Una lettura de La ragazza con la Leica (Guanda, 2018), di Helena Janeczek
Proviamo a giocare di immaginazione: se tra ottanta anni guardassimo, col distacco dato dalla distanza storica, le foto delle combattenti curde che stanno lottando contro l’Isis per provare a difendere la rivoluzione sociale e politica del Rojava, cosa penseremmo? Volendo continuare questo gioco, in parte svolto anche da Helena Janeczek – e dagli stessi personaggi – in La ragazza con la Leica, potremmo affermare che se Gerda Taro avesse ventisei anni oggi, si troverebbe nella Siria del nord per immortalare quelle rivoluzionarie, e se i suoi compagni fossero vivi e giovani sarebbero lì a combattere contro Daesh.
Facciamo un passo indietro. Come accade con alcune famose fotografie che restano impresse nel nostro immaginario eccedendo la loro rappresentazione specifica e diventando iconiche metonimie di un intero periodo, La ragazza con la Leica di Helena Janeczek non è solo la storia di Gerda Taro ma anche quella della generazione antifascista che ha avuto tra i venti e i trenta anni nell’Europa martoriata dalle dittature.
Gerda Taro, nata Gerta Pohorylle nel 1910 a Stoccarda da una famiglia ebrea di origini polacche, fotoreporter. Morta a Brunete (a venticinque chilometri da Madrid) nel 1937, mentre documentava con la sua macchina fotografica la guerra civile spagnola, travolta da un carro armato amico in rotta a causa di un attacco aereo tedesco. Il libro ne racconta le vicende attraverso il ricordo di personaggi che hanno intrecciato la propria vita con la sua, tra cui il compagno e famoso fotografo Robert Capa, pseudonimo di André Friedmann da lei stessa coniato – e inizialmente usato da entrambi.
La ragazza con la Leica è costruito con dei salti temporali e di punti di vista narrativi, una struttura simmetrica, in equilibrio come un cuneo conficcato nella viva storia. Partendo dal nostro presente progressivamente procede verso il passato arretrando prima al 1960, sfiorando poi gli anni vissuti da Gerda affondando la punta nel 1938, per poi riportarsi al 1960 e tornare infine ai giorni nostri. Un movimento simile a quello che compiamo quando prendiamo una foto in mano e la guardiamo prima da lontano per capire di cosa si tratti, la avviciniamo gradualmente al viso per osservarne meglio i dettagli, per poi riallontanarla e coglierne di nuovo il colpo d’occhio dell’insieme.
Il libro si apre e si chiude con la voce dell’autrice, oggi, che commentando delle foto introduce la narrazione e inquadra alcuni personaggi. Nel Prologo le foto sono scatti di Taro e Capa a una coppia di miliziani che si guardano ridendo, a una miliziana che sfoglia un giornale e ad altre che si addestrano su una spiaggia; nell’Epilogo invece, in un gioco di rimandi, sono immagini scattate dai loro compagni: due ritraggono Gerda e Robert in momenti appena successivi – e accostandole Janeczek ricostruisce in un frammento tutta la complessità del loro rapporto –, altre immortalano gli amici fotografi.
Nel tripartito corpo centrale le due parti ambientate nel 1960 si reggono ciascuna su un personaggio maschile tra quelli conosciuti e frequentati da Gerda a Lipsia, dove si era trasferita da giovane con la famiglia, e a Parigi, dopo essere scappata dal nazismo: Willy Chardack, cardiologo che ha messo su famiglia negli Stati Uniti; e Georg Kuritzkes, separato e di stanza a Roma alla Fao. Entrambi medici, invecchiati, trent’anni prima sono stati amici e anche compagni di Gerda – uno più brevemente, l’altro più a lungo – prima che iniziasse la relazione con Capa. Lo spunto narrativo è una telefonata che Georg, dopo essersi consultato con la comune amica Ruth Cerf, fa a Willy per congratularsi di una scoperta scientifica. La conversazione, una volta riattaccato il telefono, suscita un inarrestabile moto di ricordi di gioventù, e su Gerda. Queste due parti incorniciano quella ambientata nel 1938 in cui è Ruth, amica del cuore di Gerda, trovatasi dopo la sua morte a collaborare nello studio di Capa mentre lui è fuori Parigi per i suoi reportage, a pensarla partendo dalla visione di alcune foto, proprio come capita all’autrice aprendo e chiudendo il libro.
La narrazione in queste tre parti procede per divagazioni, ricordi da cui partono flashback incastonati dentro altri ricordi di episodi della loro vita prima, durante e dopo la morte di Gerda, e Janeczek è abilissima nel simulare l’andamento ondivago del pensiero senza mai perdere il filo. Come quando si passeggia rapiti dalle proprie riflessioni, l’intreccio segue i personaggi che si smarriscono nella memoria mentre si muovono – Willy passeggia per Buffalo, Ruth si reca nello studio parigino, Georg si sposta in Vespa per Roma – e ogni particolare, paesaggi, persone, foto, oggetti, fa tornare a galla qualcosa. Le idee politiche comuniste, i fermenti culturali, le dittature che avanzavano e la repressione; il gruppo di amici, intellettuali e compagni, a Lipsia prima, città della loro militanza, e a Parigi poi da profughi.
Infine la guerra di Spagna che ha segnato le loro vite: Georg arruolatosi nelle brigate internazionali, e come lui molti altri, e Taro e Capa recatisi al fronte con le loro macchine fotografiche, i loro reportage e la morte. Per una generazione carica di vitalità e passione politica il Fronte popolare era stato una grande promessa di libertà e di giustizia stroncata da una tremenda carneficina nell’indifferenza delle democrazie borghesi internazionali. Ma aveva animato le forze migliori di una gioventù antifascista che da tutta Europa era accorsa per difendere la repubblica. La Spagna permea i pensieri dei protagonisti, è un fantasma che a distanza di anni aleggia ancora su chi è sopravvissuto obbligando a fare i conti con le proprie vite, con le scelte fatte e quelle subite, i compromessi, i conti in sospeso, le lotte e le ingiustizie, e tutto il rammarico dei reduci, di chi in un modo o nell’altro a qualcosa di grosso, alla Storia con la smaiuscola, è scampato.
Tutto questo vortice è tenuto insieme da Gerda. Donna libera e forte, acculturata, emancipata, politicizzata e militante, ma anche bella, affascinante, curata e non priva di volubilità. È il fulcro della narrazione nonostante non sia un vero e proprio personaggio: compare solo nei ricordi, mai direttamente, e il suo punto di vista è riportato mediante le parole altrui. Sempre presente ma in assenza, vive solo nella memoria di chi l’ha conosciuta. Un personaggio al pari degli altri è invece Janeczek stessa, scrittrice e narratrice, che contribuisce a ricostruire la figura di Gerda col punto di vista di chi non l’ha frequentata ma, dopo anni di ricerca e tramite la mediazione dei documenti, delle biografie, dei racconti, la percepisce ormai vicina, nel tentativo di carpirne l’essenza.
Perché il libro è anche una riflessione sull’identità, su cosa ci lasciamo dietro, di tangibile come una fotografia che ci ritrae o che abbiamo scattato, o di intangibile come il ricordo che gli altri portano di noi. La protagonista – come anche Capa – sceglie di usare uno pseudonimo, un nome apparentemente falso, ma che diventando quello con cui sarà famosa per sempre è più vero del vero. Proprio come succede alla famiglia dell’autrice, i cui genitori hanno adottato uno pseudonimo per scampare alla barbarie nazista, un cognome che sarebbe paradossale considerare falso essendo stato fondamentale per la loro salvezza.
Questa è una storia di reduci, di chi nonostante tutto sopravvive. Per questo Gerda non può essere un vero personaggio: perché è la metonimia della propria generazione carica di forza vitale ma colpita dagli eventi. La ragazza con la Leica non è, non vuole essere, una biografia. La vicenda di Gerda è raccontata da un punto di vista parziale, di parte, Janeczek sceglie cosa e come narrare, e ibridando memorialistica, storia, biografia e romanzo compie un’operazione letteraria grazie alla quale Gerda diviene una figura retorica che, parlando di sé, ci dice anche qualcos’altro. Allora Janeczek non ha paura di inventare, di uscire fuori dagli episodi realmente accaduti, di usare la fantasia ma senza ingannare il lettore, disseminando la fabula di se e ma, di giochi di immaginazione, di cosa sarebbe successo narrativi per indicare dove scavalca il confine, mettendo «un freno alla mia smania di documentazione, ricordandomi che stavo scrivendo un romanzo. È vero: pur aderendo alle fonti, l’anima del libro è, per forza di cose, frutto della mia immaginazione». Mescolando il vero, l’inventato e il verosimile, il suo libro sta alla biografia di Gerda come gli pseudonimi stanno ai suoi personaggi: è più vero del vero.
La vicenda di Gerda era stata già meritoriamente disseppellita da Irme Schaber, che ne ha scritto la biografia, come annotato anche nei ringraziamenti. Perché allora raccontarne nuovamente la storia, e in questo modo? Riprendiamo il gioco di fantasia con cui abbiamo iniziato: Janeczek conclude il libro immaginando Taro e Capa ancora vivi, sopravvissuti e quindi anziani, seduti a New York su una panchina di Central Park ancora a caccia di scatti. Noi invece non fatichiamo a immaginare che se Gerda fosse viva oggi, ma giovane, si troverebbe in Rojava per documentare la lotta delle combattenti curde contro Daesh, proprio come fece con la guerra civile di Spagna. Sarebbe una profuga in cerca di altri come lei. Nell’Italia dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, nell’Europa del nazionalismo, il ricordo della forza politica e umana dell’internazionalismo antifascista di Gerda e dei suoi compagni, del moto cosmopolita e antirazzista di questi profughi della barbarie, ha ancora molto da dirci.