Il caso Regeni tra disinformazione egiziana e italiana
La letteratura liberale ha spesso acriticamente identificato nella qualità dell’informazione un indice di salute democratica, e nelle restrizioni alla libertà di stampa un indice di autoritarismo. Già negli anni Venti del secolo scorso, Walter Lippman avvertiva che la forza di una democrazia stava nella trasparenza con la quale gestiva le informazioni e il consenso, mentre l’uso della propaganda era tipico di quegli stati non democratici che, disinformando e censurando, miravano a garantire artificialmente il consenso. Sulla scia di Brexit e dell’elezione di Trump, il rapporto tra politica e propaganda è tornato centrale. La maggior parte dell’attenzione dei media, tuttavia, è stata rivolta verso paesi come la Russia e la Cina, accusati di ‘autoritarismo digitale’: non è difficile percepire qui l’eco degli argomenti di Lippman.
La realtà, tuttavia, è più complicata. Come i casi di Brexit e Trump dimostrano, le democrazie sono vulnerabili alla disinformazione e alle fake news tanto quanto i regimi non democratici: la manipolazione di informazioni è diventata una tecnica di competizione politica e di governo tollerata, anche in democrazia. In secondo luogo, a rendere possibile la propaganda non è più l’esistenza di ‘barriere all’informazione’ o di censura, come credeva Lippman, bensì proprio l’accesso ai media: il capitalismo delle piattaforme digitali ha di fatto moltiplicato le chance di fake news, non il contrario. In terzo luogo, la lista di paesi che utilizzano la disinformazione è lunga e ne include molti che le democrazie occidentali non demonizzano, ma che considerano alleati. Infine, e questo è forse il punto cruciale, in molti casi non è più chiaro dove finisca la propaganda autoritaria e inizi quella democratica.
Ad una lettura non superficiale, il caso di Giulio Regeni, dottorando italiano dell’Università di Cambridge torturato e ucciso al Cairo nel 2016 dagli apparati di sicurezza egiziani, offre un esempio calzante di queste dinamiche. L’Egitto, alleato ‘ineludibile’ del governo italiano, è infatti uno dei paesi al mondo dove la propaganda di regime è più forte. La manipolazione di informazioni e le menzogne sono state fondamentali nella tragica vicenda di Regeni, come lo sono per le migliaia di prigionieri politici in carcere, tra cui Patrick Zaki. La propaganda egiziana si regge su faraoniche iniziative mediatiche, volte a celebrare il glorioso passato e la contemporanea forza maschia del regime, e su una capillare rete di mezzi capaci di confezionare una varietà di prodotti mediatici – dalle serie TV ai documentari.
Il documentario ‘The Story of Regeni’ – uscito a fine aprile, a ridosso dell’inizio del processo ai quattro agenti della National Security egiziana accusati di aver ucciso Regeni, e pubblicizzato su YouTube e i principali social media in tre lingue – si inserisce in questo contesto. Il documentario riprende una serie di teorie cospirative e di disinformazioni che non solo l’Egitto, ma l’Italia stessa hanno contribuito a creare. È proprio in questo documentario che evapora allora qualsiasi pretesa di superiorità democratica: parti dello Stato italiano e il regime di al Sisi non hanno in comune solo interessi economici o un’agenda politica, ma addirittura un immaginario mediatico-politico sempre più indistinguibile.
Le serie TV, la propaganda, e il ‘documentario’ su Regeni
Se c’è qualcosa a cui il mondo arabo non può rinunciare durante il mese sacro di Ramadan sono le serie TV. L’Egitto in questo contesto non fa eccezione e se oggi il suo dialetto è compreso e parlato in tutto il mondo arabofono è grazie proprio a questi prodotti televisivi. I loro personaggi, con la diffusione dei social network, sono diventati i principali soggetti della satira, anche politica, nel paese. Non a caso, il nomignolo Balah (in arabo: dattero), riservato al Generale al Sisi, viene proprio da un personaggio di una serie degli anni Ottanta famoso per le sue bugie. Approfittando della loro popolarità, da due anni durante il mese di Ramadan il regime egiziano manda in onda serie TV che, senza alcuna remora, danno voce alla sua propaganda securitaria.
‘La scelta’ (al-ikhtiyār), così è intitolata una delle più popolari serie TV, affronta temi caldi per l’Egitto: dalla lotta al terrorismo di stampo islamista, alla propaganda contro lo spauracchio della Fratellanza Musulmana e la minaccia che essa rappresenterebbe per la stabilità del paese. Realizzata da una casa produttrice vicino al regime, questa serie è volta a lodare l’importanza delle forze di sicurezza per il mantenimento dell’ordine nel paese. Si tratta di una vera e propria narrazione orwelliana, in stile ‘1984’, dove ‘chi controlla il passato controlla il futuro’. L’obiettivo del regime è manipolare gli avvenimenti della storia recente del paese, come fatto anche con la trasformazione architettonica di Piazza Tahrir, teatro della rivoluzione del 2011, in modo da rafforzare una propaganda tutta volta a nascondere la natura brutale del potere costituito.
Se la prima stagione de ‘La scelta’ si era concentrata sulla figura di Mansi al Ustura (Mansi la Leggenda), un militare egiziano morto durante i combattimenti contro il terrorismo nel Sinai, la seconda è un vero e proprio tentativo di riscrivere, secondo la narrativa del regime, gli avvenimenti recenti che hanno investito il paese. L’intreccio su cui si poggia la seconda stagione si basa sui fatti avvenuti nell’agosto del 2013 durante gli scontri tra sostenitori della Fratellanza Musulmana e le forze di sicurezza, passati alla cronaca come ‘il massacro di Rabaa al-Adawiya’, dal nome della piazza dove la Fratellanza aveva inscenato un sit-in di protesta contro il colpo di stato che aveva portato al potere al Sisi. Lo scopo della seconda stagione è quello di far passare questa protesta per uno scontro armato tra lo stato e ‘terroristi’ che volevano trasformare il paese in una repubblica islamica. I presunti terroristi, legati alla Fratellanza, nella serie TV sono soliti discutere e organizzare le loro azioni al Revolution Café Shop, nome che fa riferimento alla rivoluzione del 2011 durante la quale i caffè di Wust al Balad (centro del Cairo, nei pressi di Piazza Tahrir) erano diventati luogo di ritrovo e dibattito degli attivisti politici. Non si tratta solo di screditare il già delegittimato il movimento islamista agli occhi dell’opinione pubblica, ma di mettere in cattiva luce quello straordinario movimento popolare che ha animato le strade del paese nel 2011. Una serie, dunque, dall’alto valore simbolico e che ha un obiettivo ben preciso: affermare che le forze di sicurezza sono i ‘buoni’ e la Fratellanza Musulmana, e chiunque si opponga al regime, i ‘cattivi’.
Nell’infamante video ‘The Story of Regeni’ il regime ha avanzato una simile narrazione, accusando il ricercatore italiano di appoggiare, dall’esterno, la Fratellanza Musulmana e di voler finanziare gli ambulanti per ribaltare il regime egiziano. Il video, inizialmente anonimo, sembra esser stato prodotto da TEN TV, una televisione egiziana vicina, come la maggior parte dei media del paese, al regime. In circa 50 minuti, con un mix di complottismo e propaganda filo-governativa, il filmato racconta le attività di ricerca di Regeni al Cairo, accusandolo di far parte dei servizi segreti di un paese straniero. Tali tesi sono rinforzate da interviste a persone centrali rispetto ai fatti che hanno portato all’uccisione di Regeni, come il capo del sindacato degli ambulanti Mohamed Abdallah che denunciò Regeni alla Sicurezza Nazionale, e da interventi di esponenti politici, militari e giornalisti anche italiani, come il Senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri già Ministro delle Telecomunicazioni, Elisabetta Trenta già Ministra della Difesa, Leonardo Tricarico già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e consigliere militare del governo di Massimo D’Alema, e il giornalista Fulvio Grimaldi.
Se il filmato su Regeni rappresenta il punto forse più basso della propaganda egiziana, gli articoli pubblicati dalla stampa italiana sulla serie TV ‘La scelta’, elogiata per successo e contenuti, dimostrano la longa manus del regime di al Sisi nel nostro paese, soprattutto in termini di propaganda digitale. Dopotutto, ci sono pagine Facebook in italiano chiaramente vicine al regime che pubblicano video in cui comuni cittadini italiani elogiano Mansi la Leggenda, protagonista de ‘La scelta’ e, con saluti militari, salutano il Generale al Sisi, recitando il motto ‘al-Sisi ra’isi’ (al Sisi è il mio presidente). La potente rete di disinformazione che di fatto gestisce sia il consenso che la sicurezza nazionale in Egitto, dunque, è arrivata anche sui nostri schermi.
Il ruolo dell’Italia
La propaganda egiziana, tuttavia, non è la sola ad agire. Esiste infatti anche in Italia una narrazione sul caso Regeni che, in contrasto con i risultati delle indagini, non solo ripropone temi simili alla propaganda di al Sisi, facendole da cassa di risonanza, ma promuove anche ‘scoop originali’, che si rivelano poi senza fondamenta.
Giulio Regeni è stato additato, o quantomeno sospettato, di essere una spia da diversi organi di stampa, considerati più o meno prestigiosi, e da esponenti politici italiani. Queste ricostruzioni hanno spesso confuso, talvolta deliberatamente e talvolta per mera ignoranza, l’attività di ricerca con quella di spionaggio. Ad esempio, il fatto che prima dell’inizio del suo dottorato Regeni avesse collaborato con Oxford Analytica, un’agenzia di consulenza e analisi britannica, è stato presentato sia come prova della sua appartenenza a non ben precisati servizi segreti che come movente della sua morte. Oltre a trovare ampia eco nella stampa, queste narrazioni hanno colpito soprattutto l’immaginazione degli utenti dei social media, giocando senz’altro sull’avversione diffusa in Italia nei confronti della ‘perfida Albione’ sospettata di voler ridimensionare il ruolo italiano nel Mediterraneo e mettere in crisi i rapporti tra Italia ed Egitto per beneficiarne geopoliticamente ed economicamente. Questa narrazione ha generato una cottage industry di video amatoriali, che vantano in alcuni casi centinaia di migliaia di visualizzazioni, intenti a spiegare i presunti intrighi e complotti dietro alla morte del ricercatore. Lo stesso Fulvio Grimaldi, noto giornalista e ex inviato di guerra per la RAI, ha dato voce a numerose teorie cospirative sulla vicenda Regeni, diventando uno degli esponenti di punta di questo negazionismo.
Il secondo leitmotiv propagandistico diffuso in Italia ha interessato le presunte responsabilità e appartenenze della supervisor, chiamata erroneamente tutor, di Regeni, la professoressa Maha Abdel Rahman dell’Università di Cambridge. A dimostrare che l’Egitto non è la sola fabbrica di bugie, l’illazione che vorrebbe Abdel Rahman membra della Fratellanza Musulmana è originata non dalla stampa egiziana di regime, bensì da quella italiana. Dopo una prima apparizione su Il Sussidiario nell’agosto del 2017, la fake news venne smentita ma comunque riproposta da Vanity Fair nel novembre del 2017. Da qui la notizia arrivò in Egitto, dove venne presentata come ‘rivelazione’ da giornali quali Youm7 e Egypt Today e assurta a prova insindacabile dell’appartenenza di Abdel Rahman all’organizzazione invisa al regime. Una simile fake news era stata peraltro pubblicata da Il Giornale nei confronti di un’altra professoressa con la quale Regeni collaborava, Anne Alexander. Proprio nel riprendere questa falsa notizia, e sulla scorta delle informazioni e illazioni fornite dalla stampa italiana, giornali egiziani come Masr11 potevano gettare ulteriore fumo negli occhi confondendo, in una maniera che è difficile immaginare ingenua, Maha Abdel Rahman con Maha Azzam, un’accademica esperta, lei sì, di movimenti islamisti e vicina a partiti di opposizione ad al Sisi.
Questa propaganda ha fatto breccia anche in parte della comunità accademica italiana, non solo sono tra gli esponenti di governo. A conclusione delle indagini preliminari, nonostante gli inquirenti avessero svolto dettagliati accertamenti sia su Abdel Rahman che Alexander senza trovare alcuna responsabilità di rilievo, nel dicembre del 2020 alcune tra le più importanti testate nazionali riproponevano illazioni sulle presunte responsabilità della supervisor, generando la sollevazione di molti accademici italiani. Non pochi dissero allora di credere che nel percorso di formazione di Regeni e nel suo metodo di ricerca ci fosse qualcosa di losco, e che Cambridge fosse una scuola per agenti dei servizi segreti britannici. Il sospetto era spesso accompagnato da un malcelato risentimento verso quella che in molti considerano un’istituzione educativa di altissimo livello, Cambridge. La cosa non deve stupire: l’accademia italiana è da anni sottofinanziata e tratteggiata nel discorso pubblico come un’associazione a delinquere, tutta dedita a clientelismo e immoralità, in contrasto con le istituzioni all’estero dove, si dice, tutto funzioni benissimo e secondo logiche meritocratiche ferree. Ora anche Cambridge, finalmente, ha la sua colpa indelebile. Ma se la non-sopportazione per una certa rappresentazione dell’università italiana, accompagnata da politiche di austerity, è tutt’altro che colpevole, lascia disorientati invece la mancanza di empatia e di fondamento con cui voci importanti dell’accademia italiana si sono scagliate contro un ricercatore come Regeni, dipingendolo come una spia, e contro una collega come Abdel Rahman, ricorrendo anche a commenti sessisti e razzisti. A dispetto di qualsiasi forma di pensiero critico, parte della comunità accademica italiana ha semplicemente assunto come vera la propaganda dei media italiani e del regime di al Sisi che spesso, come abbiamo visto, coincidono.
A chi giova la propaganda?
Negli ultimi cinque anni il regime egiziano ha stretto la società civile in una morsa ferrea, facendo precipitare il paese nella peggiore crisi di diritti umani della sua storia moderna. Al Sisi ha trovato nell’Italia non solo un alleato economico e strategico formidabile – grazie al quale ha raggiunto un’autosufficienza energetica e un profilo militare che hanno superato anche le più rosee aspettative del regime egiziano – ma anche una sponda importante per le sue campagne di disinformazione. Il video ‘The Story of Regeni’ ne è la perfetta dimostrazione. Media e politici italiani si sono dimostrati disposti a farsi portavoce della propaganda egiziana, quando non ideatori di teorie cospirative sul caso Regeni che hanno fatto il gioco del regime, sposandone l’interesse a distrarre l’opinione pubblica dalla ricerca dei veri mandanti dell’omicidio.
Il documentario ripropone la vecchia tesi che l’assassinio di Regeni sarebbe stato opera di un complotto – variabilmente a guida della Gran Bretagna e dei Fratelli Musulmani – per mettere in cattiva luce al Sisi con l’Italia. Ciò che il video dimostra, invece, è la collusione tra il regime egiziano e pezzi importanti dello stato italiano che, in nome di un imprecisato ‘interesse nazionale’ che in realtà si traduce in interessi di settori particolari del capitalismo italiano, trattano Regeni come un corpo sacrificato a logiche più grandi – un corpo che, sebbene compianto e commemorato, non merita né giustizia né verità.
Infine, se l’informazione e la libertà accademica sono certamente in pericolo in Egitto, queste lo sono anche in Italia. In entrambi i paesi infatti sta prevalendo l’idea secondo cui la ricerca, quando scomoda o ‘invasiva’, è pericolosa e non andrebbe fatta. Non sono pochi gli accademici italiani che ritengono irresponsabile una ricerca scomoda per i potenti e che, nella fattispecie, credono che Regeni ‘se la sia andata a cercare’. Se Regeni è stato ucciso mentre conduceva una ricerca partecipata in Egitto, ricordiamoci che anche in Italia studentesse e colleghi sono finiti sotto processo per le loro ricerche partecipate su movimenti scomodi, come il movimento NoTav e il NoTap. Una ricerca ammansita, che non faccia domande scomode, allora, può far comodo solo in paesi nei quali la disinformazione e la propaganda si sostituiscono all’informazione e al pensiero critico. Allarma rilevare come l’Egitto e l’Italia, da questo punto di vista, non siano poi più così diversi.