L’ultimo numero della rivista Meridiana torna sul concetto di cosmopolitismo in quanto comune orizzonte morale di condivisa umanità che impone il dovere di rifocillare il viandante, di dare alloggio al pellegrino, di confortare e accogliere il viaggiatore.
Le scienze sociali sono investite da una serissima crisi “paradigmatica”, vale a dire dei principi costitutivi del loro sapere: funzionalismo, strutturalismo e marxismo, i tre grandi dominatori a fasi alterne del Novecento, hanno da tempo cessato qualunque ambizione egemonica. Così, le nostre scienze dell’uomo cercano con ansia nuove strategie di legittimazione e di riconoscimento pubblico. Le ragioni di questa urgenza fondativa non sono necessariamente epistemologiche, e sono anzi prima di tutto di ordine finanziario e politico assieme. Si tratta cioè di dimostrare che queste scienze (che spesso non hanno immediate ricadute tecnologiche) sono comunque “utili” se non a guidare almeno a comprendere le forme della vita associata. I politici e gli amministratori, in effetti, hanno il compito di gestire la cosa pubblica, di produrre il bene per la comunità e di migliorare le condizioni della convivenza sociale. Per fare questo, poniamo, la digitalizzazione dei servizi al cittadino sembra un obiettivo spontaneamente perseguibile, mentre capire perché i musulmani a Roma preghino spesso in ambienti precari non sembra avere la stessa ricaduta immediatamente sociale. Insomma, il sapere delle scienze sociali (fatta salva l’immarcescibile economia politica, regina incontrastata dei dragomanni di corte) sembra soffrire di una qualche penuria di valore e sempre i suoi praticanti si ostinano a trovare “teorie” che ne giustifichino le ambizioni. Da una ventina d’anni queste “teorie” prendono la forma di curiose “svolte”, declinate preferibilmente in inglese: linguistic turn, postmodern turn, material turn, practice turn, cognitive turn, mobility turn, fino alle più recenti e ruggenti post-human e ontological turn. Tra tutte queste svolte, un peso essenziale è stato giocato dall’individuazione di parole chiave, concetti guida che (si spera, più che altro) potranno gettare una luce interpretativa veramente innovativa sull’attuale quadro sociale. È su questo sfondo che si colloca l’emergere ormai consolidato di un termine, cosmopolitismo, che ha una lunghissima storia ma un uso peculiare del tutto recente.
Secondo alcune interpretazioni, il «cosmopolitismo» si sarebbe riaffacciato al panorama del dibattito internazionale alla fine degli anni novanta come nuova prospettiva mediana avanzata dalla sinistra tra l’etnocentrismo tipico degli approcci più o meno consapevolmente nazionalisti (costretti ancora a giocare dentro l’ottica cripto-evoluzionista della modernizzazione e della civilizzazione) e l’esausto particolarismo del multiculturalismo più rigido (incapace di cogliere alcuna vera comunicazione tra le culture al di là della loro sterile giustapposizione reificante). Il termine, detto altrimenti, consentirebbe analiticamente di poter fare a meno dei vecchi modelli evoluzionisti (secondo cui il “nostro” stile di vita è semplicemente in anticipo sui tempi rispetto ai modelli culturali degli “altri”, che prima o poi dovranno adeguarsi) senza cadere nell’inane frammentazione multiculturale, per cui ogni individuo sarebbe intrappolato nella microscopica bolla della sua cultura locale. Pensare a soggettività cosmopolite ci consente di vedere flessibilità identitarie declinabili nel tempo e nello spazio, assunzioni di prospettive ad ampio raggio, una disponibilità generalizzata verso un atteggiamento identitariamente un poco cinico, malleabile per evidenti scopi adattivi. Questo soggetto cosmopolita apparirebbe come un viaggiatore infaticabile e curioso, in grado di assorbire dal contesto del suo movimento idee e pratiche che lo rendono sempre in grado di gestire emotivamente e cognitivamente la situazione.
L’antropologia, disciplina che molto impiega questo termine come grimaldello dell’analisi, non si occupa ovviamente solo dell’élite cosmopolita che tutti più o meno siamo in grado di immaginare, e si chiede piuttosto se un atteggiamento cosmopolita (di apertura alla diversità, per sintetizzare) non sia rinvenibile anche in chi viaggia per necessità e non per diporto, o addirittura in chi non viaggia mai.
L’antropologia culturale racconta bene come il cosmopolitismo altro non sia che un nome diverso (o un fuoco di attenzione diversa) del vecchio (in quanto ampiamente studiato dall’antropologia) sistema dell’ospitalità, che ha visto storicamente nel bacino del Mediterraneo uno dei suoi centri più solidi di pratica. Con il termine “cosmopolitismo” indichiamo in effetti prima di tutto la capacità o disponibilità di uscire dal proprio ristretto orizzonte valoriale, accostandosi all’altro anche con circospezione, se necessario, ma con una chiara disponibilità all’apertura. Questa definizione, potremmo dire, è una discreta parafrasi anche dell’ospitalità, vale a dire quella prospettiva culturale per cui lo Straniero, il più lontano per definizione, una volta che sia viandante e quindi si avvicini, prenda le sembianze del parente più stretto, e sia trattato con la medesima attenzione e cura. L’ospitalità è una forma curiosamente diffusa della reciprocità generalizzata, vale a dire del dono gratuito. Marshall Sahlins ci ha spiegato che il sistema della reciprocità (vale a dire lo scambio di beni e servizi fuori dal sistema del mercato autoregolato) si muove lungo un asse continuo, a un cui estremo si pone la reciprocità generalizzata, vale a dire il dono totalmente gratuito, e all’altro estremo la reciprocità negativa, vale a dire il movimento di beni tramite la violenza e l’azione predonesca.
Tra questi due poli si collocano forme intermedie di reciprocità, più o meno equilibrate. Sappiamo che vi è una correlazione diretta tra grado di intimità e generalità della reciprocità. Vale a dire: quanto più i due soggetti sono in pregresso rapporto di intimità (legato alla parentela, al vicinato, all’amicizia o all’alleanza), tanto più prevalgono forme «gratuite e obbligatorie» di donazione. Quanto più ci si allontana da questo nucleo progressivamente sfilacciato dell’intimità domestica, tanto più ci si sposta verso forme prima equilibrate e poi negative di reciprocità, al punto che un mercante, che deve regalare la merce ai suoi parenti ed essere equo con i vicini e i suoi compaesani, può invece vantarsi di aver imbrogliato gli acquirenti del villaggio oltre il fiume, ricavando dallo scambio più di quanto sarebbe stato lecito in un contesto più domestico. Ma è proprio al limite della massima differenza che si affaccia il demone cosmopolita dell’ospitalità.
La correlazione lineare tra distanza sociale e forme della reciprocità viene sovvertita al margine estremo dell’identità, proprio lì dove si affaccia l’Altro assoluto, lo straniero. Di fronte allo sconosciuto totale e inaspettato, il viandante anonimo, il forestiero di cui nulla si sa, proprio lì dove ci si aspetterebbe il massimo della reciprocità negativa, l’atto di pirateria, lo stupro e il saccheggio, ecco che il cosmopolitismo un po’ vagheggiato dagli scienziati sociali, cioè il riconoscimento di una comune umanità, impone il dovere sacro dell’ospitalità, il riconoscimento che l’Altro è Altro, ma questa alterità è concepibile dentro un comune orizzonte morale di condivisa umanità che impone il dovere di rifocillare il viandante, di dare alloggio al pellegrino, di confortare e accogliere il viaggiatore.
È quindi possibile leggere il cosmopolitismo come un doppio gioco tra ospitanti e ospitati, un dialogo imposto da genealogie diverse della stessa concezione universale dell’umano. Il cosmopolitismo non può mai essere, costitutivamente, monologico, vettoriale in un’unica direzione, quello semmai si chiama nazionalismo, espansionismo, colonizzazione, annessione, al limite «progresso». Il cosmopolitismo necessariamente dialogico di cui proviamo a tracciare i contorni morali è un rapporto almeno bidirezionale, una richiesta e un riconoscimento, un’interpellazione e una risposta, un chiedere e un dare. Dentro questa logica ci saranno forme vernacolari, occidentaliste, strategiche e perfino parassitarie di cosmopolitismo, specchietti per le allodole, adeguamenti di necessità fino a forme utilitaristiche massimizzanti, ma nondimeno il gioco sarà aperto, la partita dell’interazione umana sarà stabilita nei limiti del campo di gioco.
Il cosmopolitismo è invece finito quando uno dei due si chiama fuori, quando la richiesta di ospitalità è respinta al mittente, quando chiedere non è più consentito e quando prestare soccorso a chi ha bisogno viene percepito come illegittimo o addirittura illegale. A quel punto non serve più chiedersi se il cosmopolitismo abbia una sua radice storica inevitabile nell’Occidente o se invece possa essere sorto autonomamente in altre porzioni dell’umano. A quel punto, quando è stato negato, il cosmopolitismo è stato sradicato, si è spento, non ha più senso parlarne o cercarne la storia. Come il lievito madre, una volta che l’abbiamo lasciato morire non ha più senso chiedersi da dove venisse, originariamente. E se proprio siamo stati noi a crearlo all’inizio di tutto, e gli altri avevano iniziato a usarlo avendolo ricevuto in dono da noi, se ora proprio noi l’abbiamo lasciato morire, annegato nel cimitero del Mediterraneo, questa disgrazia ancor più ci sia grave sulla nostra vergogna.