Dialogo del Centro TraMe con John Foot.
(Articolo pubblicato on-line sul sito di “AlfaBeta2” il 15 marzo).

John Foot ha dedicato e dedica tuttora le sue ricerche al nostro paese e alla sua storia recente nei suoi vari aspetti: dallo sport (Calcio 1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia) alla storia delle città italiane (Milano dopo il miracolo. Biografia di una città) fino all’analisi delle vicende politiche. Nel 2009 ha pubblicato il libro Fratture d’Italia, in cui racconta le “memorie divise” sviluppatesi attorno agli eventi più importanti della storia del paese – dalla Prima Guerra mondiale fino agli anni di piombo – a partire dall’analisi di varie pratiche di memoria (targhe, monumenti, anniversari e commemorazioni).
[Nei mesi scorsi su “AlfaBeta2” Slavoj Žižek e Alexander Stille hanno parlato dell’“anomalia Italia”. E su questa espressione è ritornato qualche settimana dopo Donald Sassoon sul “Sole24Ore”. Lei stesso apre il suo Modern Italy (2003) citando Peter Lange: “Che cosa rende l’Italia un caso di difficile classificazione?”. Tutto sommato gli inglesi a volte discutono ancora su quale nome usare per designare la loro nazione e per decenni hanno fatto i conti con l’IRA; gli spagnoli elaborano ancora il doloroso passato franchista, cercano di gestire forti spinte secessionistiche interne e qualche settimana fa hanno ricordato i trent’anni dall’ultimo tentato golpe militare; il Belgio sta attraversando una profondissima crisi politica che ne minaccia la stessa esistenza. E infine la riunificazione della Germania non sembra essere andata di pari passo con quella dei tedeschi.]
Allora, a 150 anni dall’unità, in che senso l’Italia rimane tra le nazioni europee l’anomalia di “difficile classificazione”?
In molti sensi, anche se naturalmente è sempre necessario vedere l’Italia in una prospettiva comparativa. Sono peculiarità italiane: la deficitaria legittimità dello Stato e delle istituzioni pubbliche (una sorta di permanente crisi di legittimazione, per citare Habermas), la tendenza al trasformismo politico, alcune questioni antropologiche legate al comportamento politico, la battaglia in corso tra la classe giudiziaria e quella politica, l’uso pubblico della storia, il potere degli intellettuali, il ruolo del clientelismo e del patronage, la crisi dello stato-nazione, il potere del crimine organizzato, il ruolo della società civile e della famiglia. Tutti questi elementi non sono esclusivi dell’Italia ma, messi insieme, rendono l’Italia “difficile da classificare”.
E poi abbiamo problematiche collegate alla storia, al passato e alla memoria (che sono il risultato di questi fenomeni, ma producono anche alcuni di essi). L’Italia è sempre stata un miscuglio di tutto questo, di tratti nord-europei e sud-europei legati alla politica e all’economia: l’Italia è mediterranea ma anche fortemente influenzata, nel Nord, da Austria e Svizzera. Tutte le culture e i regimi che hanno governato il territorio italiano hanno lasciato tracce. L’Italia stessa (negli ultimi 150 anni) è stata, in molti modi, solo una piccola parte di questa storia. Più importante di tutto, nel lungo termine, è il ruolo centrale della Chiesa Cattolica, in termini politici, economici e sociali. Un elemento che è stato messo in discussione solo per un breve periodo tra il 1848 e il 1929. Per citare Giovanni Levi, grazie al potere della Chiesa nei secoli “fu posto fondamento […] a un diverso tipo di rapporto antropologico con il potere. Due forme di autorità erano costantemente in lotta per la supremazia e nessuna chiara separazione di compiti o gerarchie fu stabilita. Sfere di azione e competenze furono confuse e sovrapposte l’una sull’altra e regole e principi furono spesso contraddittori. La relazione antropologica con il potere fu segnata da istituzioni deboli e da una cultura della clemenza, dell’assoluzione e dell’incertezza legale”.
Lei parla, rielaborando un concetto di Giovanni Contini, di “memorie divise”. Cosa intende con questa espressione e come questo concetto si applica a vari momenti della storia d’Italia?
Nel mio libro guardo a diversi tipi di memoria, pubblica (monumenti, anniversari, memorie ufficiali, commemorazioni) e privata. Quest’ultima può essere raccolta nella storia orale, nei diari, nei silenzi e così via. L’idea di una memoria divisa, per dirla molto semplicemente, significa che ci sono divisioni relative alla forma e al contenuto della memoria. Su ciò che occorre commemorare e ricordare (e dimenticare) – su versioni di eventi, e sui fatti stessi – e su come commemorare questi eventi. Queste divisioni possono essere sottili (da differenti tipi di lutto, alla commemorazione dei morti, ai tentativi di tenere la memoria viva attraverso lo sfruttamento politico del passato), ma in alcuni casi sono state anche estremamente violente – come nel periodo 1918-1922 (con scontri radicali sul significato e la memoria della Prima Guerra mondiale), dopo il 1945 con profonde divisioni relative alla Seconda Guerra mondiale, la Resistenza, l’occupazione nazista e poi con le memorie della violenza politica degli anni Settanta e Ottanta. Come ho sostenuto nel mio libro, “si è rivelato estremamente difficile, se non impossibile, per qualunque sistema pubblico o privato creare consenso intorno al passato, o intorno ai modi di ricordare quel passato. Diversi gruppi – regionali, etnici o politici – hanno chiesto che le loro memorie fossero riconosciute. Eventi singoli, così come la storia in sé, sono stati interpretati in una sconcertante varietà di modi. Raramente lo Stato e altre entità pubbliche hanno istituito pratiche commemorative durature e comunemente accettate. Non c’è stata nessuna conclusione, nessuna ‘verità’, poca riconciliazione”.
Nel mio lavoro ho cercato di mettere insieme molti degli studi compiuti tra gli anni Ottanta e Novanta: da una parte delineo una teoria generale sulla memoria divisa, e dall’altra esprimo un approccio critico a questi studi, con una particolare attenzione alla memoria pubblica. Molte di queste divisioni sono state tenute a bada per un lungo periodo, almeno fino agli anni Ottanta se consideriamo gli studi sui massacri nazisti. Fu solo negli anni Ottanta e Novanta che gli storici cominciarono a prendere seriamente in considerazione le memorie divise e a dedicare la loro attenzione a storie e versioni del passato che erano scomode e difficili da capire. Per un lungo periodo le memorie divise furono ignorate, solitamente per ragioni politiche.
In un passaggio di Fratture d’Italia lei sostiene che “spesso dietro gli attacchi terroristici degli anni Sessanta e Settanta si celava un desiderio di vendetta” relativo a ciò che era accaduto tra il 1943 e il 1945. Si potrebbe affermare che il terrorismo di quegli anni fu anche il ritorno di un rimosso, quello dell’eredità fascista e della guerra civile? Si può cioè leggere il terrorismo di quegli anni anche come una patologia della memoria?
Penso che la memoria fu molto importante in quegli anni e giocò un ruolo nella natura violenta degli anni Sessanta e Settanta: la paura di un ritorno al fascismo, livelli molto alti di anti-comunismo, l’uso delle armi e dell’assassinio politico. Nulla era veramente passato. Era tutto molto vicino, e alcune persone di quegli anni erano ancora in circolazione. La memoria fu anche molto importante per la resa dei conti nel 1945-46, quando coloro che furono attaccati e uccisi furono spesso scelti specificamente per il ruolo che avevano avuto tra il 1919 e il 1926. La violenza nella storia d’Italia è stata raramente casuale, essa è stata sempre condizionata in maniera specifica e collegata alla politica, alla memoria e al passato. E la violenza ha prodotto violenza, portando a fratture radicali nei racconti del passato. In assenza di un’autorità (il sistema giudiziario, lo stato, gli storici) capace di fornire una versione del passato condivisa da una maggioranza di italiani, queste divisioni sono continuate per lunghi periodi di tempo. E sono state e tuttora sono anche un potente strumento politico.
Le reazioni seguite all’esito del processo sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia e le commemorazioni del 2010 per i 30 anni delle stragi bolognesi hanno messo in evidenza quanto la stagione terroristica continui a dividere gli italiani. Alcuni propongono una “soluzione sudafricana” che faccia piena luce su quegli anni permettendo l’apertura degli archivi e le confessioni dei responsabili delle stragi. Cosa ne pensa?
Credo che sarebbe una buona soluzione, ma molto difficile in Italia perché entrambe le parti tendono a rimanere legate alla propria ‘verità’, così che qualsiasi tribunale di questo tipo sarebbe soltanto un luogo in cui le due parti ripeterebbero semplicemente la loro propria versione del passato (come accaduto con le Commissioni Parlamentari di inchiesta). Una delle caratteristiche del “caso italiano”, come dico nel mio libro, sta nel compromesso sulla memoria divisa creato attraverso una accettazione della divisione, e non attraverso un compromesso sulla verità o attraverso l’accettazione da entrambe le parti di una versione del passato. Cos’è la verità in Italia? Ci sono molte verità, come Tim Parks ha detto recentemente, “la risposta italiana normale a qualsiasi denuncia di circostanze o opinioni che danno fastidio agli italiani è semplicemente il negarne la realtà. Se hai potere, censuri la denuncia o, meglio ancora, la elimini; se non hai potere, la ignori e cerchi di assicurarti che tutti gli altri facciano la stessa cosa. Molta parte di quello che sembra misterioso della politica italiana agli stranieri può essere spiegato, almeno in parte, attraverso questo elemento” [1].
In questo contesto tuttavia anche le altre nazioni giocano un ruolo importante e spesso incomprensibile per il cittadino comune. La Francia ha per anni protetto i terroristi rossi seguendo e a volte distorcendo la “dottrina Mitterrand” (sconfessata solo parzialmente dopo gli attentati dell’11 settembre); il Giappone ha protetto un terrorista nero come Delfo Zorzi concedendogli addirittura la cittadinanza; ora il Brasile non permette l’estradizione di Cesare Battisti. Secondo Giorgio Napolitano “è mancato qualcosa alla nostra cultura e alla nostra politica per trasmettere, e far capire davvero, il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentosi del terrorismo”. Che ruolo gioca l’”anomalia italiana”, così come viene percepita all’estero, nell’atteggiamento delle istituzioni di queste nazioni verso il nostro paese nel momento in cui si ritorna sulle vicende di quegli anni? E il difetto di trasmissione di cui parla Napolitano è forse legato, alla sua origine, alle memorie divise che lei ha esaminato?
La memoria divisa gioca un ruolo fondamentale qui, e penso agli enormi dibattiti sulla ‘verità’ e il caso Battisti nelle settimane scorse. Il periodo del terrorismo è difficile da spiegare e il modo in cui è stato discusso da storici, giornalisti, politici e protagonisti di quei fatti è stato fortemente politicizzato e funzionale a creare separazioni. È ancora un periodo ‘aperto’ e in cui ‘due verità’ si scontrano su diversi aspetti di quel passato (verità giuridiche, verità politiche) e quindi dove le memorie sono profondamente divise.
Per riferirmi ancora al mio lavoro: “per gli storici l’Italia fornisce un ricco e complesso caleidoscopio di dibattiti sul passato: il nostro compito non è quello di individuare teorie dominanti o conclusioni che sopprimano queste visioni e narrazioni in competizione tra loro, bensì di capire, spiegare e studiare come nel tempo il passato sia stato vissuto e narrato. È questa la vera materia della storia, e senza queste esperienze, per quanto contraddittorie o scomode possano essere, il nostro lavoro non ha alcun senso”.
In Fratture d’Italia si sofferma molto anche sulle “memorie di frontiera” e in un passaggio afferma che nelle regioni nordorientali “l’attivismo politico era vissuto come una battaglia della memoria”. Un passaggio che sembra illuminare la recente polemica tra il Presidente della Repubblica e il Presidente della Provincia autonoma di Bolzano sui festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia e le recenti discussioni in occasione della giornata del ricordo delle vittime delle foibe, così vicino al giorno della memoria della Shoah. E sembra anche parlare del caso Bondi: il Ministro della Cultura, sfiduciato dall’opposizione per i crolli di Pompei, è stato salvato dai voti della SVP in cambio di precisi impegni sul restauro del monumento della Vittoria di Bolzano. Ci può spiegare meglio qual è la peculiarità di queste regioni e le modalità in cui, in questi contesti, si fa uso o abuso politico della memoria?
C’è una lunga discussione, nel mio libro, sull’importanza delle memorie ai confini dell’Italia. Lì, a Bolzano e Trieste, le memorie sono state una parte cruciale della battaglia politica, che in quelle aree ha anche a che fare con l’etnicità e l’identità nazionale (e perciò ha una dimensione aggiunta, dove nazionalità e linguaggi sono stati al tempo violentemente soppressi dal fascismo o dal comunismo). Perciò a Trieste ci sono dibattiti che durano da tempo su come ricordare le foibe, la Shoah, l’esodo e la soppressione razziale di sloveni e altri diversi gruppi. Questi dibattiti hanno giocato un ruolo chiave fondamentale nella vita politica in tutto il periodo del Dopoguerra. A Bolzano italiani e germanofoni si sono scontrati sul passato fascista, sulle origini dello Stato come anche sui diritti alla lingua e all’uso dello spazio urbano. I monumenti fascisti, messi lì da Mussolini per dividere, sono stati al centro di questi dibattiti e sono usati politicamente per rinforzare le identità e “surriscaldare” le divisioni. Gli esempi che cita sono solo gli ultimissimi di una lunga serie di discussioni tutte simili. La memoria, i monumenti e le commemorazioni a Bolzano e Trieste sono fortemente politiche per questa ragione.
Vorremo chiudere in questo senso con una riflessione sull’etica della memoria. Se è vero che la memoria è sempre costruzione e narrazione del passato a partire da uno sguardo situato e connotato dal punto di vista identitario, qual è il discrimine etico che ci permette di individuare un abuso politico della memoria?
La tendenza in molta della letteratura sulla memoria è vedere la memoria come ‘buona’ e l’oblio come ‘cattivo’. C’è molta retorica all’interno delle discussioni sulla memoria, specialmente, penso, in Italia. Spesso sono usate frasi come “abbiamo perso la nostra memoria”, “non abbiamo più memoria”, “ogni cosa è stata dimenticata” e l’implicazione è che ‘noi’ (chi?) abbiamo bisogno di ritornare alla ‘nostra memoria’ (quale?) per essere una nazione autentica o un paese moderno nel vero senso del termine.
Ho molti problemi con questo tipo di ragionamento o di strategia retorica. Certamente discutere del proprio passato è una pratica sana e segno di democrazia. Quando c’è solo una versione del passato si ha una tendenza all’eliminazione del dibattito politico e storico. D’altra parte però dimenticare è centrale per superare il trauma. La chiusura di momenti storici specifici è assolutamente necessaria. In Italia, questa chiusura si genera non attraverso l’elaborazione di una versione condivisa del passato, ma attraverso la proliferazione di memorie (giorni della memoria, doppie lapidi, commemorazioni parallele e così via). La memoria non è buona in se stessa. Ogni memoria o tipo di memoria ha bisogno di essere discussa e compresa nel suo contesto storico. I giudizi politici e morali sono una cosa diversa e non possiamo semplicemente eliminare le memorie perché non ci piacciono. Questo è un errore che la sinistra ha fatto dopo il 1945 e continua a fare tuttora.
Leggi qui l’articolo originale.
Note
[1] www.lrb.co.uk/blog/2011/01/20/tim-parks/bonfire-of-the-realities/

