Sulla scomparsa di un pioniere e uno sperimentatore.
Come ha scritto Angela Mengoni in un testo di omaggio pubblicato ieri su E/C (il giornale scientifico dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici con la quale Damisch ha collaborato fin dalla sua fondazione), il pensiero e la scrittura dello studioso francese si sono «sempre formulati nei termini di una interrogazione [e] riguardano operazioni e dispositivi suscettibili di nutrire e orientare ricerche future». Si tratta di un percorso di ricerca improntato al rigore teorico e metodologico, alieno tanto alla pretesa di elaborare cartografie definitive quanto alla tentazione di impossessarsi del campo di studi sull’arte con un termine a effetto capace di garantire, giusto per qualche anno, il successo di una scuola. Forse, proprio per questo, ciò che lascia è ancora più grande e impegnativo per chi desideri interessarvisi o prendersene cura.
Chi scrive queste righe non è stato un suo allievo. Di sicuro – in buona e abbondante compagnia – sono stato affascinato da opere come Teoria della nuvola (1972, ed. it. 1984), L’origine della prospettiva (1987, ed. it. 1992) e Le jugement de Pâris (1992), fino al recente La ruse du tableau (2016). Un barlume della luminosità di questi libri è ciò che vorrei provare a restituire con queste poche righe.
Nato nel 1928, allievo e collaboratore di Maurice Merleau-Ponty e di Pierre Francastel, dal 1958 Damisch ha insegnato Storia e teoria dell’arte presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes, l’Ecole Normale Supérieure e dunque all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, dove ha fondato il Cercle d’Historie/Théorie des Arts, da cui nascerà il Centre d’Histoire et Théorie des Arts. Parallelamente, ha tenuto corsi negli Stati Uniti e conferenze nelle università di tutto il mondo.
La sua produzione saggistica si compone di una quantità impressionante di ricerche dedicate alla storia della pittura e agli aspetti teorici implicati, che impongono la continua elaborazione di nuovi strumenti analitici e interpretativi: oltre ai già citati volumi sulla rappresentazione della /nuvola/, sul rapporto tra prospettiva geometrica e teoria dell’enunciazione, e sulla fortuna del mito di Paride nella cultura visuale occidentale, vale la pena ricordare almeno Fenêtre jaune cadmium ou les dessous de la peinture (1984), Traité du trait (1995) e Un “souvenir d’enfance” par Piero della Francesca (1997), ma anche le raccolte di saggi dedicati all’architettura (Skyline, 1997, ed. it. 1998), alla fotografia (La Dénivelée, 2001) e al cinema (Ciné fil, 2008). A questo si aggiungono centinaia di articoli pubblicati su riviste specializzate ed enciclopedie, prefazioni, introduzioni a cataloghi d’artista e interviste nei quali la riflessione sulle arti visive e audiovisive si intreccia e si complessifica attraverso un continuo confronto con il pensiero filosofico, psicanalitico, semiotico e antropologico.
Per chi – come chi scrive – è nato nell’ultimo quarto del ventesimo secolo e l’unica “rivoluzione” alla quale ha potuto assistere se non prendere parte è quella digitale, non è facile immaginare lo sconvolgimento provocato all’interno delle discipline storico-artistiche e, più in generale, nelle scienze umane da un approccio come quello di Damisch, indiscusso protagonista di quel dibattito strutturalista e post-strutturalista dove il confronto con la linguistica e la semiotica ha costituito il presupposto di un profondo rinnovamento teorico e metodologico.
Al cuore della sua rivoluzione è quantomeno possibile identificare il superamento della rigida opposizione tra storia e teoria, che tenderebbe a separare il lavoro della ricerca storica da quello della ricerca filosofica ed estetica e che ha in molti casi bloccato lo studio sulle arti, anche in Italia. Un superamento che si rende possibile attraverso l’analisi delle opere d’arte stesse (da cui l’idea di sviluppare un’“iconologia analitica”, espressa nel sottotitolo dello studio del 1992), nella convinzione che la singola opera, oppure un motivo o un problema visivo – come possono esserlo la “nuvola”, la “prospettiva” o il “tratto” –, possano obbligare la storia dell’arte a confrontarsi con il suo fuori, ovvero con il campo aperto della teoria, dove si identificano nuovi problemi e si dà forma a nuovi percorsi. Una visione della ricerca che problematizza una concezione lineare e arborescente della storia dell’arte così come di qualsiasi altro campo discorsivo e che, se condotta fino alle sue estreme conseguenze, finisce per istruire una nuova modalità spettatoriale: «un déplacement – et non plus simplement la place», scrive Damisch in L’amour m’expose (2007, p. 120), un saggio dedicato alla teoria e alla pratica dell’esposizione.
Il debito contratto da tutti quelli che si occupano di teoria delle arti e cultura visuale con il lavoro di Damisch è enorme, quand’anche inconsapevole.
In un numero del 2015 della rivista dell’INHA Perspective, dedicato allo stato della Storia dell’arte negli Stati Uniti, si riportava un sondaggio secondo il quale l’intera bibliografia di Damisch ha costituito un riferimento obbligato nella formazione degli studiosi americani degli ultimi decenni.
Nel loro Cultura Visuale, Andrea Pinotti e Antonio Somaini hanno del resto esplicitato l’importanza assunta da quella teoria dell’arte «intensamente impegnata in un confronto con la dimensione culturale dell’iconicità: esempio emblematico è l’approccio semiologico alla tradizione storica della pittura che troviamo in autori come Louis Marin, Hubert Damisch e Omar Calabrese» (A. Pinotti, A Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016, p. 60).
Sono passati solo pochi anni da quando, nel 2013, il Centre d’Histoire et Théorie des Arts ha omaggiato il suo fondatore con una conferenza mirata a comprendere e prolungare l’appassionato lavoro di tessitura teorica prodotto da Hubert Damisch nel corso di un’intensa carriera che si confonde con la stessa vita. Le registrazioni video di quelle giornate, ospitate sul canale YouTube del Centre de Recherches sur les arts et le langage dell’EHESS, testimoniano la ricchezza e la lunga gittata del contributo offerto da Damisch nel campo delle scienze umane e sociali. Gli atti di quella conferenza sono adesso disponibili in lingua francese, in un volume curato da Giovanni Careri e Georges Didi-Huberman: Hubert Damisch, l’art au travail (2016).
Teoria, arte, lavoro. Sono questi i concetti chiave di un pensiero quanto mai stratificato e complesso. Sono queste tre chiavi di accesso a uno dei pensatori più straordinari degli ultimi decenni e non soltanto per quanti si occupano di arti e di immagini.
Di Damisch si continuerà, senza alcun dubbio, ancora molto a discutere. Grazie ai suoi libri – che restano e che resta importante ripubblicare o tradurre, anche in italiano – sarà possibile continuare a indagare il rapporto complesso che intercorre tra storia e teoria al di là di ogni opposizione disciplinare. Per riprendere una celebre frase di Gilles Deleuze, che di Damisch è stato un interlocutore e un amico, «i grandi autori di cinema sono come i grandi pittori o i grandi musicisti: son loro che parlano meglio di quel che fanno. Ma, parlando, diventano altro, diventano filosofi o teorici, anche Hawks che non voleva teoria, anche Godard che finge di disprezzarle» (G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 308).
È dunque cercando di rendere conto di questa circolarità del pensiero che si esprime in opere a carattere diverso, secondo forme e modalità espressive diverse – linguistiche, pittoriche, cinematografiche, architettoniche… – che continueremo a incontrare Damisch. Precisamente nell’idea di una teoria in arte.