Quando i corpi ricordano, Didier Fassin

Nel Duemila il Sudafrica è diventato la nazione con il più alto numero di malati di Aids al mondo. In Quando i corpi ricordano Didier Fassin ricostruisce una crisi che, nel contesto del post-apartheid, ha scosso il rapporto fra sapere e potere e indaga come la memoria delle sofferenze collettive fa rivivere negli eventi del presente le tragedie del passato, con una riflessione che va al di là del caso sudafricano. Il volume, tradotto da Lorenzo Alunni, è pubblicato da Argo nella collana “Biblioteca di antropologia medica”, diretta da Tullio Seppilli. L’estratto che segue è la storia di Puleng, una delle numerose biografie individuali che Didier Fassin ripercorre.

È nell’aprile del 2002 che ho incontrato Puleng per la prima volta. Abitava nella township di Alexandra, che è ancora oggi, nel cuore di Johannesburg, la più vecchia testimonianza di cosa è stata la segregazione razziale, ben prima della sua istituzionalizzazione legale da parte del regime di apartheid. Puleng viveva in uno sotterraneo ricavato sotto una baracca di legno e lamiera. Vi si accedeva attraverso viottoli stretti che s’insinuavano fra le case e l’intreccio di fili per stendere i panni. Scendendo qualche scalino, si penetrava in una nicchia di tre metri quadrati che fungeva da cucina e che si apriva su una camera. In questo ambiente, dove non filtrava alcuna luce dall’esterno e il cui arredamento principale consisteva in un grande letto condiviso con la figlia, si trovava ormai confinata Puleng, senza più la forza di uscire. Quel giorno, nel riceverci, aveva comunque voluto alzarsi per qualche istante per far bollire dell’acqua e preparare del tè. Qualche tempo prima, aveva saputo dalla giovane volontaria di un’associazione caritativa, che le faceva visita più volte a settimana per darle un po’ di conforto, che c’erano dei ricercatori stranieri che stavano facendo delle ricerche sull’Aids in quel quartiere, e lei le aveva espresso il desiderio di parlare con loro della sua malattia – e della sua vita.

Puleng aveva ventinove anni. Doveva pesare qualcosa come trentacinque chili. Il suo corpo scheletrico, le cui forme appuntite s’indovinavano sotto la camicia da notte, era rovinato, sulle parti lasciate scoperte, dalle lesioni cutanee caratteristiche di quel contagio, comune a tanti malati africani. Il suo viso, dai tratti che dovevano essere stati fini e regolari, era pieno di edemi che le gonfiavano le palpebre e che le chiudevano gli occhi, come si vede nei bambini che soffrono di kwashiorkor. Era stesa, e per parlare con noi si teneva la testa fra le mani. Appena ci siamo seduti di fronte a lei, senza aspettare che le facessimo delle domande, ha cominciato a parlare con una voce debole, resa quasi inudibile dalle rumorose vibrazioni della musica che stavano ascoltando i proprietari di casa, sopra di noi.

Mi chiamo Puleng. Sono nata nell’ospedale di Baragwanath nel 1973. Sono cresciuta a Soweto fino all’età di sette anni. Poi sono venuta ad Alex in questa casa dove ci troviamo ora, ed è qui che ho sempre vissuto. Quando ero piccola, mio padre ci ha lasciati e mia madre ci ha dovuti allevare da sola. Faceva del suo meglio, ma beveva troppo. Quando beveva alcol, ci ritrovavamo a dormire per strada. Ho una sorella, è nata nel 1976. Avevo anche un fratello, era nato nel 1978, era il mio migliore amico. È morto quando aveva venti anni, gli ha sparato la polizia per una storia di furto d’auto.

E poi c’è stata questa malattia. Me ne hanno parlato per la prima volta nel 1998. Eppure non ho mai bevuto, non ho mai fumato, non ho mai avuto tempo di andare negli hotel o nei casinò. In tutta la mia vita ho avuto solo quattro fidanzati. Il primo è stato quando ero ancora a scuola, e poi lui mi ha lasciata. Il secondo, sono stata io a lasciarlo. Il terzo era sposato, e quindi non potevo restare con lui. E l’ultimo è il padre di mia figlia. Abbiamo vissuto insieme dieci anni. Mi trattava bene. Ma mi ha tradita. Un giorno ho scoperto che aveva avuto un’altra donna e che questa era morta. Gli ho detto: “Ma come hai potuto farmi questo? Mi stai uccidendo, con questa malattia”. Quando gli ho parlato del mio test, all’inizio non voleva credermi. E poi mi ha mentito, mi ha detto che anche lui aveva fatto un test, ma l’ho chiesto al dottore che ci curava entrambi e mi ha detto che non era vero. Ora non voglio altri fidanzati. Viviamo felici qui, io e mia figlia. Ora lei ha dodici anni, va a scuola, e io voglio che diventi qualcuno.

Vedete? È questa, la mia vita. Una vita di miseria. Abbiamo sofferto così tanto… Eppure avevo talento. Quando ero bambina mi piaceva scrivere storie. La prima volta è stato dopo aver letto un libro su Florence Nightingale. Mi piaceva anche scrivere poesie. Ho persino avuto una borsa per andare a studiare all’estero, ma a casa mia c’è stato un incendio e tutti i documenti si sono bruciati, e allora non sono partita. Volevo diventare dottoressa, perché è bello curare le persone. Ero veramente dotata… Ora, la mia vita sta sprofondando. Ma sono molto forte, molto molto forte. E vivrò finché Dio non deciderà la mia morte. Mi piacerebbe fare ancora tante cose, prima di morire. Ho detto alla mia famiglia che, per il giorno del mio funerale, non voglio che offrano il banchetto. La gente si comporta come se fosse a una festa, vengono soprattutto per mangiare, e costa tanti soldi. E, visto che sarò morta, a che serve? S’indebiteranno ancora di più e basta. No, voglio che mi seppelliscano e basta… Ma non è che penso tutto il tempo alla morte. E ringrazio Dio di avermi concesso di vivere in questo mondo.

Puleng è rimasta in silenzio. Nella penombra a stento bucata dal pallido fascio luminoso di una lampadina, riposa la testa sul cuscino. Questa storia della sua vita ce l’ha raccontata d’un sol fiato. Non l’abbiamo interrotta. Più tardi le faremo delle domande, le chiederemo di dirci con più precisione alcuni elementi della sua biografia, cercheremo di capire cosa significa vivere con una malattia escludente e incurabile. In seguito, ci racconterà le circostanze in cui suo fratello è rimasto ucciso, ci parlerà delle reazioni di rifiuto dei suoi vicini, esprimerà le sue critiche verso le politiche sanitarie del governo, ci assicurerà anche, con un sorriso triste, che un tempo era «molto carina». Per il momento, c’è solo questo silenzio, riempito dai rumori che venivano da fuori.

Mi sono chiesto a lungo come mai Puleng sentisse una tale urgenza di raccontarci la sua esistenza, perché volesse confidarsi così con ricercatori che non conosceva, fidandosi solo di quello che su di noi le aveva detto la volontaria, e infine perché desse al suo discorso questa forma così densa, lapidaria, definitiva, come se lo custodisse dentro di sé e aspettasse solo di consegnarlo. Mi sono chiesto a lungo anche cosa avrei dovuto fare di quella testimonianza, raccolta alla soglia della morte, mi sono chiesto quali potessero essere i termini dello scambio nel quale ricevevo questo dono ultimo e tragico, mi sono chiesto cosa significasse questa traccia che mi dava di una vita che sapeva essere condannata.

Tre mesi più tardi, Puleng si è spenta. Non aveva mai ricevuto un trattamento antiretrovirale, a quel tempo disponibile solo nei circuiti privati dei farmaci, e le cui tariffe proibitive li rendevano inaccessibili agli ambienti popolari. Le avevano da poco assegnato un sussidio statale per la sua malattia, ma i ritardi amministrativi del suo ottenimento avevano fatto sì che il primo versamento arrivasse giusto in tempo per pagare le spese del funerale. Aveva lasciato per noi il piccolo quaderno scolastico che le avevamo portato dopo che ci aveva confidato il desiderio di riprendere a scrivere, cosa che le dava molto piacere. Aveva avuto tempo per riempire solo due pagine, dove ripeteva praticamente lo stesso discorso che ci aveva già fatto, e che terminavano così: «È tutto quello che della mia vita posso condividere con voi».

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