“Triumphs and Laments” di William Kentridge.
Da Piranesi a Kentridge: disegnare Roma e la sua storia.
Scriveva Ludovico Quaroni: «è da questa plebe, pronta a qualsiasi umiliazione temporanea, che si è formato l’orgoglio dei patres conscripti, delle nobili famiglie della Rinascenza, degli attuali pariolini» (L. Quaroni, Immagine di Roma, Laterza, Bari 1975, p. 55). E già prima osservava: «Roma è soprattutto un’atmosfera, una luce, un clima: un’aria pesante, greve di arroganza e di accidia, limpida quanto necessario per maturare fino al dettaglio psicologico, […] romana soddisfazione dello spirito e dei sensi» (p. 1).
È davvero irrimediabilmente costretto fra questi due poli il rapporto “romano” con l’immaginazione e le arti. Da cui un altro architetto, Tafuri, derivava la constatazione, affidata alle parole del pontefice Niccolò V, secondo cui «la massa della popolazione è ignara di cose letterarie e priva di cultura […], ha bisogno tuttavia d’essere colpita da spettacoli grandiosi» (M. Tafuri, L’architettura dell’Umanesimo, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 97). Stupisce, allora, che nella Roma senza sindaco, nella Roma dei prefetti, compaia quasi anacronisticamente il fregio Triumphs and Laments, opera di William Kentridge, gigantesco graffito – senza patres conscripti e senza luce – allungato sui muraglioni del Tevere, da Ponte Sisto a Ponte Mazzini.
La committenza sociale, “associativa”, dell’opera, il suo carattere eminentemente pubblico non concordano infatti con le pratiche storiche della città, ancor meno oggi – si direbbe – che l’arte contemporanea rifluisce nel vuoto referenziale e la sua “socializzazione” diventa, anche a Roma, passatempo di ceto, intrattenimento e lucro fieristico. Fuoriuscita da qualsiasi dominio del giudizio e della storicità, essa è in linea di massima “dispositivo estetizzante”, frammento di quell'”economia del desiderio” che vende, in definitiva, dei processi percettivi, stilizzazioni e promesse emotive, irrimediabilmente di brevissima durata. Osservavano di recente due critici francesi: «Nous consommons toujours plus de beautés, mais notre vie n’est pas plus belle» (G. Lipovetsky e J. Serroy, L’esthétisation du monde. Vivre à l’âge du capitalisme artiste, Gallimard, Paris 2013).
L’intervento di Kentridge stride dunque, in prospettiva storica, tanto con la tradizionale committenza magnatizia, papalina ed affine, stratificata nelle fasi urbane, quanto con l’attuale tendenza privatistica, secondo cui l’opera si consuma, si genera e si disintegra, negli spazi dell’edonismo “culturalizzato”. Triumphs and Laments è difatti un’opera monumentale, così come l’avrebbero desiderata i papi barocchi; eppure, a differenza della monumentalità magnatizia, essa non afferma l’autorità; resta piuttosto, coscientemente, nelle soglie rigorose del documento. Triumphs and Laments è d’altra parte, e banalmente, inappropiabile, godibile esclusivamente nella sua dimensione pubblica, storica ed estranea, stavolta, ai flussi delle economie emozionali.
Crolla sui “graffiti” dei muraglioni il peso di queste specificità romane, sulle quali tuttavia l’opera esercita un controllo semplice ed immediato, sin dalla sua prassi esecutiva. Il disegno è finalmente riaffermato, nella pubblica piazza, in quanto essenza del gesto artistico, anche in forza dei suoi legami tradizionali; quello di Kentridge si sviluppa, con evidenza, dentro la linea grafica dell’illustrazione a stampa: Piranesi fu tra i primi a comprendere la necessità di “disegnare” Roma, per verificare s’essa veramente è bella, messa alla prova dei contorni puri, bianchi e neri, sottratta alla perenne menzogna sensuale della luce, cui accennava pure Quaroni.
Il disegno di Kentridge va in quella direzione e di più esso emerge, inciso, tramite una tecnica di “pulitura”; le sue figure prendono forma per rimozione, per abrasione della patina biologica, delle concrezioni organiche, dello “sporco”, in definitiva, accumulato sulle pareti dei muraglioni. Kentridge, volendo disegnare la storia di Roma sugli argini del Tevere (dalla fondazione violenta alle marce trionfali, dal desiderio, violento anch’esso nell’omicidio Pasolini o sensuale con la Dolce vita, sino alla violenza militante dell’omicidio Moro), opera esattamente come opera la storia: rimuove.
Se la memoria è l’indiscriminato deposito del residuale, la storia e la sua scrittura – anche quella artistica, storio-grafica appunto – sono l’opposto, i rivali della memoria; esse agiscono innanzitutto in forza dell’oblio, estraggono, e la rimozione è il loro strumento; setacciano la memoria, cancellandone l’ingestibile continuità; esistono in ciò che resiste alla selezione, vivono dei profili emersi tramite l’abrasione dei contorni. In tal senso il disegno di Kentridge può finalmente rinunciare all’ordine cronologico in quanto criterio narrativo, giacché è solo nelle parvenze della memoria che i fatti sembrano susseguirsi l’uno all’altro, instaurando false relazioni d’antecedenza e posteriorità ed occultando, invece, le singole insorgenze. Nella storio-grafia, all’opposto, come sentiva Benjamin, si «lotta per il passato oppresso», tramite l’effrazione metodologica dell’ordine del tempo, nella storio-grafia «si spara contro gli orologi» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino 1997, p. 49).
L’alta coscienza di quest’azione grafica ed abrasiva della storia nei confronti della memoria organizza l’intero tragitto tiberino contro il tempo; appare infatti nella sequenza delle scene una macchia nera, un pezzo di muro non abraso, uno spazio in cui evidentemente la memoria nera resiste alla rimozione profilante della storia; eppure è qui, in questo frammento d’opera, che la storia dichiara, ad un tempo, la sua fraternità con la dimenticanza, la sua rivalità con la memoria. Qui, nell’indistinta omogeneità della memoria, la rimozione grafica operata dalla storia, che pure non riesce ancora a dichiarare positivamente i suoi contenuti, perviene tuttavia a segnalarsi come non-ricordo, come mancanza percepita, come spia d’un’assenza, invito a rimuovere meglio ed ancora. Appare nella macchia nera della memoria il ricordo del non-ricordo, la percezione inesplicata di Quello che non ricordo, e la dimenticanza stessa si fa contenuto.
L’opera di Kentridge nel futuro prossimo instaurerà, in prima persona, una lotta con ciò che la coscienza non ricorda, con l’omogeneità percettiva della memoria; i suoi disegni in effetti spariranno lentamente, la storia sarà di nuovo rimossa dalle pareti uniformi dei muraglioni, gradualmente riconquistata dalla rigenerazione della patina biologica dentro la quale essa è stata incisa; la memoria annullerà di nuovo la grafia della storia.
Non credo si tratti d’una gratuita concessione all’effimero; è piuttosto un destino e la sua urgenza. Se è vero che costitutivo delle società tecniche è la riduzione delle determinazioni individuali – nostre, umane e storiche – a strumentali tipologie funzionali, pure rappresentazioni d’interessi, la “scomparsa della storia” è un aspetto centrale di questa tecnica funzionalizzante. Kentridge rappresenta allora, anche tramite la sparizione cui la sua opera va incontro, il rischio costante di quest’abolizione. La storia, a differenza di ciò che sembrano suggerire le rammemorazioni di Stato, scandite dai calendari “amministrativi”, non serve affatto a ricordare né tanto meno vige come un monito; la storia è semplicemente l’attualità d’un atto originario, una determinazione singolare che resiste nel tempo alla sua funzionalizzazione; giacché, come insegnava Pietro Barcellona, «gli individui che agiscono storicamente non sono sussumibili sotto la razionalità calcolistica» (P. Barcellona, Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della “ragione funzionalista”, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 32).