I modelli produttivi, il lavoro, la distribuzione, i conflitti. Una riflessione a partire dall’ultimo numero della rivista Meridiana, intitolato “Agricolture e cibo”.

Negli ultimi trent’anni, l’agricoltura italiana è stata attraversata da processi di trasformazione, anche diversi e contrastanti, tensioni e conflitti, latenti o espliciti. Guardando alcuni dati: il numero di aziende agricole si è drasticamente ridotto (erano più di 3 milioni nel 1982, meno di un milione e mezzo nel 2014) e le dimensioni aziendali medie sono aumentate; il numero di occupati in agricoltura è ormai stabilmente sotto il milione di unità, mentre è straniero più di un terzo dei lavoratori dipendenti; i tre quarti del cibo fresco e confezionato venduto al dettaglio passano per le catene della grande distribuzione, mentre quello che passa nei negozi tradizionali è ridotto a meno del 20% del totale. Dall’altro lato, sono progressivamente cresciute le produzioni “di qualità”: il 15% dei campi italiani è coltivato a biologico e i prodotti enogastronomici con denominazione protetta o controllata sono più di 800. Dal punto di vista delle politiche, accanto al (e contro il) tradizionale modello “produttivista”, basato su intensificazione e specializzazione della produzione, economie di scala, alta intensità di capitale, viene oggi promosso anche un modello “post-produttivista”, che privilegia la multifunzionalità, la diversificazione delle produzioni e delle attività dell’azienda (ad esempio, gli agriturismi), le produzioni bio e tradizionali, la salvaguardia del territorio. Secondo molti osservatori, negli ultimi anni è diventata egemonica – tra gli attori politici, tra le grandi aziende della produzione e della distribuzione, tra le organizzazioni degli agricoltori – l’idea per cui l’agricoltura italiana sia di per sé “di qualità”, fatta di “eccellenze”, con una forte connotazione identitaria, capace per questo di competere sui mercati internazionali.
Il numero di Meridiana dedicato a “Agricolture e cibo” (n. 93 del 2018) analizza queste trasformazioni con gli strumenti delle scienze sociali, proponendo articoli su diversi sistemi agroalimentari italiani, che focalizzano di volta in volta l’attenzione sui fattori della produzione come i semi, sui produttori, sulle industrie di trasformazione, sui mercati ortofrutticoli, sulle certificazioni e la distribuzione. Le olive da tavola siciliane, il pecorino romano in Sardegna, l’ortofrutta biologica calabrese, i pomodori pelati tra la Puglia e la Campania, il Moscato d’Asti, i salumi modenesi, le insalate di “quarta gamma” prodotte in serra nella Piana del Sele: cosa accade in questi contesti? Quali sono i rapporti sociali tra gli attori di questi sistemi? Quali sono gli effetti della globalizzazione agroalimentare e delle molteplici forme di regolazione sulla produzione, distribuzione e consumo di cibo?
Da queste ricerche emergono quattro aspetti principali. In primo luogo, va sottolineato come i modelli produttivista e post-produttivista non siano in netta contrapposizione tra loro: essi convivono e si sovrappongono, spesso all’interno delle stesse produzioni. Modelli nati come alternativi nel solco dei movimenti sociali sono andati «convenzionalizzandosi» e sono stati sussunti dalle strategie di mercato di consorzi e grandi catene della distribuzione. Molte aziende hanno scoperto la convenienza, in termini competitivi, di strategie produttive improntate alla diversificazione e hanno attuato una (anche parziale) conversione, ad esempio al biologico o a produzioni “tradizionali”. Le ricerche evidenziano come le produzioni “di origine controllata” spesso non abbiano le caratteristiche usualmente associate al “prodotto tipico” (lavorazione artigianale, di piccola scala, che valorizza il piccolo produttore, che favorisce uno sviluppo locale equilibrato, attento all’ambiente e al territorio) e siano invece profondamente dipendenti dai mercati internazionali del cibo e controllate da attori esterni al territorio. Un esempio di questo tipo è la filiera del pecorino romano in Sardegna, che nel gennaio 2019 è stata al centro dell’attenzione mediatica e politica per le forti proteste dei pastori a causa del basso prezzo a cui sono costretti a vendere il latte: sebbene si tratti di un formaggio Dop – il quinto in Italia per volumi e terzo per valore dell’export – questa certificazione non diminuisce la vulnerabilità dei pastori rispetto alle aziende della trasformazione e della distribuzione, le quali conseguono i maggiori profitti, mentre una gran parte del prodotto viene utilizzata per lavorazioni industriali negli Stati Uniti. In maniera simile, a beneficiare della certificazione Dop delle olive da tavola Nocellara del Belìce, in provincia di Trapani, non sono i piccoli olivicoltori ma soggetti extra-locali, ancora una volta al livello della trasformazione e distribuzione del prodotto, e dunque scarso risulta il contributo a processi di sviluppo rurale. Persino nella filiera del Moscato d’Asti, il sistema vitivinicolo territorializzato, a marchio Docg e in zone patrimonio Unesco, è stato negli ultimi anni destabilizzato dall’ingresso di global player (come Bacardi, Campari, Russian Standard) e dalla commercializzazione sui mercati internazionali, processi che hanno ridotto il potere contrattuale dei viticoltori e indebolito le tradizionali forme di coordinamento.
In altri casi, come quello dei pomodori pelati, le ricerche mostrano come la retorica del prodotto “tipico” e “di qualità” utilizzata dal marketing e dagli attori politici non trovi riscontro nelle rappresentazioni fornite dai produttori: agricoltori e personale delle industrie conserviere ritengono che le conserve di pomodoro siano un prodotto industriale, le cui capacità di tenuta sui mercati non dipendono tanto dal suo essere “tradizionale” quanto dall’“organizzazione moderna” delle procedure industriali, dalle economie di scala, dall’adesione alle certificazioni richieste dai clienti italiani e internazionali.
La produzione biologica, a sua volta, vive un processo di “convenzionalizzazione”. Il caso dell’ortofrutta biologica calabrese mostra come i produttori agricoli siano sempre più dipendenti dalla grande distribuzione o da complesse strutture organizzative che hanno le proprie sedi in altri territori; questo causa una progressiva riduzione dei margini di guadagno per i produttori, il distanziamento dai principi etici originari, nonché l’uso di manodopera salariata in condizioni irregolari per abbassare i costi di produzione. D’altro canto, la crescita della produzione biologica ha incontrato un limite strutturale nella mancanza di un adeguato sistema di produzione di sementi bio a livello nazionale; questo ha spinto le aziende biologiche a tentare di appropriarsi delle sementi contadine, di fatto privatizzandole, a spese di coloro che le hanno gestite e riprodotte in modo autonomo nel corso del tempo, secondo il modello dell’agricoltura contadina.
Un secondo aspetto messo in evidenza dagli studi riguarda la questione del lavoro salariato nei sistemi agroalimentari. Molte ricerche – dai salumifici modenesi all’ortofrutta calabrese, dai pomodori da industria pugliesi alle insalate di quarta gamma salernitane – mostrano come le forme dell’organizzazione, segmentazione e sfruttamento del lavoro siano fondamentali per la creazione e appropriazione del valore. Questi processi non riguardano soltanto il caporalato nel Mezzogiorno, che non è dunque un’anomalia nel sistema agroalimentare italiano, ma anche contesti più ricchi e dinamici, come il distretto della lavorazione della carne in provincia di Modena, dove i processi di esternalizzazione e intermediazione coinvolgono imprese cooperative, per ottenere flessibilità e minori costi del lavoro, attraverso modalità a volte illegali. La domanda di qualità e di sostenibilità, anche delle condizioni di lavoro, da parte dei consumatori e dell’opinione pubblica, ha trovato una risposta, da parte delle catene di supermercati, in sistemi di certificazione privati, a cui aziende agricole e industrie di trasformazione sono chiamate ad aderire per poter accedere ai mercati, per lo più a proprie spese. Il più diffuso di questi sistemi di certificazione è GlobalGap, il quale contiene al proprio interno il modulo Grasp, concernente le condizioni di lavoro. La ricerca mostra come tali certificazioni non siano capaci di verificare realmente le condizioni di lavoro e servano invece a nascondere e, quindi, perpetrare forme di sfruttamento, negli anni in cui in Italia è stata smantellata la regolazione pubblica del lavoro e sono state introdotte invece molteplici forme di intermediazione e lavoro precario.
Il terzo aspetto riguarda l’importanza della grande distribuzione come soggetto in grado di orientare il sistema produttivo, determinando luoghi, standard, prezzi e caratteristiche della produzione agroalimentare. Questo potere si applica tanto a sistemi produttivi “convenzionali”, come l’ortofrutta ragusana e la quarta gamma campana, caratterizzati da una “artificializzazione” del territorio attraverso l’agricoltura in serra, quanto a sistemi produttivi associati alla qualità, come quello delle olive da tavola siciliane o dell’ortofrutta biologica calabrese. Inoltre, le catene di supermercati giocano un ruolo decisivo nella “invenzione” di prodotti “tipici”, grazie alla loro vicinanza con il cliente finale e alla possibilità di controllare l’andamento dei consumi in tempo reale. In altre parole, la GDO sembra lasciare poco spazio di contrattazione agli agricoltori e agli altri fornitori, che si tratti di commercianti “napoletani” di olive Dop siciliane o conservifici campani, produttori di quarta gamma della Piana del Sele o aziende bio calabresi, industrie della carne emiliane o case spumantiere astigiane.
Un quarto punto riguarda la necessità di rimettere al centro l’analisi del conflitto tra gli attori sociali coinvolti nei sistemi agroalimentari. Il tema è rilevante soprattutto perché talvolta le filiere italiane vengono rappresentate come prive di conflitti, con l’idea che gli attori ai vari livelli debbano – e siano capaci di – cooperare per meglio competere sui mercati. Una ricerca sociale critica mostra piuttosto attori intenti a negoziare le proprie posizioni a partire dai rispettivi interessi e da diseguali posizioni di potere nelle catene del valore. Non si tratta solo di conflitti espliciti, ma anche di negoziazioni e rappresentazioni divergenti: da un lato, recriminazioni e risentimento di agricoltori e allevatori nei confronti degli anelli superiori della catena, che spesso sono attori extra-territoriali o multinazionali, il cui ingresso nei contesti locali comporta una diminuzione della capacità di contrattazione dei produttori e talvolta un loro impoverimento; dall’altro lato, attori che si situano a livelli superiori della catena (industrie di trasformazione, caseifici, grande distribuzione) rimproverano ai produttori una scarsa attenzione alla qualità dei prodotti e l’incapacità di creare organizzazioni stabili e coese che consentano loro di coordinarsi e migliorare le capacità produttive e logistiche.
Un altro conflitto decisivo ci sembra quello che oppone differenti modelli di agricoltura: quello dell’agricoltura industriale o commerciale e quelli dell’agricoltura contadina. Esso è al centro delle dinamiche di gestione e appropriazione delle risorse produttive e riproduttive, come i semi, e delle strategie diverse, organizzative e di mercato, per far fronte alla crisi dei prezzi o alle pressioni della GDO.
In conclusione, è necessario da un lato evitare la lettura di un processo lineare e inevitabile di “modernizzazione” dell’agricoltura italiana, dall’altro lato mettere in discussione l’idea che il modello post-produttivista e la “svolta della qualità” si configurino come una soluzione scontata ai problemi di sopravvivenza delle piccole e medie aziende agricole e un modo per avviare processi di sviluppo rurale sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale. I sistemi agroalimentari italiani vanno visti invece come spazi di intersezione tra agricolture diverse, nelle quali attori, modelli produttivi e organizzativi si confrontano, si sovrappongono e in alcuni casi confliggono tra loro, a livello economico, culturale e politico. Da ciò ricaviamo almeno due indicazioni: di metodo, ossia la necessità di indagare le catene del valore a diversi livelli, ma con un’attenzione agli attori e ai territori, all’interno delle relazioni, sociali, economiche ed ecologiche; di azione, quella rivendicata ad esempio dai movimenti sociali e contadini contemporanei, per la costruzione di pratiche agroecologiche, la promozione e il rafforzamento di mercati territorializzati, la salvaguardia dei beni comuni e collettivi, la riduzione della dipendenza a monte e a valle delle catene del valore, l’incoraggiamento di alleanze trasversali alle classi sociali, il rispetto dei diritti sociali e del lavoro, l’elaborazione di politiche pubbliche per sostenere l’agricoltura contadina e su piccola scala, l’occupazione, il controllo delle risorse e dei mezzi di produzione, fra cui la terra, i servizi nelle aree rurali ed interne.