Gerusalemme, la necessità di una rottura

La dichiarazione con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele è stata accolta dal rifiuto di tutta la comunità internazionale.

Le motivazioni, specialmente in Europa, hanno a che fare con il processo di pace, la preservazione di un delicato status quo e la salvaguardia della “soluzione a due Stati”. La condanna internazionale nasce dalla volontà di proteggere questi punti, apparentemente fondamentali per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, messi in pericolo dalla decisione di Trump.

Alcune voci, come quella dell’accademica Noura Erakat o addirittura del capo-negoziatore palestinese Sa‘eb Erekat, hanno reagito alludendo alla necessità di superare il concetto di soluzione a due Stati, fondamento del processo iniziato con gli accordi di Oslo del 1993. Da un certo punto di vista, il presidente americano ha riconosciuto la realtà, quella dove un governo – quello israeliano – è sovrano non solo su tutta Gerusalemme, ma su tutta la Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo. La sua dichiarazione ha esplicitato una posizione che Washington mantiene da sempre, ovvero di sostanziale schiacciamento sulle posizioni israeliane. Tale posizione compromette la possibilità che gli Stati Uniti fungano da intermediario super partes nel contesto di negoziati bilaterali.

Come ha specificato Noura Erekat, la dichiarazione ha rivelato ciò che è già realtà da decenni, ovvero la sostanziale impraticabilità della soluzione a due Stati e del processo di pace concepito dagli accordi di Oslo. Sarebbe giunto quindi il momento di superare questa impostazione, rimettere sul tavolo nuove idee di soluzione, in primis quella di uno Stato unico, dove l’etnia non pregiudichi i diritti dei cittadini.

Tuttavia, punti di vista come questo rimangono marginali, anche e soprattutto all’interno del frammentato movimento nazionale palestinese. La dichiarazione su Gerusalemme evidenzia infatti una contraddizione che raramente viene considerata. Se la soluzione a due Stati ha favorito l’espansione coloniale israeliana e allontanato una qualsiasi forma di sovranità palestinese, allo stesso tempo, l’establishment politico palestinese, dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ad Hamas, non è in grado di mettere in discussione questa impostazione, anche solo a livello teorico.

Facendo un passo ulteriore nel ragionamento, è il concetto di Stato palestinese come obiettivo finale e unica forma di autodeterminazione a impedire un effettivo superamento dell’idea dei due Stati. Sarebbe infatti tramite l’adozione dell’orizzonte politico dello Stato unico, tramite l’articolazione di una proposta di soluzione a lungo termine basata su questa idea, che il movimento nazionale potrebbe porsi sulla posizione più radicale. Un tale salto squarcerebbe un altro velo, quello dell’effettiva esistenza di un regime di apartheid sui territori della Palestina storica. È la “temporaneità” dello status quo emerso dopo gli accordi di Oslo che ha funzionato da schermo contro il riconoscimento del regime discriminatorio.

Inoltre, l’adozione dello Stato unico permetterebbe di teorizzare un diverso tipo di superamento del principio dell’omogeneità etnica, principio fondante di Israele. Contemporaneamente, tale superamento non pregiudicherebbe la possibilità, da parte del gruppo etnico a oggi dominante, di continuare a esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione e gli altri diritti fondamentali.

I dirigenti dell’ANP dipendono economicamente e politicamente dalla realtà creata da Oslo e dal processo di pace. In un circolo vizioso, il processo di pace ha nel mantenimento dello status quo il suo vero scopo, una temporaneità senza risoluzione che consente l’espansione coloniale israeliana da un lato, e la continua egemonia dell’élite dell’ANP dall’altro. Anche Hamas ha sviluppato una dipendenza dallo status quo, specialmente dopo la sua trasformazione in forza di governo a Gaza nel 2007. Lo stato di assedio imposto da Israele ha rappresentato l’appiglio fondamentale per una forza politica senza più strategia. Quando l’assedio si è fatto “politicamente” insostenibile, è arrivato il riconoscimento ufficiale dello status-quo, che ha sancito una pratica già ben avviata, fatta di realpolitik, negoziati e tregue col nemico.

Ma non è il solo calcolo politico a impedire un vero dibattito nazionale sullo “Stato unico” e il superamento dello status quo, anche solo a livello teorico. Come ricordato prima, l’apparente inscindibilità del binomio “Stato-sovranità” ha un ruolo importante in questa condizione. Questo binomio è parte dell’eredità lasciata dalla storia del movimento nazionale palestinese.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) emerse come movimento di liberazione nazionale in una fase storica in cui liberazione e decolonizzazione si realizzavano attraverso la riacquisizione dello Stato e l’espulsione delle forze di invasione coloniale. Sebbene la colonizzazione, nella sua forma “di insediamento” nel caso israeliano, sia una realtà quanto mai presente, vale la pena interrogarsi su quali siano le formule più efficaci, più radicali per confrontarla. In questo contesto, il movimento nazionale palestinese dovrebbe guardare proprio alla storia della sua ascesa. Le fazioni palestinesi presero il controllo dell’OLP e lo proiettarono a livello globale quando proposero un discorso e una pratica politica rivoluzionari.

L’idea di autonomia politica palestinese e la lotta armata come strumento di mobilitazione ruppero i presupposti dominanti all’interno del movimento nazionale, ad esempio l’idea che la liberazione sarebbe stata conseguenza del successo del nazionalismo arabo. Oggi, il movimento nazionale avrebbe bisogno di nuove proposte capaci di provocare una simile rottura, di rappresentare “l’utopia” attorno alla quale mobilitarsi.

Fino al 1967, l’idea dell’autonomia politica palestinese era minoritaria, guardata con sospetto da gran parte dello stesso movimento nazionale palestinese. Le fazioni riuscirono a popolarizzare questa idea, dando vita anche a un dibattito sulla forma del futuro Stato palestinese. Le idee di Stato unico, democratico, e di Stato bi-nazionale erano al centro di tale dibattito e obiettivo a lungo termine della lotta di liberazione. Il movimento nazionale necessiterebbe di una leadership in grado di rompere l’egemonia della soluzione a due Stati all’interno del campo palestinese, così da spostarsi nella teoria e nella prassi, sulla vera contraddizione fondamentale: quella tra Stato di apartheid e Stato egualitario.

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