Dopo le rivolte di marzo, le carceri italiane sono tornate invisibili. E con loro anche gli sforzi per portare avanti la didattica a distanza per detenuti e detenute.
Alla notizia delle rivolte che sono avvenute in diverse carceri italiane il 9 marzo il pensiero è andato subito ai nostri studenti di Opera, a Milano. Le metodologie didattiche, le riflessioni fatte in questi ultimi anni sulle diverse modalità di insegnamento messe in campo si sono sgretolate, lasciando spazio solo a un’apprensione che va al di là del rapporto insegnanti-studenti. Un rapporto che all’interno di una casa di reclusione ha sempre le sue particolarità, che in questa situazione vengono accentuate e modificate. Già normalmente, infatti, insegnare in carcere significa fare i conti con la difficoltà di costruire rapporti che vadano oltre le ore di lezione, in cui certamente viene messo in discussione il rapporto tra chi insegna e chi apprende, ma in cui emerge forte la differenza tra gli/le studenti recluse e quelli/e che non lo sono: può infatti capitare di incontrare chi non lo è nei chiostri, per strada, alla presentazione di un libro, possono scriverti una mail per avere consigli di lettura o ignorarti volontariamente; gli/le studenti recluse, invece, rimangono confinate in quelle ore in cui sei tu ad andare da loro, condividendo un loro spazio e comunicando solo attraverso procedure burocratiche. A maggior ragione in questo periodo di quarantena i fili che uniscono il dentro e il fuori sembrano quindi essersi spezzati.
Anche a Opera, come nelle altre carceri italiane, la rivolta di marzo è nata in seguito alla decisione presa dal Ministero della Giustizia che, per limitare la possibilità di contagi, ha previsto la sospensione dei permessi premio, del regime di semilibertà e dei colloqui con i familiari, lasciando come unico contatto con l’esterno qualche telefonata. Un’ulteriore limitazione delle già molto ristrette libertà, che appare solo punitiva e poco efficace, visto che nell’edificio continuano ad entrare dall’esterno il personale della polizia penitenziaria e gli operatori; e soprattutto visto che Opera, invece di 900 persone, ne “ospita” attualmente più di 1.300 ed è quindi praticamente impossibile mantenere le distanze richieste.
Di quei 1.300, alcuni in questi ultimi tre anni sono stati nostri studenti all’interno di un progetto dell’Università Statale di Milano, nato nel 2015 grazie al professor Stefano Simonetta, che prevede una Convenzione con gli istituti penitenziari cittadini (Bollate, Opera e, dal 2018, anche San Vittore) che implica l’esenzione dalle tasse universitarie e la possibilità di partecipare a una serie di attività formative, tra cui i “nostri” laboratori. Grazie a questo alcuni laboratori vengono svolti in carcere, con 40 posti disponibili per ogni laboratorio suddivisi tra metà studenti ristretti (nel nostro caso tutti maschi, non essendoci reparti femminili ad Opera) e metà esterni/e. Per poter frequentare il laboratorio, gli studenti ristretti non devono necessariamente essere iscritti all’Università, né tantomeno a Filosofia, dipartimento a cui il corso fa riferimento. Abbiamo così potuto discutere con studenti dalle più diverse formazioni, provenienza ed età di filosofia politica, di femminismo, di questioni di genere e di maschilità, a volte di violenza.
La naturalità dei rapporti di potere in carcere, e la sua stessa esistenza, sono difficilmente messe in discussione. Esso è, per dirla con Foucault, un dispositivo disciplinante, che agisce in primo luogo sui corpi e sulle condotte, entrambi al centro del meccanismo della didattica.
In questo contesto, la decostruzione di una didattica frontale non mira tanto alla parità quanto allo scambio di saperi diversi, che avvengono con tempi frammentati e seduti in cerchio. Portare la didattica in un carcere, per noi, ha voluto davvero dire interrogarci sugli intrecci di poteri e pratiche disciplinanti e provare a fare della classe e della lezione uno spazio di critica e di possibilità di scardinamento. Non tanto attraverso un’artificiale negazione delle diverse posizioni di potere-sapere, ma piuttosto mettendo in atto un cambio di prospettiva, che lasciasse spazio al sapere prodotto a partire da queste diverse posizioni, riconoscendole ed esplicitandole, per mostrare la pluralità dei saperi in gioco. Saperi che, soprattutto per gli argomenti trattati, partono dall’esperienza dei nostri corpi.
Forse per questo il nostro primo pensiero, dopo le rivolte del 9 marzo, è stato sperare che i nostri studenti stessero bene, che stessero bene i loro corpi. Subito dopo è venuta la solidarietà e la vicinanza alle donne che fuori dai cancelli di Opera chiedevano di sapere come stavano amici, fratelli, mariti e compagni. Parliamo di donne perché sono soprattutto le donne a farsi carico del lavoro di cura che il carcere comporta e che rende poroso il rapporto tra fuori e dentro: lenzuola sporche escono dal carcere per poi tornare dentro pulite, cibi vengono cucinati in casa per andare a integrare il vitto dentro, racconti e situazioni del mondo fuori arrivano dentro attraverso le parole di chi entra al colloquio. Un mondo, quindi, bruscamente interrotto, senza preavviso, dalle misure contro il covid19. Uno specchio estremo di quello che accade anche fuori, in cui continuano molte attività produttive mentre viene interrotta la socialità. Ma uno specchio deformato, perché non colmato da nessuna tecnologia, oltre che da una limitazione della libertà ben peggiore di ogni quarantena.
Anche fuori dal carcere, infatti, abbiamo assistito ad una richiesta di mantenere aperte le attività produttive non essenziali, non come strumento per garantire benessere, ma come un fine in sé, una macchina che non si poteva fermare. Un’incapacità di immaginare altri modi di vivere, che ricorda molto l’incapacità di pensare un mondo senza carceri. Una incapacità che ha svelato una scala di valori in cui lo spazio pubblico è apparso lecito solo come spazio produttivo e di consumo, quasi a voler tutelare la persistenza della normalità. Questa non è una critica alle necessarie cure per tutelare la salute di tutte e tutti, ma è il tentativo di guardare cosa è stato scelto di tutelare, come in quel gioco in cui chiedersi cosa salvare dalla propria casa in fiamme fa emergere le proprie priorità.
E così anche noi abbiamo pensato alla didattica solo molto dopo esserci chieste come stessero i nostri studenti. Come se non fosse una necessità primaria, quando per molto tempo abbiamo sostenuto il contrario, affermando il diritto allo studio come un’arma fondamentale per l’emancipazione. Un diritto tutelato da quelle direzioni carcerarie che, per volontà e possibilità strutturale hanno cercato di non sospendere la didattica e hanno trasferito le lezioni online, accogliendo le richieste della rete dei docenti delle scuole ristrette di non sospendere le lezioni che coinvolgono 20.357 (il 34,64%) persone detenute.
Per queste persone, durante l’attuale emergenza, il contatto con i/le docenti è stato completamente sospeso e questo significa l’impossibilità di terminare l’anno scolastico e sostenere gli esami, a meno che, come scrivono gli insegnanti della rete, “non si stia intendendo tacitamente che bisogna promuovere tutti e con gli stessi voti, perché tanto lo studio in carcere vale meno di niente…”. E per questo la rete chiede di predisporre percorsi di teledidattica in carcere e mettere le persone ristrette nelle condizioni di poter avere gli spazi, le condizioni e i materiali necessari per studiare.
Un primo esperimento a riguardo è stato fatto dalla Casa Circondariale di Massa Marittima (Grosseto) che il 31 marzo ha avviato il proseguimento dei corsi di istruzione in carcere attraverso videolezioni su Skype per 30 studenti iscritti ai percorsi formativi di prima alfabetizzazione, scuola media e primo biennio delle superiori. L’esperimento è stato accolto non senza critiche, ma forse è troppo presto per darne una valutazione.
Quello che possiamo fare qui è chiederci come, fuori e dentro il carcere, la didattica online sia in grado di sostituire quella in presenza, con le specificità che comporta la presenza in una casa di reclusione. Come sostiene Renata Pepicelli, “per funzionare bene la didattica ha bisogno di spazi dedicati, e di menti e di corpi che si mettano in gioco all’interno di una dimensione comunitaria, che include le relazioni tra docenti, tra docenti e studenti, tra studenti. Altrimenti è l’affermazione del primato della verticalità nella dimensione dell’insegnamento-apprendimento a discapito di quello della circolarità”. Se questo è vero, allora anche prima della didattica a distanza il carcere ci aveva interrogate su cosa fosse questa dimensione comunitaria e su come immaginarla, o su come scardinare la dimensione verticale dell’insegnamento anche in sua assenza. Una delle nostre risposte, parziale, era stata che era possibile farlo proprio varcando i cancelli di un carcere, condividendo una condizione e osservando degli spazi che troppo spesso restano esclusi non solo dal dibattito pubblico, ma anche dalla vista. Entrare come insegnanti in carcere significava disporsi a imparare qualcosa su quello spazio inedito da chi vi si trovava rinchiuso, significava cedere un pezzo di padronanza e quindi, necessariamente, un pezzo di potere. E poi poter portare quello che si era visto fuori dalle mura della prigione, permettendo di rendere leggermente più porosi i confini tra dentro e fuori.
Con la didattica a distanza questo è impossibile e il rischio di rimanere salde in cattedra, costruendo rapporti verticali, si fa più forte. Inoltre, se già la didattica a distanza sottolinea disuguaglianze e differenze di possibilità, entrando nelle case o rendendo evidente quando è impossibile farlo, in un carcere mette in luce anche la disparità di spazi: collegarci dalla nostra casa, tra le nostre cose, con chi si trova in un carcere, sorvegliato e in un luogo non suo, rende ancora più dispari le posizioni. E al rischio della cattedra si aggiunge quello di normalizzare il carcere, trattandolo come uno spazio privato, come una casa, e non come un’istituzione.
Il carcere, ancora una volta, in questo periodo è finito nel silenzio, reso lontano non tanto dalle mura quanto dall’indifferenza verso la sorte di chi vi sta chiuso dentro. E il silenzio sulla didattica in carcere è solo un pezzo di questa coltre, che ha coperto anche i morti nelle rivolte delle ultime settimane, che non possiamo che ricordare qui: Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan.