Il ritorno della questione salariale

Una recensione a “Basta salari da fame!” di Marta e Simone Fana.

 

basta salari da fame recensione

 

A due anni da Non è lavoro, è sfruttamento (già recensito qui su Lavoro Culturale), Laterza pubblica Basta salari da fame! (2019, pp. XX-172). L’accostamento dei titoli è sufficiente a segnalare che i due libri sono tra loro in rapporto di stretta parentela. Non solo perché Marta Fana è autrice del primo e coautrice – con il fratello Simone – del secondo, ma anche perché comune è il tema affrontato: i modi in cui si dà lo sfruttamento della classe lavoratrice, in Italia e non solo. Se il pamphlet del 2017 era soprattutto una fenomenologia del qui e ora, il saggio del 2019 mantiene il focus sull’attualità, ma imprime alla critica dello stato delle cose la profondità della prospettiva storica. L’obiettivo è rompere la gabbia del “non ci sono alternative”, ossia rispondere con gli strumenti del materialismo storico alla naturalizzazione del presente. O meglio, di un’idea del presente, quella condensata nell’ubiqua massima (d’autore incerto) secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Una naturalizzazione che si è sentita evocare a più riprese in occasione dei trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, e che non è affatto nuova. È anzi piuttosto datata: il libro che ne rappresenta il manifesto filosofico politico, The End of History and the Last Man di Francis Fukuyama, risale al 1991), ma riprende in buona sostanza Kojève, il quale a sua volta interpretava, forse unilateralmente, Hegel. Come che sia, è poca cosa accontentarsi di constatare quanto può essere vecchia e teoricamente insostenibile l’idea di un capitalismo naturalizzato, perché è su quest’idea (non a caso strenuamente difesa dal suo cantore, a costo d’introdurre caveat e fare concessioni ai critici) che si continuano a giustificare la realtà dei rapporti di produzione e le radicali ineguaglianze che ne sono il fondamento e il prodotto.

In Basta salari da fame! si insiste (si vedano già le pp. XV-XVII dell’introduzione) sul fatto che il rapporto capitale lavoro è anche uno scontro tra retoriche. Su “anche” va messo il corsivo enfatico, perché Marta e Simone Fana sanno bene che lo scontro fra retoriche si colloca al livello degli enunciati e delle proposizioni: ma retoriche differenti sono l’espressione verbale di differenti ideologie, le quali a loro volta offrono una lettura più o meno coerente dei fatti, secondo determinate categorie e forme di pensiero. La comprensione della dialettica capitale lavoro si può perciò cogliere solo se se ne considerano congiuntamente i tre livelli: materiale, ideologico e retorico. Questa breve osservazione sulla retorica è lo spunto per mettere in evidenza un aspetto saliente del libro: mi riferisco alla sua efficacia proprio dal punto di vista tecnico-retorico. Qui occorre una precisazione. Il sostantivo “retorica” ha due significati fondamentali. Uno spregiativo, che allude a una modalità discorsiva in cui è curato soltanto l’effetto estetico (quello che con un termine latino si chiama ornatus) a discapito del contenuto. Un secondo positivo, che designa la tecnica, cioè l’insieme organizzato di saperi empirici, con cui si rende persuasivo il discorso veritiero o almeno verosimile. Quando scrivo che Basta salari da fame! è un testo retoricamente efficace, è a questo secondo significato di “retorica” che faccio riferimento.

Più sopra ho definito Non è lavoro, è sfruttamento un pamphlet e Basta salari da fame! un saggio: l’ho fatto per segnare i due estremi di un segmento, ma ciò non vuol dire che l’uno sia solo un pamphlet, e l’altro solo un saggio, sempre ammesso che un qualunque testo possa davvero appartenere a un unico genere. Ci sono parti saggistiche in Non è lavoro, è sfruttamento, così come in Basta salari da fame! ci sono parti che hanno la tonalità emotiva del pamphlet. Del saggio, Basta salari da fame! ha sicuramente la veste formale: s’apre con un’introduzione, alla quale seguono un’esposizione scandita in capitoli, delle brevi conclusioni, delle note a fondo libro, una bibliografia e un indice dei nomi. Ma il modo migliore di comprenderne gli intenti e il contenuto è leggerlo per ciò che è nella sostanza, ossia un ottimo esempio di discorso deliberativo. La specie del discorso deliberativo ha per fine l’esortare qualcuno a prendere una decisione o a compiere un’azione. Basta salari da fame! È un discorso che esorta lavoratrici e lavoratori ad assumere la battaglia salariale come uno fra gli strumenti della ricomposizione di classe.

Secondo una suddivisione già aristotelica, che è trascorsa dai manuali antichi di retorica a quelli moderni, il discorso deliberativo presenta di regola quattro parti: l’esordio, la narrazione, l’argomentazione e la perorazione. Ciascuna di esse ha una sua topica, vale a dire una serie di schemi o modelli (topoi in greco) ai quali attingere per sviluppare un argomento, o più in generale un passaggio del discorso. L’esordio deve rendere il destinatario attento e benevolo, e deve anticipare la tesi del discorso. L’introduzione di Basta salari da fame! (pp. XI-XIX) svolge entrambe queste funzioni. Se in campo ci sono due tesi contrapposte, uno degli schemi argomentativi a cui i maestri di retorica raccomandano di rifarsi per guadagnare la benevolenza del destinatario consiste nello screditare la posizione sostenuta dalla parte avversa. Ecco l’incipit del libro, che sfrutta a dovere questo schema: «Mese dopo mese, i giornali pullulano dei piagnistei di imprenditori che non trovano lavoratori disposti a farsi sfruttare. Offro un posto, tanti rispondono, ma nessuno vuole faticare davvero, titolava a fine 2018 il Corriere della Sera. “Cerco baristi e panettieri ma non li trovo” rispondeva “Repubblica” facendo eco al proprietario di una panetteria di Milano, lo stesso per cui “I voucher per noi erano perfetti, il personale era in regola e lavorava per le ore necessarie e nei momenti di maggior bisogno”, senza poter accumulare contributi, con una paga oraria di appena 7,5 euro netti.»

Quanto alla prolessi della tesi, seconda funzione dell’esordio, queste pagine introduttive chiariscono perché, quando si parla di “questione salariale”, si utilizza, che se ne sia coscienti o meno, un’espressione retoricamente impeccabile. In retorica, la questione (dal latino Quaestio) è un tema controverso, oggetto di scontro: e i salari sono, o dovrebbero essere, un terreno di scontro tra le classi. Scontro che a livello retorico si riassume in due topoi: quello padronale è divide et impera; quello della classe lavoratrice è, o dovrebbe essere, “l’unione fa la forza”. È appena il caso di precisare che tutto il discorso svolto in Basta salari da fame! Poggia su una premessa maggiore più o meno implicita: la persistenza della divisione verticale della società in (tendenzialmente due) classi. Casomai questa premessa avesse bisogno di dimostrazione, gli argomenti non farebbero difetto. All’esordio segue un breve excursus sul movimento Fight for $15 (pp. 3-7), che funge da primo esempio a dimostrazione della tesi, cioè la potenzialità ricompositiva delle vertenze salariali. Non è per accidente che un libro principalmente incentrato sulla situazione italiana prende le mosse dal caso d’un movimento partito dalle strade e dai fast food di New York: certo le dinamiche interne al capitalismo statunitense anticipano tendenze globali. Ma alla scelta dell’esempio non è probabilmente estraneo nemmeno un altro elemento, ossia che una delle autorità di questo libro è il Tronti di Operai e capitale (in cui cfr. lo scritto Marx a Detroit).

La narrazione è la parte del discorso in cui vengono esposti i fatti, per come si sono svolti, o per come si suppone che si siano svolti. In Basta salari da fame! La narrazione corrisponde alle pp. 8-68, e compendia la storia della classe operaia in Italia, dal secondo dopoguerra a oggi. È una narrazione che soddisfa le tre virtutes raccomandate dalla precettistica retorica per questa parte del discorso: brevità, chiarezza e veridicità. La periodizzazione adottata suddivide quest’arco di tempo, grossomodo tre quarti di secolo, in tre fasi.

La prima parte s’estende dal dopo guerra all’acme del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70. È una fase caratterizzata da due movimenti che si sono ora intersecati, ora posti tra loro in termini dialettici: quello del PCI dentro le istituzioni da un lato, quello della classe per sé dall’altro. L’uno è stato segnato da battaglie parlamentari non sempre vittoriose, ma spesso avanzate. Tra le vittorie, su tutte l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, di cui alla l. n. 300/1970, resa possibile dalle mobilitazioni operaie e studentesche (soprattutto, ma non solo) nel biennio precedente. E prima ancora l’introduzione del divieto d’interposizione di manodopera con la l. n. 1369/1960, ai sensi della quale il fruitore della prestazione lavorativa e il datore di lavoro non potevano non coincidere in un unico soggetto giuridico. Tra le questioni poste al tempo, e ancora in attesa d’essere risolte, il libro si concentra su quella del salario minimo, sfociata allora in un disegno di legge (Di Vittorio, Foa e Noce tra i primi firmatari) proposto alla discussione parlamentare nel 1954 e mai divenuto legge. Per altro verso, in questo stesso periodo la classe lavoratrice era in grado di confrontarsi direttamente con la controparte padronale, fuori dei luoghi della mediazione istituzionale, e non di rado in tensione con la strategia del partito. Basta salari da fame!, che ha il pregio della sintesi, giustamente non ci si sofferma, ma è il caso di notare che questa tensione era in rapporto di causalità diretta con le scelte compiute da Togliatti nel pieno della vicenda resistenziale, dalla svolta di Salerno in avanti. Claudio Pavone ne parlava già nel 1959, e avrebbe poi ripreso approfonditamente il tema dalla fine degli anni ’70, giungendo a formulare la sua nota tripartizione della lotta di Liberazione quale guerra a un tempo civile, patriottica e di classe. Con la svolta di Salerno, notava Pavone, il PCI aveva finito con il privilegiare la seconda componente a discapito della terza, spinto dalla volontà di legittimarsi agli occhi degli altri partiti del CLN: gli schemi argomentativi del comune riconoscersi nel tricolore e della necessità di un’alleanza interclassista vengono da lontano.

La seconda fase copre gli anni 1973-1984. A giustificare la definizione che gli autori ne danno, “età della sconfitta”, sono i due eventi individuati come chiave di lettura dell’intero periodo: la “marcia dei quarantamila” del 1980, e il taglio di tre punti della scala mobile, deciso dal governo Craxi e introdotto con un decreto legge del 14 febbraio 1984, che fu poi convertito in legge e resse al referendum abrogativo del giugno 1985. Sul primo dei due eventi vale la pena spendere qualche parola, perché è uno di quelli che confermano la convinzione di Marc Bloch secondo cui la storiografia deve occuparsi anche del falso. Il 12 ottobre 1980, a Torino non ci fu nessuna marcia dei quarantamila. È molto probabile che a pretendere la fine dei picchetti a Mirafiori e il rientro in fabbrica dei lavoratori non furono più di quindicimila manifestanti. A sostenere che in piazza ci fossero quarantamila tra quadri Fiat e comuni cittadini fu Luciano Lama, allora segretario della CGIL, ossia qualcuno che avrebbe avuto interesse a fornire un dato al ribasso, e che invece ne diede uno persino più alto di quello sbandierato dalla controparte, cioè dagli organizzatori della manifestazione, che parlarono di trentamila persone. Fatto sta che fu la stima di Lama a entrare nella storia, e a segnare anche nell’immaginario la sconfitta operaia.

La terza fase si protrae dal 1993 ai giorni nostri. Dall’esposizione dei fatti che hanno segnato questo quasi trentennio emerge come il diritto (specialmente il diritto del lavoro e quello tributario) abbia assecondato la ristrutturazione del capitale in atto. Da una parte il padronato ha infatti puntato ad accentuare la frammentazione della classe lavoratrice, chiedendo e ottenendo la moltiplicazione delle tipologie dei contratti di lavoro, e dunque attenuando i legami di solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, oltretutto sempre più fisicamente isolati. Pensiamo al telelavoro, processo di produzione individualizzante per eccellenza). Dall’altro una serie di riforme ha fatto sì che ciò potesse avvenire nel pieno rispetto della legalità. L’elenco è lungo e trasversale agli schieramenti parlamentari: decreto Tremonti (primo governo Berlusconi, 1994), pacchetto Treu (primo governo Prodi, 1997), decreto legislativo n. 368/2001 (secondo governo Berlusconi), legge Biagi (secondo governo Berlusconi, 2003), collegato lavoro (quarto governo Berlusconi, 2010), legge Fornero (governo Monti, 2012), jobs act (governo Renzi, 2014-2015), decreto dignità (primo governo Conte, 2018) sono solo alcune delle tappe del percorso.

Come si vede, la cronologia di cui danno conto queste pagine non è lineare: questioni come l’interposizione di manodopera o il lavoro a cottimo costringono ad aprire digressioni che risalgono fino agli albori della storia del movimento operaio, per poi tornare al presente, e prendere atto che certe conquiste, che forse si credevano definitive, definitive non sono.

L’argomentazione è la parte del discorso in cui si portano le prove a sostegno della propria tesi, e si confutano quelle addotte in favore della tesi avversaria. In retorica si distinguono prove artificiali, che dipendono dall’utilizzo della tecnica retorica (la parola latina che rendiamo con “tecnica” è ars”, di qui l’aggettivo “artificiale”), e prove inartificiali, che il retore trova già costituite al di fuori della sua tecnica. Del primo tipo sono le prove di fatto, quelle di ragionamento (secondo le varie forme del sillogismo) e gli esempi. Del secondo tipo sono le prove testimoniali, le opinioni comuni e gli argomenti d’autorità (ipse dixit). In Basta salari da fame! L’argomentazione corrisponde alle pp. 69-143. Concentrata in queste pagine si trova la maggior parte dei dati, sempre debitamente referenziati e quindi verificabili, da cui Marta e Simone Fana muovono per costruire le loro prove di ragionamento. Sono quattro i nuclei tematici affrontati, che corrispondono ad altrettante conseguenze della ristrutturazione del capitale negli ultimi tre decenni.

La struttura dell’occupazione. È sì vero che a partire dagli anni ’90 l’occupazione in Italia si è progressivamente spostata verso il terziario, ma la terziarizzazione ha interessato soprattutto settori ad alto tasso di estrazione di valore o, detta altrimenti, a basso o nullo valore aggiunto. Il turismo è il paradigma di questo fenomeno. Di nuovo, non è per caso che, oltre a Basta salari da fame!, altri libri usciti di recente affrontino il problema dalla giusta prospettiva: devono essere citati in questo senso almeno La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski e Airbnb città merce di Sarah Gainsforth.

Il rapporto tra tecnologia e modo di produzione. Esistono tre topiche al riguardo: che la tecnologia sia intrinsecamente buona, che la tecnologia sia intrinsecamente cattiva, che la tecnologia sia di per sé neutra, e buono o cattivo è l’uso che se ne fa. Tutte e tre queste topiche vanno respinte. Le prime due non sono che una variante della dicotomia tra apocalittici e integrati, traslata dal campo della cultura di massa a quello del lavoro. Ma anche la posizione mediana è problematica: formulata in termini assoluti, la proposizione “la tecnologia non è né buona né cattiva”, che vorrebbe essere la meno ideologicamente connotata delle tre, è in realtà un espediente retorico (“retorico”, s’intende, stavolta in senso spregiativo) per aggirare il problema: cioè per non aggredire la tecnologia nei suoi aspetti materiali, invece di concepirla idealisticamente. Di quale tecnologia stiamo parlando? Di che dispositivo, hardware o software o combinazione dei due? Chi lo produce? A quale scopo? Questo scopo può essere sovvertito a vantaggio di lavoratrici e lavoratori, oppure il sovvertimento è impossibile a causa delle caratteristiche del dispositivo o di altri fattori? È ponendo queste domande che il libro indaga il rapporto tra tecnologia e modo di produzione.

Salari e profitti. La dottrina dominante, quella che s’insegna in università e dall’università esce per farsi ideologia di stato (meglio: che è ideologia di stato e quindi s’insegna in università), intende i salari come una variabile dipendente dal profitto. Aumentando la quota salari, è questa la vulgata neoliberale (ma più giusto è forse dire tout court capitalista), calerebbe la quota profitti, gli imprenditori sarebbero meno disponibili a rimanere sul mercato, e diminuirebbe la domanda di lavoro. La fallacia di questa dottrina è stata dimostrata da autori insigni: tra gli italiani, Augusto Graziani, Federico Caffè e Paolo Silos Labini, i due ultimi nemmeno sospettabili di simpatie marxiste. Basta salari da fame! riprende opportunamente questo filone critico e lo mette al lavoro sui dati dell’attuale economia del Paese.

La questione del salario minimo. Anche sulla scorta del recupero di questa tradizione di studi, la parte più cospicua dell’argomentazione è dedicata al tema del salario minimo legale. Abbiamo già visto che quello salariale è un terreno di scontro materiale, ideologico e retorico. Lo stesso vale per il salario minimo. La richiesta della sua introduzione in Italia è stata avanzata, oltreché da settori della classe lavoratrice, anche da una parte del padronato. Ma una richiesta non è indifferente al soggetto che la pone. Il padronato ha interesse che un minimo salariale stabilito per legge sia il più basso possibile: opposto l’interesse di lavoratrici e lavoratori. Gli esempi discussi nel libro dimostrano che un minimo salariale al ribasso ha effetti depressivi sul salario medio, come nel caso della Germania, mentre minimi più elevati hanno un effetto di stimolo anche sulla contrattazione collettiva, come nel caso della Francia. Di qui la conclusione (che è anche la proposta politica centrale del libro) che le organizzazioni dei lavoratori dovrebbero impegnarsi per ottenere l’introduzione anche in Italia di una normativa sul salario minimo, da fissare a una somma non inferiore ai 10 € orari.

La perorazione è la parte del discorso in cui si riepilogano i termini della questione e si mobilitano gli affetti del destinatario. La topica della perorazione esige cioè che delle istanze razionale, etica e patetica siano soprattutto le ultime due a dover essere sollecitate. In Basta salari da fame! il compito della perorazione è affidato alle conclusioni (pp. 144-146). È soprattutto qui che il lessico diventa quello della chiamata all’azione. Un bell’esempio è a p. 145: «Dal Bangladesh agli Stati Uniti, dall’India all’Argentina, dall’Italia al Regno Unito le lotte di chi rivendica salario e potere continuano a scuotere il cuore delle società capitalistiche, a scombinare i piani delle classi dominanti.

No, la storia non è finita, la storia è tutta ancora da scrivere. Lo vediamo ogni giorno, davanti ai titoli di coda di un ordine globale che attorno alla fine del conflitto sociale, all’armonizzazione pacifica degli interessi, ha provato a sferrare un colpo definitivo agli orizzonti di libertà e dignità della classe lavoratrice e che oggi ritrova davanti a sé quel pezzo di società che aveva pensato finita per sempre.»

Ma l’istanza patetica è soprattutto perseguita attraverso un’altra strategia discorsiva, che punteggia l’intero testo: l’immedesimazione data dall’uso della prima persona plurale. Diversamente da quanto può ritenere chi non crede (o non crede più) all’esistenza di una coscienza di classe, quando Marta e Simone Fana scrivono “noi”, non è a loro due che si stanno riferendo, ma alla classe a cui appartengono. In questo libro, la stragrande maggioranza delle occorrenze del pronome di prima persona plurale compare in proposizioni che hanno per soggetto logico “la classe lavoratrice”. Tutto il discorso di Basta salari da fame! è dunque condotto non da una prospettiva esterna e al più solidale, ma interna e partecipe: gli autori sono parte di quella classe che esortano, esortando perciò anche sé stessi, a farsi carico della questione salariale. Anche per questo il loro discorso è retoricamente tanto efficace.

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