Una lettura di Wozu Heidegger? L’arte nella (lunga) crisi del Neolitico.
Il pensiero di Timothy Morton, filosofo inglese cinquantenne, rappresenta una delle proposte filosofiche più interessanti ed eclettiche del panorama culturale contemporaneo. In un testo da poco tradotto in italiano col titolo Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo, Morton utilizza il concetto di iper-oggetto per indicare “un’entità diffusamente distribuita nello spazio e nel tempo” (p. 11).
Un’entità che, al di là di ogni principio di individuazione, trova il proprio dispiegamento – e la comprensione che di esso si può avere – solo nelle singole manifestazioni che ne attestano l’esistenza. Non esiste il riscaldamento globale – è un esempio di Morton –, esistono piuttosto le sue manifestazioni nelle spiagge che vengono corrose dal mare o nei ghiacciai che si sciolgono. Se diversa è la concezione spaziale, anche a livello temporale un iper-oggetto viene considerato al di là di una visione classica: capovolge l’ordine delle connessioni causali lungo una linea che non si muove più dal presente al futuro ma, viceversa, pensa il presente a partire dal futuro.
Perché avviare una lettura di un testo di Vincenzo Cuomo dal titolo Wozu Heidegger? L’arte nella (lunga) crisi del neolitico con la teoria degli iperoggetti di Morton?
Almeno per tre ordini di motivi tra loro interrelati, seguendo i quali possiamo forse fornire un’immagine generale del movente teorico delle pagine del saggio di Cuomo.
Innanzitutto nelle ultime pagine di Wozu Heidegger? Cuomo utilizza le riflessioni di Morton, in particolare quelle contenute in Dark ecology e in Iperoggetti, a cui d’altronde ha dedicato una lunga e appassionata recensione, per delineare la pars construens del proprio saggio.
Il pensiero di Morton viene utilizzato da Cuomo per ricalibrare le riflessioni heideggeriane sull’arte e sulla tecnica, provando a ripensare un “al di là” della metafisica e dell’antropocentrismo che, sebbene più volte sfiorato, annunciato, preconizzato, rimane nel pensiero di Heidegger allo stato aurorale. In altre parole, sostiene Cuomo, Heidegger non sarebbe stato pienamente in grado di fronteggiare l’enorme voragine teorica che le sue stesse riflessioni avevano aperto. Nonostante l’avversione verso l’umanismo e l’antropocentrismo, Heidegger, tanto nella sua teoria dell’arte quanto nell’ambito delle riflessioni sulla tecnica, – ma in generale in tutta la sua ontologia – sarebbe rimasto pienamente metafisico e antropocentrico, perché incapace di superare la separazione tra uomo, animale e oggetti che innerva la filosofia occidentale informandola dall’interno.
Le pagine di Morton, ma anche quelle di Peter Sloterdijk sull’ominazione e sulla Lichtung heideggeriana, nelle mani di Cuomo fungono da apriscatole per decriptare e superare quella che egli, utilizzando lo stesso lessico di Morton, definisce “partizione ontologica”; ossia, quella differenza che separa, in maniera gerarchica ed escludente, l’uomo dagli altri enti, ponendolo in una posizione privilegiata. A tale scopo l’arte si rivela l’operatore concettuale privilegiato per pensare un “oltre” rispetto a tale partizione, in quanto essa costituisce da sempre il luogo in cui l’ibridazione, il mélange tra l’uomo e gli altri enti si manifesta in maniera decisa e, talvolta, immediata. Basti pensare alle sperimentazioni delle avanguardie artistiche contemporanee in cui la ‘partizione ontologica’ tra gli uomini e gli altri viventi (non solo animali, ma anche vegetali – su questo punto sembrano assai significativi non soltanto gli studi di Mancuso citati da Cuomo, ma soprattutto la produzione recente di Emanuele Coccia) e tra gli uomini e gli oggetti avviene in maniera significativa. Da sempre l’arte è il luogo della ‘mescolanza’ e del “fuori”.
Parlavamo di tre motivi. La seconda ragione, connessa naturalmente a quanto fin qui scritto, è da individuare nel fatto che il discorso di Morton si inscrive in un contesto filosofico più ampio conosciuto con il nome di “ontologia orientata all’oggetto” (O.O.O.). Con Heidegger e oltre Heidegger quest’orientamento filosofico prova a pensare l’oggetto al di là dell’imposizione – non è forse questo uno dei significati-traduzioni della parola Gestell? – dell’uomo. Si tratta di considerare gli oggetti – anche quelli d’arte – al di là della relazione gnoseologica di matrice moderna tra soggetto e oggetto, la cui logica funziona per soglie differenziali e gerarchiche. Si comprende, dunque, perché un ripensamento delle posizioni heideggeriane possa trovare nelle pagine di Morton un angolo visuale privilegiato, un taglio ermeneutico che apra ulteriori vie di indagine.
L’ultima ragione per cui abbiamo provato a penetrare nelle pagine di Cuomo attraverso le riflessioni di Morton, cioè, compiendo una sorta di montaggio che procede all’inverso, è forse quella più importante perché ci permette, da un lato, di comprendere meglio alcuni segnavia teorici del discorso sviluppato nel testo, dall’altro, perché possiamo così illustrare alcuni suoi contenuti fin qui rimasti in ombra.
Il sottotitolo di Iperoggetti è Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo. La fine del mondo, nel discorso di Morton, non è nulla di finale. La fine del mondo è già accaduta, se, come si sostiene, per mondo si intende heideggerianamente “una totalità di senso”. Anzi, così inteso, il mondo, nonostante Heidegger e la fenomenologia della Cura affrescata in Essere e tempo, non è mai effettivamente esistito. Esistono solo porzioni di mondo, quelle con cui entriamo di volta in volta in relazione. Si tratta, per la filosofia, di fare i conti con questa fine – che, però, è sempre al contempo (altro/primo) inizio.
La critica di Morton al concetto di mondo come totalità di senso consente, come dicevamo, di riavvolgere il nastro del lavoro di Cuomo e ripercorrere le tappe del suo saggio. Infatti, in maniera esplicita, il volume Wozu Heidegger? si presenta come una lettura critica de L’origine dell’opera d’arte.
Come è noto, in questo testo Heidegger, riprendendo e approfondendo la questione del mondo analizzata in Essere e tempo e in altri testi degli anni Trenta, si interroga sull’origine dell’opera d’arte a partire dalla lotta ontologica, Streit, tra terra e mondo. Se la terra rappresenta l’elementale, per utilizzare il lessico levinassiano, l’indomo, il tremendo, il mondo, invece, è il nome dell’emergenza, lo spazio attraverso cui un orizzonte di senso si schiude nella physis e dalla physis. L’arte, nel discorso heideggeriano, è uno dei modi attraverso cui un mondo si schiude. Le scarpe della contadina, il tempio greco sono le forme “simboliche” attraverso cui, emergendo dalla physis, prende forma la verità.
Eppure, rileva Cuomo, questo passaggio, questa emergenza, questa lotta avviene esclusivamente all’‘interno’ dell’ambito dell’umano. Riprendendo le pagine di Sloterdijk su Heidegger, Cuomo sottolinea come in Heidegger non venga mai preso in considerazione il processo di ominazione che ha reso l’uomo tale. Ignorando, probabilmente in maniera voluta per non cadere in una sorta di biologismo, il processo di ominazione, assegnando all’uomo una posizione privilegiata tra gli enti, Heidegger individua in una disposizione d’animo – Stimmung – di matrice ontologica ciò che permette al vivente uomo di divenire Esserci – ovvero propriamente umano.
Questo operatore ontologico in Essere e tempo è l’angoscia; poi con il trascorrere degli anni, e in particolare nel corso universitario del 1929/30 intitolato Concetti fondamentali della metafisica, Heidegger utilizzerà la nozione di noia profonda per indicare quella scissione ontologica, quel discrimine che separa il pre-umano dall’umano in quanto tale – pre-umano che, tuttavia, tranne in qualche oscillazione, in qualche piega dei trattati onto-storici degli anni Trenta come i Beiträge, rimane pur sempre nell’ambito dell’umano stesso senza mai strabordare in altre sfere del vivente.
Il secondo capitolo del volume di Cuomo è dunque interamente dedicato all’analisi critica della noia profonda. Nonostante la preminenza del carattere ontologico-esistenziale della noia, Cuomo mette in evidenza come sia stato lo stesso Heidegger a far cenno ad alcuni aspetti onto-storici a essa relativi, senza tuttavia riuscire a farsi pienamente carico di queste suggestioni presenti nel suo pensiero. Come se Heidegger si trattenesse dallo scoperchiare completamente il vaso di pandora delle proprie riflessioni: “Il discorso sulla noia profonda non riguarda la noia “in generale” ma solo una noia “determinata”, quella dell’uomo d’oggi […] se il discorso heideggeriano non è generico, né solo ontologico esistenziale, ma indirizzato a una noia del tutto determinata, cioè alla noia dell’esserci (a lui) contemporaneo, non è quest’ultima un importante sintomo della fine del mondo, nel senso della (lunga) fine del mondo neolitico?” (2020, p. 47).
Arriviamo qui a un punto cruciale. Cuomo individua nel pensiero di Heidegger i presupposti per impostare un discorso sulla questione della fine e del finire – e, per ciò stesso, del (ri)cominciare. In particolar modo Cuomo, in consonanza con le parole di Morton, colloca la nostra contemporaneità nel punto apicale e finale del mondo neolitico, in quanto spazio della catastrofe, del disastro dell’assenza di una “totalità di senso”. Heidegger nelle sue analisi sull’arte e nelle sue pagine sulla noia profonda presagì in qualche modo questo finire, ne affrescò l’orizzonte, ma, nonostante tutto, non fu in grado di tirarne le conseguenze fino in fondo, rimanendo ancorato a una visione metafisica e antropocentrica.
Questa incapacità, nell’interpretazione di Cuomo, è determinata, per alcuni versi, dal sospetto di Heidegger nei confronti delle tecno-scienze e della tecnologia in generale, in quanto nomi destinali dell’invio dell’essere. Allora solo un’operazione di détournement, che integri la visione heideggeriana sul mondo e sull’arte con le più avanzate proposte tecno-artistiche contemporanee e avanguardistiche, permetterà di superare quella rigida partizione ontologica tra l’uomo e gli altri enti, sfrattando sì l’uomo dalla casa dell’essere (“…al di là della casa dell’essere” si legge nel titolo dell’ultimo decisivo capitolo del volume) ma aprendolo così a nuovi spazi fecondi di ibridazione e, forse, di libertà.