Pubblichiamo l’intervento di Riccardo Ierna al convegno “Esplorare politiche: per una comprensione delle produzioni politiche dal basso. Approcci, metodologie e apporti teorici” tenutosi a Bologna, il 20 giugno 2014.
Le idee non possono realizzare nulla. Per realizzare le idee, c’è bisogno degli uomini, che mettono in gioco una forza pratica.Karl Marx
Io credo che non sia possibile oggi, parlare di salute mentale in Italia, senza fare riferimento a quel complesso lavoro pratico e di ricerca che fu avviato dal movimento anti-istituzionale e che frettolosamente fu assimilato alla legge 180, come vertice finale di una traiettoria che aveva visto la distruzione pratica del manicomio e il tentativo di avviare un lavoro di ripensamento del disagio mentale nei termini di un’azione collettiva, fortemente legata alla partecipazione della società civile ai temi della salute e della malattia.
Proprio il tema della partecipazione, della possibilità cioè di costruire nuovi percorsi di inclusione sociale e di immaginare modalità diverse di rapporto tra le persone, è stato il punto di rottura tra la vecchia psichiatria custodialistica e il movimento anti-istituzionale. Movimento fortemente impegnato nell’organizzazione dei nascenti servizi territoriali e nella costruzione di nuovi spazi di espressione della soggettività dentro il contratto sociale, fuori dalla delega e dalla tutela del tecnico.
In questo senso, il lavoro del movimento si è articolato attraverso tre grandi questioni sollevate attraverso l’esperienza pratica sul campo reale: la distruzione del manicomio come fatto “urgentemente necessario” e luogo della contraddizione più evidente della questione psichiatrica, istituzionale, politica e sociale. La costruzione di nuovi possibili spazi di affrontamento delle contraddizioni che la “malattia” portava, attraverso la gestione dei primi servizi territoriali e successivamente l’organizzazione dei primi servizi dipartimentali di salute mentale.
L’uscita, infine, dallo specifico psichiatrico e il collegamento delle lotte antistituzionali ad una più ampia lotta politica per la trasformazione della società.
Queste questioni sono entrate nella successiva gestione dei servizi soprattutto a due livelli: a livello della pratica clinica, attraverso una critica dell’intervento tecnico che fu di fatto una critica allo specialismo non come ingenuo rifiuto delle tecniche, ma come critica a quel modo tutto settoriale di affrontare i problemi e le contraddizioni che la “malattia” portava, considerandola dunque un prodotto storico-sociale, e non un problema specifico di ordine biologico, psicologico o sociale da studiare e trattare separatamente. Sempre a livello di riflessione sulla pratica, anche attraverso un allargamento della questione psichiatrica al ruolo della medicina nella società e alla gestione dei problemi della salute e della malattia nel contesto più ampio dei rapporti di produzione e riproduzione sociale. Ed infine anche attraverso una lettura del disagio come spia sociale di una sofferenza sempre più disseminata nel tessuto sociale, correlata allo smantellamento dello stato sociale, alle politiche amministrative e gestionali dei servizi, alla precarizzazione del lavoro e alla disoccupazione, al dissolvimento delle vecchie forme identitarie e collettive di aggregazione sociale e politica.
Il secondo livello è stato senz’altro quello della riabilitazione, attraverso un ripensamento del lavoro come campo di possibile autonomia e ricontrattualizzazione della propria esperienza di vita (il motto “dentro il contratto sociale, fuori dalla tutela) e che ebbe il suo culmine nella costruzione e nella gestione delle prime esperienze di impresa sociale (soprattutto nel nord Italia) e di cooperazione sociale (con una maggiore concentrazione nel centro-sud).
Ora evitando generalizzazioni fuorvianti, ma cercando di interpretare il risultato di alcune indagini sul campo, esprimendo quindi un’ipotesi solo tendenziale, abbiamo io credo, oggi, una situazione dei servizi che si può riassumere pressappoco in questi termini:
Sul piano della pratica clinica il lavoro di molti servizi rimane prevalentemente basato sul contenimento sintomatologico con un’evidente politica di riduzione del danno e di gestione del deficit, a cui fa da sfondo un certo “ipertecnicismo prestazionale” agevolato dalla gestione protocollare, aziendalistica e burocratizzata del servizio pubblico. Una prassi che finisce inevitabilmente per creare situazioni di depoliticizzazione del ruolo professionale, sempre più orientato all’iper-specializzazione delle competenze e che può sfociare in due forme apparentemente contraddittorie di interpretazione della funzione tecnica: o un “apoliticismo tecnicistico” che mi pare essere prevalente soprattutto nei giovani operatori, o una forma di politicizzazione esclusivamente corporativa, ideologica, ormai slegata dalla realtà sociale e che vedo maggiormente espressa dai “vecchi militanti” del movimento.
Sul piano della riabilitazione mi pare invece di poter dire che la questione del lavoro e dei livelli di occupazione costituiscono oggi una questione centrale, che è la questione di quello che Benedetto Saraceno ha chiamato l’infinito “intrattenimento” degli “improduttivi”, e che si declina lungo due grandi assi organizzativi ed istituzionali. A livello del lavoro, attraverso tutto quel complesso meccanismo di sussidi, borse lavoro, stage, tirocinii protetti senza, spesso, alcuna contrattualità sociale e salariale e senza garanzie di stabilità e di tutela per i lavoratori cosiddetti “svantaggiati”. Con forme spesso perverse di gestione del lavoro attraverso sistemi di “premio-punizione”, per cui se l’utente si comporta bene potrà avere una chance di continuare il suo percorso protetto, se avrà una crisi o si comporterà male, perderà ogni possibilità di accesso futuro al lavoro e rientrerà giocoforza nel circuito psichiatrico legittimando il noto fenomeno del “revolving door” dei servizi. E dovremmo chiederci quanti di questi esiti infausti, dipendano anche dal fatto che la gestione riabilitativa del lavoro sia ancora nelle mani dei dipartimenti di salute mentale, o sottoforma di “convenzione monopolistica” con le cooperative sociali, o attraverso l’uso di agenzie sociali e territoriali di cooptazione dell’utenza allo scopo di tenerne sotto controllo il percorso di vita e di “malattia”. A livello di gestione del “tempo libero” e di riappropriazione di alcune competenze elementari la contraddizione di esplicita soprattutto attraverso la gestione di una serie di attività, penso soprattutto ad alcuni centri diurni, completamente a-finalizzate, non pensate assieme agli utenti, ma imposte a livello istituzionale da un rigido programma formalizzato. Oppure alla riproposizione di un “pacchetto di attività quotidiane”, penso a molte comunità terapeutiche, finalizzato prevalentemente alla riproduzione istituzionale ed a mantenere il suo funzionamento, generando una complessiva perdita di senso nel pensiero di chi deve obbligatoriamente farsene carico.
A me pare allora che vi siano alcune grandi questioni rimaste aperte e forse inevase, nella attuale composizione del lavoro nei servizi e sulle quali sarebbe opportuno tornare a riflettere. Innanzitutto la questione della crisi e della sua gestione, che mi sembra oggi affrontata non molto diversamente da come si affrontava in era tardo-manicomiale. Cioè attraverso una forma di contenimento spesso fisico, il più delle volte farmacologico e negli ultimi anni affiancato da quello che ho definito “un contenimento psicologico” del disagio. Quindi come esito finale di qualcosa che non è più rientrato nell’analisi critica delle determinanti sociali e contestuali della sofferenza mentale. Ma che è tornato ad essere problema separato dal corpo sociale e dalle sue contraddizioni.
In questo senso meriterebbe una riflessione profonda la questione del T.S.O., questione a mio avviso rimasta aperta e della quale lo stesso Basaglia, all’indomani della promulgazione della legge 180, indicava un livello di criticità fondamentale, definendolo ancora come “una procedura di internamento” seppur attenuata da alcuni livelli di garanzia istituzionale come le figure legislative del Sindaco e del Giudice tutelare e le indicazioni relative ad una gestione prevalentemente extraospedaliera ed eccezionale del procedimento coattivo. Questione mai realmente ripresa in mano dai vecchi militanti del movimento, più preoccupati di difendere l’impianto generale della legge e la sua applicazione che non le sue contraddizioni rimaste aperte.
Come pure rimane inevasa la questione del lavoro, nel senso di tornare a chiedersi se oggi costituisca realmente la base di un processo emancipativo e di risingolarizzazione della propria esperienza di vita, o se invece rappresenti la contraddizione più evidente di un sistema capitalistico di gestione dell’improduttività, che ha bisogno di un “esercito di riserva” per mantenere inalterati i suoi rapporti di produzione. In un momento nel quale il tasso di disoccupazione supera la soglia storica del ’77 (13,6% su base trimestrale nel 2014) e non c’è richiesta di forza-lavoro stabile se non nelle forme flessibili e pracarizzate che conosciamo.
A questo proposito mi sembra importante riprendere in mano un’altra grande questione che è quella di come impedire l’emergere di un assistenzialismo di ritorno, passivizzante e fortemente paternalistico che abbiamo ereditato dal vecchio stato sociale. Un assistenzialismo caratterizzato da forme di gestione passivizzanti, caritatevoli, deresponsabilizzanti e che finisce per ricreare quella forma di dipendenza pericolosa tra servizio e utenza. Una dipendenza che di fatto rende vano ogni tentativo di progettualità realmente emancipativa, ma anzi rafforza posizioni di ricattabilità istituzionale, favorendo processi paradossali di ristigmatizzazione sociale.
E qui io credo entra in modo importante la questione della prevenzione, come ulteriore livello di analisi che non è stato a mio avviso più riconsiderato. C’è da chiedersi infatti che cosa è diventata la prevenzione nella prassi del servizio pubblico. Che significato riveste per le strategie istituzionali e per le politiche pubbliche. Che ruolo riveste nell’operatività dei servizi, che funzione assume rispetto all’intervento tecnico (clinico). A me sembra che oggi questa parola sia stata completamente svuotata del senso che poteva avere nella prassi anti-istituzionale di trent’anni fa; che si declini ormai esclusivamente come “individuazione precoce del disturbo”, come evento-sentinella di un disagio, piuttosto che come prassi in grado di pensare e costruire condizioni materiali di affrontamento dei problemi e delle contraddizioni che la sofferenza mentale porta con se da sempre.
In tutto questo discorso non possiamo però dimenticare una questione essenziale: la formazione degli operatori. Anche qui si tratta di una vecchia questione che a mio avviso non è stata più riproblematizzata. Cosa si insegna oggi nelle facoltà di Medicina e di Psicologia? Con quali strumenti teorici e prassici si esce dal percorso accademico? Essi sono sufficienti a dotare il futuro tecnico di quell’equipaggiamento in grado di fargli affrontare il campo reale delle contraddizioni sociali che il “malato” gli mostrerà nella sua sofferenza singolare? Io credo di no e sono persuaso che se non si cambierà anche attraverso una lotta politica l’assetto dell’università italiana, avremo difficoltà a pensare ad un cambiamento radicale della prassi nei servizi. Perché farlo successivamente dentro i servizi è molto più difficile quando si deve decostruire tutto quello che si è imparato.
A me pare che a questo problema concorra anche un altro grande nodo che è quello delle vecchie forme di rappresentanza del movimento e della loro capacità o incapacità di affrontare tutti i livelli critici precedentemente evocati. Credo, e mi prendo la responsabilità di esprimere un’opinione personale su questo, che dobbiamo fare i conti oggi, con un progressivo esaurimento della spinta propulsiva delle vecchie forme organizzative del movimento anti-istituzionale. Penso in particolar modo all’esperienza di Psichiatria Democratica, ormai congelata in una forma quasi residuale di movimentismo ideologico e politico che non riesce più accogliere, a far convergere e a comprendere la posizione dei giovani operatori, del nuovo protagonismo degli utenti, della nuova composizione dei movimenti sociali, delle loro lotte, delle loro rivendicazioni, delle nuove criticità che si giocano sul campo reale della prassi. A me pare che si sia rimasti colpevolmente seduti nella posizione di una rendita storica oggi non più spendibile con le giovani generazioni, se non come rilancio critico ed autocritico delle proprie contraddizioni. Penso anche al Forum di Salute Mentale, che nato sotto la spinta di un ripensamento critico delle enunciazioni e delle prassi ha finito anch’esso per riprodurre forme di cooptazione egemonica delle giovani generazioni, rilanciando un’esperienza come quella triestina, che per quanto fondamentale testimonianza storica della prassi del movimento, oggi non è più in grado di garantire da sola una sponda su cui fondare un ripensamento critico delle prassi e rilanciare un livello di analisi che vada oltre lo slogan o l’utilizzo dei vecchi strumenti della lotta (Marco Cavallo).
Di fronte a questo scenario occorre allora chiedersi se esistano forme di partecipazione sociale e di ri-coinvolgimento politico collettivo in grado di riprendere in mano queste questioni, porsi dialetticamente con le vecchie forme rappresentative del movimento e di rilanciare iniziative e azioni capaci di “riproblematizzare l’ovvio” ed eventualmente indicare ulteriori percorsi di lotta e di prassi. In questo senso, anche attraverso un piccolo lavoro di ricerca che si è avviato ormai da circa un anno, è stato possibile cominciare a tracciare una piccola mappa di nuclei di progettualità sociale e politica a livello locale, in grado di rimettere in moto un lavoro prezioso di ricomposizione sociale delle esperienze e di indicare soluzioni originali di risposta politica oltreché tecnica alla sofferenza individuale e collettiva.
Veri e propri balbettii di resistenza sociale, queste esperienze traggono origine dallo sforzo straordinario di giovani operatori, studenti, specializzandi, ma anche di associazioni di utenti e di familiari, o di gruppi informali di società civile che hanno cominciato a riunirsi quotidianamente e a “socializzare il proprio disagio” di tecnici, di operatori, di cittadini, di sofferenti e di esclusi, avviando iniziative di confronto pubblico con le istituzioni, gli enti locali, le agenzie sociali, le amministrazioni del territorio e con i servizi, articolando in alcuni casi, una serie di confronti internazionali tra la propria esperienza e quelle di oltre confine.
Movimenti senz’altro ancora embrionali, spesso frammentati e incapaci di avviare immediatamente una strategia politica collettiva unitaria. Esperienze in cui si rileva spesso la difficoltà a mantenere un certo livello di coesione interna, di gestire le proprie contraddizioni, i ruoli di leadership, i livelli di negoziazione politica con le istituzioni. In questo senso si avverte spesso il pericolo di un recupero “tecnico” di queste esperienze, di meccanismi di cooptazione istituzionale e/o politica, di strumentalizzazioni o di pericolose forme di avventurismo adialettico. Per cui ci si chiede se il livello di partecipazione può essere realmente giocato su una base emancipativa e di rivendicazione di un ruolo forte nei processi decisionali, o se vi sia il pericolo che esso venga riciclato per una mera riproduzione istituzionale e mantenga una posizione di subalternità rispetto ai servizi.
Vorrei comunque immaginarle come una prima forma molto abbozzata e parziale di “produzione politica dal basso”, tenendo presente che se non si costruirà parallelamente ad esse, una coscienza politica in grado di affiancarle ed organizzarle come momenti di lotta su una base più allargata, difficilmente esse potranno incidere a livello istituzionale per una trasformazione delle condizioni materiali e sociali del disagio e sui reali rapporti di forza su cui si fondano queste contraddizioni.
Concludo con le parole di Lucio Magri, nel suo intervento di chiusura al convegno “Dalla psichiatria alla salute mentale. Scienza, politica e liberazione dell’uomo” organizzato dal PCI nel 1987 e da cui ho preso spunto per il titolo del mio intervento:
Sappiamo che uno dei nodi più caldi e decisivi dello scontro sociale e politico è oggi e sarà nei prossimi anni la questione dello smantellamento dello stato sociale, della sua trasformazione da stato sociale universalistico a stato sociale residuale. Tale scontro investe anche e forse soprattutto la sanità come servizio pubblico, appunto a base universalistica; e nella sanità questo scontro tra pubblico e privato, tra stato sociale universalistico e stato sociale residuale, si concentra sulla discriminante specifica tra intervento clinico e prevenzione.
Parole che se riviste nell’ottica di oggi, ci danno la misura di quanto abbiamo ancora da fare perché la lotta nei contesti di lavoro torni ad essere motore di trasformazione sociale, strumento di liberazione e non di oppressione.
Bibliografia
A.A.V.V. [1984]: Dalla psichiatria alla salute mentale. Scienza, politica, liberazione dell’uomo, Salemi, Roma
A.A.V.V. [2005]: Crisi psichiatrica e sistemi sanitari, Asterios, Trieste.
AYMONE T. ET AL. [1993]: I nuovi movimenti. Politiche sociali e volontariato nel Welfare, Il Lavoro Editoriale.
BARBINA D., DELL’ACQUA G., DEL GIUDICE G.: Dalle istituzioni della psichiatria alle istituzioni della salute mentale: Franco Basaglia, draft non pubblicato, disponibile presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.
BARNES M., BOWL R. [2003]: Empowerment e salute mentale. Il potere dei movimenti sociali degli utenti, Ed Centro Studi Erickson.
BASAGLIA F. [1965], Corpo, sguardo e silenzio. L’enigma della soggettività in psichiatria, in Scritti Vol. 1, 1953-1968, Einaudi, 1981, Torino.
BASAGLIA F. [1981]: Scritti vol. I, 1953-1968, Dalla psichiatria fenomenologia all’esperienza di Gorizia, Einaudi, Torino.
BASAGLIA F. [1982]: Scritti vol. II, 1968-1980, Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Einaudi, Torino.
BASAGLIA F. [2000]: Conferenze brasiliane, nuova trad. arricchita a c. di F.Ongaro Basaglia e M.G. Giannichedda, Raffaello Cortina Editore, Milano.
BASAGLIA F., GALLIO G. [1992]: La vocazione terapeutica. Per un’analisi critica alla “via italiana” alla riforma psichiatrica (1950-1978) in Aa. Vv., Salute mentale. Pragmatica e complessità, 2 voll. a c. di A. Debernardi, R. Mezzana, B. Norcio, Centro Studi e ricerche regionale per la salute mentale, Regione Friuli-Venezia Giulia, Trieste.
CARLI R., PANICCIA R.M. [2011]: La cultura dei servizi di salute mentale in Italia. Dai malati psichiatrici alla nuova utenza: l’evoluzione della domanda di aiuto e delle dinamiche di rapporto, Franco Angeli, Milano.
CASTEL R. [1982]: Verso una società relazionale, Feltrinelli, Milano.
COZZI D. [2012]: Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi.
DEL GIUDICE G. (a cura di) [2000]: Formazione ed inserimento lavorativo. Pratiche di abilitazione ed emancipazione nella salute mentale, Asterios Editore, Trieste.
DE LEONARDIS O. [1990]: Il terzo escluso, Feltrinelli, Milano
DE LEONARDIS O. [1998]: In un diverso welfare. Sogni e incubi, Feltrinelli, Milano
DE LEONARDIS O., MAURI D., ROTELLI F. [ 1994]: L’impresa sociale, Anabasi, Milano.
DE SALVIA D. [1977] Per una Psichiatria Alternativa, Feltrinelli, Milano.
DE SALVIA D., CREPET P. [1982] Psichiatria senza manicomio. Epidemiologia critica della riforma, Feltrinelli, Milano.
DI VITTORIO P. [1999]: Foucault e Basaglia. L’ incontro tra genealogie e movimenti di base, Ombre Corte Edizioni, Verona..
FOUCAULT M. [2002]: Storia della follia nell’età classica, BUR Saggi, Milano.
GALLIO G, GIANNICHEDDA M.G., DE LEONARDIS O., MAURI D. [1983]: La libertà è terapeutica?, Feltrinelli, Milano.
GALLIO G. [1990]: Io, la Clu. Conversazioni sull’essere e diventare cooperativa, Edizioni “e”, Trieste.
GALLIO G. [1991]: Nell’impresa sociale, Edizioni E, Trieste.
HARRIS M. [1984]: Materialismo culturale, Feltrinelli, Milano.
LANZARA G. F. [1993]: Capacità negativa, Il Mulino, Bologna.
LEGRAND M. [1988]: La psichiatrie alternative italienne, Privat, Toulouse.
MANACORDA A., MONTELLA V. [1977]: La nuova psichiatria in Italia, Feltrinelli, Milano.
MELUCCI A. [1984]: Altri codici, Il Mulino, Bologna.
MELUCCI A. [1991]: L’invenzione del presente, Il Mulino, Bologna.
MICHELI G. A. [1982]: I nuovi catari, Il Mulino, Bologna
MICHELI G. A. [1986]: Sofferenza psichica in scenari urbani, Unicopli.
MINELLI M. [2011]: Santi, demoni e giocatori. Una etnografia delle pratiche di salute mentale, Argo.
ONGARO BASAGLIA F. [1987]: Governare la riforma. In: “Dalla Psichiatria alla salute mentale”, Salemi, Roma.
ONNIS L., LO RUSSO G. [1979]: La ragione degli altri. La psichiatria alternativa in Italia e nel mondo., Savelli, Roma.
ONNIS L., LO RUSSO G. [1980]: Dove va la psichiatria?, Feltrinelli, Milano.
PICCIONE R. [2004]: Il futuro dei servizi di salute mentale in Italia, Franco Angeli, Milano.
PIRO S. [1980]: La scacchiera maledetta, Tempi Moderni, Napoli.
ROTELLI F. [1999]: Quale politica per la salute mentale alla fine di un secolo di riforme?, in “La Psicoanalisi” rivista del campo freudiano, n. 25, Astrolabio, Roma.
QUARANTA I. [2006]: Antropologia medica. I testi fondamentali, Cortina, Milano.
STEFANONI F. [1998]: Manicomio Italia. Inchiesta su follia e psichiatria, Editori Riuniti, Roma.
VENTURINI E. [1979]: Il giardino dei gelsi, Einaudi, Torino.
WARNER R. [1991]: Schizofrenia e guarigione, Feltrinelli, Milano.