Stare al proprio posto – “Anime nere” di Francesco Munzi

Terzo lavoro di Francesco Munzi, Anime nere è stato uno dei tre film italiani in concorso alla 71ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Storia di una famiglia di ’ndrangheta radicata ad Africo (RC), in parte trasferitasi a Milano e con propaggini commerciali che passano per l’Olanda e arrivano sino in Sudamerica, il film – tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) – racconta una Calabria fuori dal mondo e contemporaneamente al suo centro.

Non c’è colonna sonora in Anime nere. Le uniche musiche presenti nel film sono la tarantella suonata e cantata durante il pranzo di famiglia – o meglio di famiglie – ad Africo vecchia, e quella che risuona nel locale semivuoto in provincia di Lecco, dentro il quale una ragazza balla la lap dance. La stessa musica (o comunque molto simile) che Luigi, il fratello più giovane e più rispettato, accende in macchina un attimo prima di essere colpito da un proiettile alla testa, durante un agguato.

Muore così Luigi, l’uomo di Milano, di Amsterdam, l’uomo che tratta con i sudamericani partite di cocaina che fanno il giro d’Europa: in modo grottesco, incarnando per l’ultima volta la composizione perfetta del contrasto tra vecchio e nuovo, tra famiglia e business, Milano e Africo, la tarantella e la lap dance, lo spagnolo e il dialetto, le rotte della droga e il vicino di casa che chiede un piccolo favore. Munzi racconta questo aspetto paradossale ma assolutamente normale nella ’ndrangheta, che recita le litanie alla Madonna di Polsi al piano di sopra e ordisce la vendetta a quello di sotto, che ha tra le sue fila l’esuberante Luigi e il calcolatore gentiluomo Rocco. E proprio loro, gli stessi ’ndranghetisti narrati da Munzi, quelli che l’immaginario mediatico e le sentenze della magistratura dipingono come i criminali più potenti di questa epoca, sembrano non avere nessuna delle caratteristiche tradizionalmente associate alla figura del mafioso di provenienza rurale. Sono legati al paese e alla famiglia ma sono uomini d’affari. Il contrasto è una costante di tutto il film, senza dare l’impressione che si calchi la mano: il giovane pastore e la cocaina, la Mercedes utilizzata per andare a rubare due pecore, la polvere del santo sciolta in un bicchiere insieme agli psicofarmaci.

Della criminalità calabrese si coglie, attraverso questo film, l’aspetto più ancestrale insieme a quello meno spettacolarmente moderno: la ’ndrangheta è vecchia e nuova, fa i soldi in tutto il mondo e scanna gli animali a mani nude, compra escort e combina matrimoni, è Africo vecchia e Africo nuova. E ciò in un certo senso la sottrae al dominio del tempo, la rende eterna – sta in questo la tragedia. Intorno a lei si muovono le cose del mondo. Accanto a lei si muove la Calabria, fatta di case arredatissime e non intonacate, la Calabria che ne conosce il linguaggio e ci convive. E si muove il resto del Paese, che la ‘ndrangheta la disprezza e la usa, che se ne prende i soldi ma ad Africo non ci vuole andare. Come la moglie di Rocco, la “milanese” che vive nel lusso del denaro riciclato ma chiama i suoi cognati «i pregiudicati» e dice al marito «Io mi sento diversa, non sono come voi».

Quando andai ad Africo (ad Africo ci si deve voler andare; non ci si passa, e neppure ci si va per caso), proprio qualche giorno dopo l’assassinio di Maria Strangio nella vicina san Luca, uno degli omicidi che porteranno alla strage di Duisburg, una cosa mi colpì della sua chiesa (quella nuova, dove nel film viene celebrato il funerale di Luigi): il fatto che sul pulpito campeggiasse il disegno di una croce formata da vari tasselli, di cui uno però era spostato all’esterno, risultando quindi mancante. Sotto, la scritta: «Sono al mio posto?». Mi colpì, di questo messaggio forse genuinamente cristiano, volto a valorizzare il valore del singolo come membro di una comunità più ampia, il fatto che solo in seconda istanza lo avessi percepito in questo senso. Il primo senso che gli diedi, istintivamente, fu quello di un monito a stare al proprio posto, a non affacciarsi troppo in là: «Fatti i cazzi toi». Sono decine i proverbi calabresi che esaltano il valore di cu è orbu, surdu e taci. E mi sembrò lampante. Io ero ad Africo, ci ero andata per curiosare, perché scrivevo una tesi sulla ’ndrangheta, non ero certo un’eroina ma di sicuro non ero al mio posto. Quel messaggio, che mi parve così ambiguo proprio in una chiesa di Africo, parlava in quel modo a me perché io per prima conoscevo forse meglio quel codice, ci ero cresciuta e ci convivevo, che quello cristiano: c’è un posto per tutti, c’è un saper stare al mondo, portare rispetto a chi lo merita e sapersi comportare.

Anime nere è la storia di chi sa stare al proprio posto e chi no, anche se questo non basta ad aver salva la vita. Ma forse sarebbe bastato a Leo, il nipote, giovane sanguigno e stupido che rivendica l’onore della famiglia (tutto comincia perché lui non riesce a sopportare l’accusa di «quaquaraquà» rivoltagli da un altro boss locale) che esagera, non si controlla, e innesca un meccanismo distruttivo. Sa stare al proprio posto Luigi, ma si lascia trascinare dalla spavalderia del nipote, dal richiamo dei codici di rispetto e onore, e muore. Sa stare al proprio posto Rocco, e lo dimostra egregiamente nella scena in cui calma il nipote inferocito che voleva rifiutare i fiori consegnati dai killer sulla bara del fratello («Cosa dobbiamo dire?» «Che lo ringrazio»). E ciò sarebbe bastato, a Rocco, se non fosse intervenuto il più esterno dei fratelli alle logiche mafiose: Luciano, che decisamente non sa stare al proprio posto, non sa accettare il continuo perpetuarsi della catena di faide, e mette fine in modo tragico alla vicenda, in quello che è l’unico vero elemento inverosimile nel film: in una terra in cui non esistono pentiti, perché il vincolo familiare è troppo stretto per spingere anche chi non ne condivide i metodi a collaborare con la giustizia, non potrebbe mai esistere un epilogo del genere. Ma ben venga l’inverosimiglianza, a ricordare che questo non è e non vuole essere un film di denuncia, e meno che mai di denuncia della ’ndrangheta. C’è il folklore ma non è folkloristico. Semmai, Anime nere è un film politico, perché articola, senza optare per la dritta via moralistica, un campo di tensioni sociali e storiche nel quale, sembra superfluo dirlo, non esistono le opposizioni tra bene e male, tra buoni e cattivi, ma confini labili.

Certo, altra cosa sarebbe condurre un’analisi del fenomeno che indaghi sul “perché” oltre che sul “che”, e scavare nel solco la tra la rappresentazione della mafia, in particolare di quella calabrese, e la sua autorappresentazione e le motivazioni che le hanno sostenute. Ma ad Anime nere resta comunque il merito di essere un film che mancava. Mancava alla narrazione della ‘ndrangheta, e della Calabria in generale, mancava un’attenzione né celebrativa né vittimistica verso una terra protagonista ma sconosciuta, troppo spesso relegata al non detto o, peggio, al detto a metà.

[Segnaliamo, per chi volesse approfondire la questione, il post di Daniela Brogi su Le parole e le cose e quello di Platano Sorrentino su Libernazione]

Print Friendly, PDF & Email
Close