One Child Nation e le immagini della memoria

La politica del figlio unico in Cina nel documentario “One Child Nation” (2019)

One Child Nation
One Child Nation (2019) di Nanfu Wang e Jialing Zhang

Se ne è parlato poco. La forza di questo documentario la percepiamo fin da subito, forse perché è una denuncia straziante della devastazione causata dalla politica di controllo delle nascite cinese. Durata dal 1979 al 2015, questa linea politica appare, in questo potente documentario, come un esperimento crudele e tragico di intervento da parte del governo centrale, un colossale abuso intimo della famiglia da parte dello Stato i cui effetti collaterali devono ancora essere presi in considerazione. Ma come è possibile che dal gennaio 2019, anno di uscita del lavoro, siano state così poche le voci sulla maniacale ingerenza dello Stato regolatore cinese?

Senza scomodare i patti del Memorandum di Intesa tra Italia e Cina sulla cosiddetta “Via della seta” firmati nel marzo del 2019 (è possibile stabilire una correlazione, vista la vicinanza temporale, tra la scarsa “sponsorizzazione” del documentario e questi accordi?), questo pare ancor più difficile da comprendere.

Nella società della “cultura visuale” le immagini e i video riescono a scuotere la coscienza del fruitore, spesso riportando alla luce storie troppo spesso dimenticate. Anche perché ogni immagine è legata al concetto di metafora; alla superficie del primo impatto visivo si contrappone sempre un “mondo interno” che è ciò che più profondamente l’immagine comunica. Il documentario si avvicina a queste istanze e se seguiamo le riflessioni di Walter Benjamin, è attraverso il montaggio che le immagini disperse e frammentarie (la Storia si frantuma in immagini, non in storie) vengono inserite all’interno di una narrazione che fornisce un senso compiuto alla Storia e alle “storie”. Tutto ciò però non si può dire riguardo questo prodotto vista la poca attenzione che ha suscitato nel nostro Paese. Non si possono trascurare, tuttavia, le potenzialità di questo documentario. Infatti i cineasti Zhang Lynn e Nanfu Wang ci immergono fin da subito nelle coordinate storiche della vicenda che raccontano. Come a voler avvertire lo spettatore: questa storia è storia contemporanea.

Al di là della massima crociana si vuole narrare un racconto intimo, molto vicino, spesso dimenticato e del quale in Occidente si sono spese poche parole. Appunto, l’oblio. E con esso la memoria che deve combatterlo. Storia e memoria si intrecciano nella narrazione e i due cineasti lo sanno bene. “Se questi ricordi svaniscono, rimarrà solo la propaganda” è il monito finale di questo lavoro. Caro spettatore insomma questi sono gli effetti che una politica ossessiva e crudele può generare. Attento a non dimenticare, perché è possibile che una cosa comparsa nella storia del mondo possa anche ripetersi. 

Oltre a curare il film, Wang è la narratrice che ci introduce nella storia. Nata nel 1985, Wang ora vive a New York, ma la nascita di suo figlio l’ha riportata emozionalmente in Cina nella sua città natale. Dal presente al passato Wang indaga una storia della quale lei stessa – e soprattutto la sua famiglia – è parte. “Diventando madre”, dice con un’espressione non forzata, “mi è sembrato di dare alla luce i miei ricordi”. Mentre setaccia il suo passato e riavvolge il nastro, Wang parla dei suoi genitori, incluso il padre che è morto giovane, e spiega il significato del suo nome. Nan significa “uomo”, dice, e Fu significa “pilastro”. “Speravano in un ragazzo”, dice, ricordando una serie di fotografie d’infanzia. “Quando sono nata mi hanno chiamato Nanfu comunque”, continua, “sperando che sarei cresciuta forte come un uomo”.

Cosa meglio di un’operazione culturale del genere – che assegna un nome a un figlio nella speranza che questo sia maschio – può farci intendere cosa sia stata la politica del figlio unico in Cina e quanto la società ne fosse imbevuta? La voce di Wang lo conferma non amplificando alcuna emozione, è una voce normalizzatrice intrisa di un certo candore che ci fa affezionare alla sua figura con il procedere della storia. Da qui la narrazione coinvolge numerosi altri personaggi della sua città natale che hanno rappresentato un ruolo decisivo negli anni della politica del figlio unico e Wang – intervistandoli – fa riaffiorare tematiche e scelte che si pongono al di là del bene e del male. La sensazione è la perdita dell’individualità. Il messaggio è l’incapacità di avere dei confini morali netti e definiti. Le scelte sono sottoposte alla volontà del Partito.

La storia scavata dai cineasti è complessa e le storie personali sono spesso brutali. Per amministrare la politica del figlio unico, la Cina istituisce una task force nazionale che include lavoratori per la pianificazione familiare e si basa su propaganda, sorveglianza e molto peggio. Le famiglie che non collaborano sono distrutte e le loro proprietà vengono sequestrate. In una incessante litania di “non potevamo fare diversamente” e “dovevamo solo obbedire” la parata dei personaggi sfila tra tentativi di redenzione e un’ostinata fedeltà alla volontà della nazione.

E così passiamo dalla storia della levatrice locale che ammette di aver effettuato tra le 50.000 e 60.000 sterilizzazioni e aborti forzati, aggiungendo: “Molti li ho indotti vivi e uccisi” – e che adesso si occupa di chi ha problemi di fertilità nel tentativo di espiare le sue colpe – fino alla figura della funzionaria pianificatrice che ancora nel presente conserva ed esibisce con orgoglio i premi che il governo le ha riservato per le sue azioni. Si tratta di una “guerra demografica” voluta dal governo direttamente sulla pelle dei cittadini cinesi.

Man mano che la narrazione prosegue – tra il dialogo di Wang con i suoi familiari e le interviste dei personaggi del suo villaggio – giungiamo a comprendere una incontrovertibile e inquietante verità: la maggioranza dei cinesi si trova d’accordo con la politica del figlio unico. Questo particolare lo intendiamo dalla capacità dei registi di dimostrare che sia la famiglia della cineasta che gli altri personaggi rispondono a uno sbiadito senso di normalità – alcune frasi forti vengono pronunciate con una naturalezza disarmante – come se le loro singolarità fossero state annullate dalla propaganda del regime.

La madre di Wang le dice che “quando ero in procinto di dare alla luce tuo fratello”, la nonna ha detto: “Se si tratta di un’altra ragazza, la metteremo nel cestino e la lasceremo per strada”. Le famiglie hanno trovato il proprio modo di gestire la politica, incluso l’abbandono delle bambine nella speranza che il bambino successivo fosse un maschio.  È orribile, vorresti poter dire! Ma Wang e Zhang ti controllano e non ti fanno volgere lo sguardo. La loro indignazione per quella politica cuoce a fuoco lento, esiste ma non è eclatante, è palpabile fino a un certo punto.

One Child Nation
One Child Nation (2019) di Nanfu Wang e Jialing Zhang

La loro rabbia per questa passività coltivata – “questo senso condiviso di impotenza”, come dice Wang – è severa e molto commovente. Nonostante ciò, i cineasti si rifiutano di demonizzare coloro che intervistano, ponendo gli occhi su un obiettivo più ampio. Queste conversazioni, a loro volta, si aprono in una più ampia e complessa esplorazione della politica e della politica del governo che diventa sempre più inquietante ad ogni rivelazione. L’introduzione della figura dell’artista dissidente Pen Wang è uno schiaffo a ogni sorta di reticenza. Vengono mostrate le fotografie dei feti lasciati nelle discariche che l’artista fotografa e utilizza nelle sue opere di denuncia del sistema e del Partito.

Mentre scorrono quelle immagini così crudeli, così vigliaccamente reali, apprendiamo che anche la famiglia di Wang ha praticato l’abbandono di un bebè. In una costruzione narrativa che fa sembrare l’atto così spontaneo – a dimostrare che la prassi “culturale” è così solida da essere la normalità – la madre della protagonista Zaodi (che significa “fai venire presto un fratello”) racconta di aver abbandonato la figlia di suo fratello al mercato e che questa è morta lì qualche giorno dopo. Alcuni dei più commoventi e difficili intrecci del documentario seguono anche le vittime secondarie della politica del figlio unico. È in questo momento che la storia passa da una dimensione locale a una globale.

Nel 1992 la Cina permette le adozioni internazionali. La corruzione inizia a dilagare. Scopriamo che i cosiddetti “trafficanti di esseri umani”, che vendono bambine a orfanotrofi, guadagnano con ampi profitti. E ancora che i funzionari del villaggio – dopo che la Cina ha legalizzato l’adozione internazionale – rapiscono i bambini per venderli agli orfanatrofi in una catena circolare che si alimenta da sola. Poi i cineasti descrivono una coppia nello Utah, Brian e Longlan Stuy, che hanno adottato tre figlie dalla Cina e hanno continuato a dedicarsi ad aiutare le famiglie cinesi a determinare dove si trovano i loro figli rapiti e le famiglie americane a rintracciare il vero lignaggio dei loro figli. Ma si scopre che molti genitori americani non vogliono sapere. Ma chi può biasimarli? Forse potresti, caro spettatore, ma la prospettiva lontana e improbabile di perdere i figli e le figlie che hanno cresciuto per loro è spaventosa.

Wang e Zhang tessono un ampio ambito e affrontano un soggetto enorme, ma One Child Nation è semplice, diretto, e mai sensazionalistico nel suo approccio. I due co-registi mantengono il focus sul furto dell’autonomia – specialmente di quella delle donne, del loro corpo e delle loro vite – che ha portato un’intera generazione a sentirsi inerme. Il loro film è un tentativo di intervenire nella narrativa fatalistica della propaganda, uno sforzo che si avverte urgente ora che la Cina ha rimpiazzato tutta la pubblicità, i manifesti e le canzoni che promuovevano la politica del figlio unico con la nuova politica dei due figli, intesa a correggere la drastica riduzione della forza lavoro causata dalla precedente. I dettagli cambiano, ma il proposito rimane lo stesso: di inibire il diritto delle donne di scegliere e il diritto di una nazione di ricordare. Ma il filo conduttore rimane quello della memoria.

L’artista dissidente Pen Weng a un certo punto dice che la cosa peggiore che può accadere a una nazione è perdere la memoria. La maggior parte degli intervistati invece ricordando quella politica dichiarano solamente che “era molto severa”. Se è vero che la memoria è la parte centrale dell’identità individuale – e questo può essere applicabile a una nazione – allora i due cineasti vogliono che la politica del figlio unico in Cina non sia ricordata solo per la sua “severità” – in una dinamica auto-assolutoria tra vittime e “carnefici” – ma nelle sue infinite e tragiche applicazioni. Se ciò non avviene allora “rimarrà solo la propaganda”.

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