patetica della musica, e questo incrocio tra musica e immagine dura fino alla fine. Il racconto, infatti, non si risolverà con il ritorno della melodia alla tonica, la nota che pone fine ad un brano pacificando l’ascolto. La musica resta sospesa, in levare, e la storia troverà compimento, innanzitutto emotivo, nel claim e nel logo che appaiono sullo schermo. Detto altrimenti: il logo di Amazon è il punto di arrivo e di pacificazione di un racconto, che mette scena il rincorrersi di giorni, ansie, paure ma, soprattutto, speranze.
La prima cosa, insomma, che questo video sembra dirci è che Amazon si appresta a rafforzare il suo ruolo in quella industria che costruisce di immaginari, mondi e sogni, cioè il cinema, e che oggi si riorganizza attraverso nuovi attori, nuove piattaforme e nuovi ambienti mediali. Amazon non è più solo il padrone dell’e-commerce, ma è ormai un attore centrale del sistema di distribuzione e produzione di contenuti audiovisivi, un vero e proprio polo audiovisivo (è notizia di qualche giorno fa l’implementazione di ulteriori canali a pagamento nell’offerta Prime Video) che acquista sempre maggiore importanza nell’ambito della cosiddetta galassia postcinema.
Ma questa considerazione, in fondo, è un discorso da specialisti che interessa a pochi, mentre lo spot offre molto altro, a partire dalla scelta dell’ambientazione della storia, ovvero la famiglia working class afroamericana. Potrebbe sembrare semplicemente l’esito dell’adeguamento ai nuovi standard inclusivi, previsti dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ma, considerando le tempistiche di pubblicazione dello spot, è chiaro che dietro questa storia natalizia c’è un’idea esplicitamente politica, a conferma del fatto che oggi, più che mai, gli interessi economici dei grandi colossi della rete sono strettamente legati all’andamento di questa epidemia.
Lo spot arriva, infatti, all’indomani delle elezioni più travagliate della storia recente degli Stati Uniti, elezioni che secondo molti si sono giocate su tre temi: la gestione della pandemia, la conseguente crisi economica e le proteste contro il suprematismo bianco. Poche certezze abbiamo rispetto al momento che stiamo vivendo: la prima è che la pandemia colpisce, non solo negli Stati Uniti, le persone più deboli ed esposte (e negli Stati Uniti questo significa in primis le persone non bianche); la seconda è che in questa situazione i colossi web hanno visto aumentare i propri ricavi. The show must go on dunque significa innanzitutto che l’economia non si può fermare, dove oggi, ma forse soprattutto domani, l’economia assume questa forma liquida che ruota intorno al web e alle innovazioni tecnologiche e che necessita, con urgenza, una profonda riflessione. The show must go on, ma a quale prezzo?
Allo stesso tempo, però, la ragazza incarna nel suo desiderio di danzare i sogni sospesi di milioni di giovani a cui oggi il futuro sembra negato. Ed è proprio su questo senso e questo bisogno di speranza che cinicamente lo spot lavora. Rovesciando la prospettiva, ed esplicitando una violenta contraddizione che stiamo vivendo, lo spot di Amazon sembrerebbe essere la cosa più politica (e più di sinistra) vista negli ultimi 9 mesi. Lo spot pare dirci che dobbiamo tornare a sperare e a credere nei nostri sogni, andando oltre il negazionismo di chi dice che il virus non esiste (dopotutto sono tutti in mascherina e distanziati) ma andando anche oltre una mera politica di securizzazione della vita, che sembra essere oggi l’unica risposta che “la sinistra”, a livello globale, è riuscita a dare a questa incredibile situazione che stiamo vivendo. In fondo non è questa è la critica che muove Agamben alla gestione della pandemia?
Il sentimento di inquietudine che accompagna lo spot, nel momento in cui lo spettatore capisce che è una pubblicità di Amazon, è la risposta emotiva ad una contraddizione e ad uno smarrimento profondo che stiamo vivendo. In altre parole: chi può dare risposta ai sogni di quella ballerina, e in fondo a quelli di tutti noi che vorremmo andare avanti con la nostra vita, professionale, personale e collettiva? È evidente che questa risposta di speranza non può essere lasciata in mano ad un colosso della rete, noto in tutto il mondo per le pessime condizioni di lavoro a cui costringe i suoi dipendenti, né ai suoi simili. Un colosso che da un lato sembra farsi portatore di quella retorica progressista che dopo tutto è sempre stata legata al mondo della rete, ma che dall’altro radicalizza le ragioni del capitale a scapito di quella stessa working class a cui in qualche modo sembra dare voce. Proprio questo spot, nella sua perfetta esecuzione, nella sua innegabile capacità di cogliere un bisogno collettivo, ci mette davanti al fatto che oggi più che mai è necessario uno sforzo politico, per ripensare il nostro futuro, per uscire da questa spirale di rassegnazione e incapacità di azione in cui l’unica vera alternativa al virus sembra essere il nuovo capitalismo della rete. Non possiamo aspettare il vaccino, l’immunità di gregge, e il ritorno ad un normalità, che non sarà mai tale. Questo sforzo va fatto adesso, tutti insieme, nessuno escluso.