Pubblichiamo alcuni estratti del saggio di Daniela Vadacca, Dall’esclusione alla partecipazione. Donne, immigrazioni e organizzazioni sindacali (Armando Editore,2014)*.
Il volume narra i vissuti delle donne migranti al di là dei cliché che comunemente accompagnano la condizione di migrante e quella di donna: la temporaneità del progetto migratorio, la subalternità e la dipendenza dalle scelte del compagno o del coniuge, la distanza delle donne da ruoli lavorativi e produttivi di responsabilità.
Studiare le carriere sindacali delle donne migranti contribuisce a mettere in discussione la vulgata della progettualità temporanea, e tesa al rimpatrio, dei migranti, con le conseguenti politiche di natura emergenziale che caratterizzano gli interventi istituzionali. […]
Nel complesso, le organizzazioni sindacali registrano un elevato tasso di iscrizione da parte dei lavoratori immigrati.[1] I lavoratori in possesso di un regolare contratto ricorrono al sindacato per chiarimenti sulla contrattazione, sul trattamento e sulla retribuzione o per l’apertura di vertenze individuali con il datore di lavoro, come spesso avviene nel settore domestico. Per le donne immigrate, in particolare, le modalità di accesso alla vita sindacale sono disparate ma rese difficoltose dal tipo di lavoro che la maggior parte di esse svolge, caratterizzato da contratti precari e deboli legami tra i lavoratori. Nel sindacato, si sa, gli uomini sono in notevole maggioranza e, tra le donne, le immigrate sono le meno presenti. […] La questione si complica ulteriormente se alla marginalità socio-economica si aggiunge il grado di isolamento in cui si trovano molte donne immigrate. Il lavoro domestico, ad esempio, è un settore caratterizzato da isolamento affettivo e lavorativo e da instabilità contrattuale. […] Eppure al loro ruolo nel sindacato è attribuita molta importanza.
Il lavoro, le voci, il sindacato
Le donne immigrate sindacaliste intervistate nel corso della ricerca sono arrivate in Italia da giovani, ci vivono in media da venticinque anni e possiedono tutte un titolo di studio medio-alto.
Per molte donne l’avvicinamento al sindacato è stato determinato da incontri casuali. […] [Inoltre] da alcune ricerche viene messo in evidenza il fatto che gli stranieri ricorrono alle strutture sindacali per prestazioni che in realtà concernono il sistema dei servizi di assistenza: «vengono qua […] perché una persona deve trovare spazi, essere ascoltata, poter comprendere e deve trovare servizi gratuiti» (intervista 7).
Solo in un secondo momento, […] l’iscrizione e l’adesione a un sindacato rappresentano una scelta significativa che contribuisce a una ridefinizione di sé:
Poi sono entrata in una lavanderia industriale dove ho conosciuto il sindacato. Sono stata avvicinata, ho avuto la possibilità di conoscerlo e mi sono iscritta subito, mi sono interessata a conoscere un po’ quali erano i miei dei diritti e per aiutare, perché in questa lavanderia eravamo tante immigrate e allora avevamo la difficoltà di potere comunicare con delegati italiani. […] Poi capita che siamo troppo chiusi a volte, formiamo sempre il nostro gruppo chiuso, non siamo aperti, abbiamo paura, timore di chiedere, in un primo tempo anch’io ero così, chiusa, piano piano ho imparato ad aprirmi, a comunicare anche perché così io posso aiutare anche chi me lo chiede (intervista 5).
Per le donne che lavorano nel settore domestico o nelle campagne è più difficile rivolgersi al sindacato o essere raggiunte dal sindacato. […] Si rivolgono all’organizzazione sindacale per i diritti ai contributi, alle ferie, problemi molto legati al concreto. […] La scuola è un veicolo di comunicazione tra la famiglia immigrata e gli italiani nella grande città, forse nei piccoli paesi è più facile la conoscenza, la relazione e quindi anche la scelta del sindacato (intervista 8).
[…]
Se, come è stato rilevato da alcune ricerche, gli immigrati sono spesso inseriti all’interno del sindacato in settori che si occupano di immigrazione, sono rilevanti alcune esperienze in cui si assiste anche a una fase di maturazione dello stesso assetto organizzativo attraverso l’inserimento delle migranti nelle categorie lavorative sindacali. Si possono individuare tre fasi che riguardano l’approccio delle organizzazioni sindacali al fenomeno migratorio. La prima – che si potrebbe definire di tipo assistenzialistico – si caratterizza per la predisposizione di servizi rivolti ai migranti; la seconda riguarda la rappresentanza unitaria di lavoratori italiani e stranieri; la terza vede l’inserimento dei migranti all’interno delle strutture organizzative. Quest’ultima fase pone le basi per una reale partecipazione dei migranti nell’attività sindacale:
Per quasi dieci anni mi sono occupata di immigrazione. Poi cinque anni fa ho sentito il bisogno di iscrivermi, dato che ero infermiera, era più corretto, alla Funzione Pubblica.[…] L’allora responsabile me lo chiese, «che devi fare sempre all’immigrazione?» (intervista 9).
In molti casi, le donne intervistate hanno fatto riferimento a un elemento in genere trascurato: la curiosità. Essa indica il momento in cui l’individuo, anziché rassegnarsi alla quotidianità, si interroga per una presenza più consapevole nel suo contesto di vita. Essa diviene il motore dell’azione e della conoscenza.
Io ho fatto corsi di aggiornamento, per orientamento al lavoro, per una curiosità, [per la] voglia di conoscere; non avendo una famiglia con cui confrontarmi giorno per giorno, la formazione che ho fatto sia fuori che dentro il sindacato mi è servita proprio per questo, per un confronto (intervista 3).
[…]
Un percorso diverso è quello delle donne che arrivano in Italia con una coscienza politica già definita e che, in qualche modo, non sono state scoperte dal sindacato o non lo hanno incontrato per caso ma lo hanno intenzionalmente cercato.
Forse anche per il fatto che io ero dell’America Latina, sia le donne sia l’ufficio immigrazione quando mi videro arrivare mi dissero: «Ah, ma ci sono le Colombiadi, non vorresti partecipare? C’è una cosa interessante…», per cui mi trovai anche in mezzo a un’iniziativa abbastanza forte in cui fui coinvolta. Io sapevo cos’era la Cgil per i modelli di contrattazione collettiva, che sono diversi da quelli che abbiamo noi; ovunque si studia il diritto del lavoro, il modello italiano è uno che non si può non conoscere se hai una buona formazione, anche all’estero lo senti almeno nominare, per cui uno sa cosa è la Cgil, per cui io sapevo che dovevo andare a quel posto lì e cercare. Facevo già militanza mentre lavoravo al Comune (intervista 6).
In generale la ricerca ha fornito risposte positive in merito alla presenza di donne migranti – delegate, quadri medio-alti – ma scoraggianti rispetto alla loro assunzione di ruoli dirigenziali. Va anche osservato che, in quasi tutti i casi, le donne migranti che accedono a ruoli interni sindacali possiedono un elevato livello di istruzione [che comunque] non è condizione sufficiente per l’impegno sindacale. Risultano decisive altre variabili quali il contesto lavorativo, il livello di integrazione nella società, i rapporti di genere e, più in generale, i rapporti di potere.
Il lavoro presso le famiglie difficilmente si concilia con la vita sindacale tradizionale, perché in strutture più organizzate è previsto o fatto coincidere, ma quando il posto di lavoro è la casa hai poche possibilità di socializzare; possono rivolgersi agli sportelli, chiedere aiuto ma come individui, non è come al cantiere o al supermercato o in fabbrica (intervista 1).
Le donne immigrate attivano anche forme inedite di partecipazione politica, attraverso manifestazioni spontanee o reti informali rispetto a quelle tradizionali o il sostegno a campagne di sensibilizzazione. Ciò ha contribuito alla riformulazione del concetto di partecipazione politica e, dunque, di rappresentanza politica in senso più ampio, ma non è risolto il dilemma che consiste nel considerare queste forme di partecipazione come scelta o come risposta all’esclusione delle donne dalle strutture formali tradizionalmente conosciute.
Come riuscire a intercettare e a organizzare e rendere visibili quei lavoratori che più di altri sono invisibili? Un buon lavoro è stato fatto perché abbiamo dirigenti della nostra organizzazione, responsabili, segretari regionali con esperienze pregresse e formazione che portano con sé o che hanno incrociato sul luogo un’istanza che sono stati in grado di captare, di modo che quel migrante possa percorrere l’esperienza sindacale (intervista 2).
[…]
Secondo le opinioni degli intervistati è necessario interrogarsi sulle modalità di preparazione del terreno di formazione, poiché le strutture cambiano in funzione dei cambiamenti delle realtà sociali e dei soggetti.
Questo sindacato è un po’ in ritardo nel cogliere il fenomeno dell’immigrazione. Lo si evince dal fatto che negli organismi dirigenti sono pochissimi [gli immigrati] presenti. […] Il terreno perduto non è solo sul versante della rappresentanza, perché la rappresentanza se vuoi è la manifestazione successiva, ma non che sta a monte, cioè interpretare la tematica sul fronte delle politiche sindacali. […] Le prime mosse che abbiamo fatto sono state aprire una canale di elaborazione del problema e cominciare a localizzare le presenze, le realtà. (intervista 4).
Una delle cause rilevate attraverso le interviste rispetto alla difficoltà di accesso alla realtà sindacale da parte dei lavoratori è quella del cambiamento che ha riguardato il mondo del lavoro: «il lavoro è divenuto anche meno visibile, sia perché è molto più disperso rispetto ai luoghi di lavoro, tra le diverse pieghe dell’azienda flessibile, spesso di piccola e piccolissima dimensione, tra la molteplicità dei regimi di orario e dei contratti d’impiego, tra l’essere spesso ai margini dell’impresa, tra il dentro e il fuori, tra la regolarità e l’irregolarità. Sia perché, a parità di altre condizioni, è meno orientato di un tempo, specie nel caso dei servizi privati, ad aggregarsi, a presentarsi compatto»[2].
Da pochi mesi dentro la Filcams di Genova, abbiamo distaccato una lavoratrice, credo sia del Centro-America, che viene proprio dai servizi. […] Lei ha iniziato descrivendo tutta la sua storia, dalla partenza dal suo Paese fino all’arrivo in Italia, fino alla ricerca del lavoro, fino all’incontro con il sindacato, […] perché una caratteristica di questo mondo è l’isolamento. [Si tratta di] un rapporto di lavoro spesso molto individuale, non è la catena di montaggio, hai l’operaio accanto e dici «che si fa? Qui ci sfruttano. Blocchiamo tutto», ma qui son persone un po’ sparpagliate, non c’è un’identità di soggetto di rappresentanza forte […]. Quindi viene al sindacato, per fortuna in questo caso incontra un sindacato attento, un po’ più sensibile al problema e inizia quindi un rapporto di frequentazione sindacale. Poi a un certo punto qui facciamo un investimento politico sulla presenza degli stranieri nel sindacato e le viene proposto di fare un’esperienza nella struttura sindacale. Questa è una delle poche sindacaliste […] che partendo proprio dalla condizione specifica ora, oggi, prova a rappresentarla nella funzione di tutela del mondo dal quale lei proviene (intervista 4).
Note
* I passi riportati sono tratti dal capitolo III, Le donne immigrate nelle organizzazioni sindacali. A tutela della privacy si è scelto di differenziare le testimonianze attraverso il numero dell’intervista.
[1] Nel 2010 Mottura scriveva che «il tasso di sindacalizzazione della popolazione di origine straniera supera quello degli italiani (un quarto del totale dei migranti presenti, inclusi i non lavoratori, è iscritto a un sindacato e, prevalentemente, a federazioni di categoria)». Cfr. G. Mottura, Italia. La lunga marcia del sindacato. Dall’iscrizione come immigrati alla partecipazione come lavoratori, in AAVV, “La Rivista delle Politiche Sociali”, n.2, 2010, p. 175. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2013, gli immigrati complessivamente iscritti alle tre confederazioni sindacali italiane superano ormai il milione sebbene si sia registrata una diminuzione degli iscritti nel 2011 dovuta alla crisi economica che ha generato almeno tre conseguenze: l’aumento di incidenza dei disoccupati stranieri (rispetto al 2010), il calo dei contratti regolari e il timore che l’iscrizione al sindacato comporti il rischio di perdere il posto di lavoro.
[2] I. Regalia, Quale rappresentanza. Dinamiche e prospettive del sindacato in Italia, Ediesse, Roma 2009, p. 61.