Considerazioni su Umanesimo e Digital Humanities.
Proponiamo la traduzione, a cura di Alessandro Gianetti, dell’articolo “¿Humanismo? Váyase usted a la mierda”, pubblicato sulla rivista online ctxt. Contexto y Accion.
Siamo sinceri e parliamo senza peli sulla lingua: potrà sembrare strano, ma per molti di noi la scienza è ancora un mistero; e lo stesso vale per il rigore, il senso comune o il cosiddetto “pensiero scientifico”. Consentitemi di spiegarmi, affinché questa non sembri una mia capricciosa crociata personale. Alcuni mesi fa si è reso noto che due ricercatori avrebbero individuato la data di redazione dell’Odissea di Omero. Secondo quanto si può leggere in quella notizia, tutto sarebbe dovuto a «una riga del ventesimo canto del poema [che] fa riferimento a un’eclissi totale di sole che si produsse il 16 aprile dell’anno 1178 a.C, il giorno in cui Ulisse fece ritorno a casa». Ripeto: «Il giorno in cui Ulisse fece ritorno a casa». Mi cadono le braccia…
Com’è possibile equiparare l’oggettività di una data storica al significato di un’epopea della quale non sappiamo neppure se fu scritta da Omero? Anzi, per essere esatti, non sappiamo nemmeno se Omero non sia un prodotto della mitologia stessa. Cose da pazzi! Ma si dà il caso che alcuni giorni fa mi sia imbattuto in un programma televisivo nel quale la stilista Vivienne Westwood alzava la sua voce, come il canto di un cigno, per affermare che i musei sono “luoghi propizi per l’arte”. E non finisce qui… Alcuni mesi fa ho letto che a uccidere Cleopatra non sarebbe stato un aspide, che avrebbe causato una morte lenta e dolorosa: «Inoltre i serpenti sono troppo grandi per rimanere nascosti in una cesta di fichi e poi successivamente scomparire, il suo morso non risulterebbe efficace». Più che scienza, ha tutta l’aria di essere fantascienza, o forse siamo semplicemente rincretiniti a forza di certezze. Sarebbe come criticare le commedie slapstick per la veracità di un buon ceffone dato a mano aperta; cioè, come diventare improvvisamente erasmiani senza sapere chi fosse Erasmo. Il problema non è il senso critico, ma l’imbecillità: Il sogno della ragione produce mostri. Grazie, signor capitano.
Cos’è mai stato, il cinema di Peter Greenaway, il postmodernismo, quel felice e acido libertinaggio del maggio del 68, le primavere arabi, le nuove democrazie o il tenebroso terrorismo che accarezza l’attualità a dislocare completamente il significato dinamico di “mitologia”? È più probabile che ciò che chiamiamo convenzionalmente modernità sia una svenevole fallacia che nasce da una pessima amministrazione di diversi sistemi d’informazione, comunicazione e trasmissione della cultura.
Ma non c’è due senza tre (stiamo in verità parlando di dozzine). Il caso che mi ha più impressionato è una notizia che ignoravo, e che, grazie alla meravigliosa giungla di contatti offerta dalle reti sociali, è apparsa dopo aver vagato per tre anni nella rete. L’articolo raccoglieva una conferenza sull’umanesimo digitale tenuta nel MediaLab Prado da Juan Luis Suárez, professore dell’Università canadese del Western Ontario. Inaugurava l’intervento sostenendo “provocatoriamente” che «l’unica forma di umanesimo che sopravvivrà nel XXI secolo sarà quello digitale, per diverse ragioni tecnologiche che hanno a che vedere con i mezzi di comunicazione, i processi sociali e le abilità concrete che saranno utilizzate». Non critico il professore in questione, perché il suo intervento fu lodevole, i suoi sforzi spesi in una moltitudine d’iniziative interessanti che egli stesso sta portando in una serie di progetti che oserei definire “esemplari” per molte università del mondo. Riguardano l’alfabetizzazione digitale, la necessità di adeguarsi ai tempi che corrono e l’urgenza d’incorporare alla nostra struttura linguistica una finestra che riesca a dilatare il nostro punto di vista sulla vita (parlo da un punto di vista culturale). Ha anche affermato, il professor Suárez, che «l’umanista ha sempre sviluppato e insegnato pratiche adeguate a comprendere la cultura»: fin qui ci troviamo d’accordo. Ma cosa succede con sistemi informatici complessi? Davvero sarà imprescindibile padroneggiare il linguaggio JAVA per potersi considerare un umanista? Questo senza parlare della programmazione in sé e per sé, che il professor Suárez considera componente importante perché investe l’autonomia etica: smorfia di scetticismo.
In realtà, quel che Juan Luis Suárez propone è che i letterati sappiano amministrare i nuovi strumenti, conoscano di prima mano i loro vantaggi e includano il loro uso come un aspetto complementare – egemonico nel lungo periodo, secondo le sue previsioni – del lavoro che intendono svolgere. Il problema, a mio modo di vedere, risiede in Google e, almeno in parte, nel concetto di humanities che il modello nordamericano sta imponendo. Suárez parla di “cultura che si produce”, di “oggetti culturali che si vendono”, di “utilità funzionale”, perfino di una start-up di umanisti (d’accordo con la pretesa filosofia umanista del gigante Google). Una significativa dimostrazione di questo impianto è che si accenni alle emozioni e all’entusiasmo in qualità di strumenti atti ad ottenere una comunità accademica più ricca e diversificata. La smorfia non è più di scetticismo, ma di sconsolazione.
Offriamo o vendiamo? Invitiamo a implementare (verbo nuovissimo, d’altra parte), oppure imponiamo un sistema umanistico che si dimostra essere una forma di sfruttamento di un mercato nient’affatto sfruttabile, e che per di più non ha alcun proposito commerciale né sostenibile? Nella pagina web dell’Università di Stanford si può leggere la seguente definizione: «Le discipline umanistiche possono essere intese come lo studio dei modi in cui gl’individui processano e documentano l’esperienza umana. La conoscenza di questi registri (filosofia, letteratura, religione, arte, musica o storia) ci dà la possibilità di stabilire una connessione sia con chi ci ha preceduto, sia con i nostri contemporanei». È una definizione tradizionale che si adegua parzialmente al nuovo profilo di “umanista digitale”. Un paradosso? No, soltanto una confusione.
Parlavo prima di Erasmo, lor signori hanno il piacere di conoscerlo? Immagino che la maggior parte, cioè a dire una parte minoritaria, ne avrà sentito parlare in quanto autore di un famoso libro intitolato (generalmente) Elogio della follia. È un libretto scritto in poco più di una settimana, leggendario sin dalla sua concezione perché scritto durante un soggiorno in Inghilterra, quando Erasmo vi era stato invitato dal più illustre umanista di tutti i tempi, Tommaso Moro. Per quanto mi sforzi, ogni volta che penso a quei due studiosi e all’umanesimo digitale, c’è qualcosa che sfugge al mio comprendonio. Gli studia humanitatis, ai quali l’umanesimo è intimamente collegato, non riguardano tanto l’uso delle nuove tecnologie (neppure se si mettono nel conto i caratteri per la stampa inventati da Gutenberg), quanto il recupero del sapere antico, delle lezioni dei classici, cioè a dire, di una forma indeclinabile di rispetto culturale che contempla il passato quale fonte primaria d’ispirazione per avanzare verso il futuro. Da questo punto di vista, parlare di “umanisti digitali” mi sembra un’equazione contro natura, una contraddizione insalvabile e forzosa. Perché diciamo amore quando in realtà vorremmo dire sesso, avete presente? Qualcosa di simile.
Il dizionario della RAE offre tre accezioni del termine umanesimo: 1) studio o conoscenza delle lettere umane, 2) movimento rinascimentale che difende il ritorno alla cultura greco-latina come strumento per restaurare i valori dell’uomo e 3) dottrina o attività basata su una concezione integrante dei valori umani. Un’alternativa all’uso della RAE è il dizionario di María Moliner, molto più attendibile: 1) conoscenza o studio delle discipline umanistiche e 2) movimento intellettuale europeo del Rinascimento che considera l’uomo come centro di tutte le cose e propone lo studio dei classici greco-latini. Johan Huizinga annotò sull’Elogio della follia che non esiste soltanto la follia creatrice, figlia della passione sfrenata per l’ansia di conoscenza; ne esiste anche un’altra, più pericolosa: quella alienata; una forma di conoscenza che è capace soltanto d’illuminare una saggezza impazzita. La scienza e la mitologia non dovrebbero essere contrapposte, ma sembra che la prima – benché siano passati secoli da quando Locke ha dimostrato che la verità è essenzialmente una forma di consenso – senta la necessità di autoaffermarsi sulle fondamenta del proprio orgoglio, mentre la seconda viene relegata al ruolo di sorellina brutta e disonorata.
Francesc Serés, nell’ultimo numero della rivista La Maleta di Portbou, scrive: «Non c’è mai stato tanto sapere alla portata della cittadinanza, eppure […] probabilmente non ci sono mai state tante persone che rinunciano al sapere». È davvero curioso che questo si produca proprio quando si parla di iperattività e deficit di attenzione. Il filologo tedesco Alain Verjat lo aveva previsto prima che si trasformasse in una sindrome del comportamento psicosociale più o meno generalizzata: «L’abbondanza di messaggi è inversamente proporzionale all’attenzione che gli si presta, di modo che nello stesso cestino si ritrovano idee geniali e spazzatura intellettuale». E Martha C. Nussbaum lo affermò in Non per profitto (il Mulino, 2014): «Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone». Cosa significa tutto questo? Che la sola cosa che può salvarci dalla confusione è la chiaroveggenza. E scusate se ha tutta l’aria di essere una pagliacciata, ma il mondo è fatto così.
Diffidare del modello di umanesimo digitale è logico, perché sebbene l’umanesimo all’antica non abbia saputo assegnare al sapere il ruolo che gli spettava, quello nuovo si basa su parametri che, semplicemente, gli sono estranei. Forse si tratta di una contraddizione, ma se agli sventurati studenti di discipline umanistiche fosse stato detto che la nostra carriera universitaria sarebbe risultata utile per questo o per quell’altro scopo, beh, io stesso, forse, non mi sarei lasciato sedurre: gli umanisti non sono affatto utilitaristi. Avete mai pensato all’atto di leggere, di vedere opere d’arte? Conoscete un qualche atto simile che possa gareggiare in quanto a inutilità pratica? Perché leggiamo il Don Chisciotte, adoriamo la chiave di volta della Cappella Sistina o contempliamo la chiesa di Santa Sofia a Istanbul e restiamo a bocca aperta? Serve forse a qualcosa? Assolutamente a niente, anche se, proprio per questo, serve a tutto.
Nel momento in cui prendiamo qualcosa d’immateriale (un mito, una conoscenza, perfino un’attitudine nei confronti della vita) per cosificarlo e strumentalizzarlo, lo stiamo privando dell’essenza del suo incalcolabile valore. È questa l’insanità a cui che si riferiva Erasmo e la malattia che appuntò poi Huizinga. È questa imbecillità che trasforma la chiaroveggenza in una illusione appagata da se stessa. Torniamo a Serés: «Fino a che punto le discipline umanistiche hanno partecipato a un festino che non era il loro?». A questa domanda dovremmo rispondere tutti coloro che, in un modo o nell’altro, vi abbiamo preso parte. Io non l’ho ancora perfettamente chiaro, quel che si dice chiaro come invece ce l’aveva Erasmo: «Ingannarsi, si dirà, è deplorevole; ma ancor più deplorevole è non ingannarsi! Errano senza dubbio coloro che stimano che la felicità dell’uomo risiede nelle cose stesse».