Il testo a cura di Lorenzo Coccoli,“Commons/beni comuni. Il dibattito internazionale”(goWare, 2013), costituisce una bussola all’interno dell’oceanico dibattito sul tema dei beni comuni.
La questione beni comuni si presenta, infatti, come un cannocchiale caleidoscopico capace di comporre mille immagini differenti a partire dall’individuazione del significato della stessa espressione beni comuni. E se da un lato alcuni autori hanno proposto “manifesti”, altri rivendicano “non-manifesti”, mentre altri ancora schierandosi “contro” i beni comuni li prendono molto sul serio[1]; insomma, il campo di studio teorico appare oceanico ed attraversato sia da potenti onde superficiali sia da intense correnti sottomarine che, tuttavia, si scontrano con imprevedibili ed altissimi scogli di re-esistenza pratica, come la più nota esperienza del Teatro Valle Occupato[2] di Roma.
Quindi, è ben noto quanto sia attuale e vasta la discussione italiana sul tema; tuttavia frequentemente viene ignorato o dimenticato il dibattito internazionale e così il testo di Coccoli ce ne offre uno spaccato sintetico pescando alcuni tra i contributi più significativi.
Nell’introduzione, scritta dal curatore, si tracciano le coordinate fondamentali per orientarsi nella navigazione salpando con una fulminea panoramica storica che individua nel fenomeno delle enclosures la prima forma di privatizzazione dei beni comuni; contemporaneamente, le recinzioni rappresentano la nascita del capitalismo moderno attraverso l’accumulazione originaria descritta da Marx. E così, in questa morsa, si dà «l’origine di quella opposizione complementare di pubblico e privato che disegna apparentemente senza resti la struttura politica e giuridica della modernità occidentale».
E, da questo momento, la storia dei beni comuni si caratterizza in negativo, ossia come storia di sottrazioni delle risorse comuni in favore dello sviluppo capitalistico, giungendo fino alle privatizzazioni (non solo di beni materiali) e agli affidamenti in gestione dei giorni nostri.
Inevitabilmente, la progressiva spoliazione dei beni comuni ha comportato che la discussione sul tema divenisse un fiume carsico che via via veniva prosciugato fin quasi a scomparire; tuttavia, il fiume carsico emerge nel 1968 con il noto articolo del biologo Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons. E il testo a cura di Lorenzo Coccoli, dopo l’introduzione a cui si accennava, si apre proprio con questo celebre articolo cui segue (anche cronologicamente, 1969) l’articolo di Elinor Ostrom Collective Action and the Tragedy of the Commons; si tratta di una vera e propria risposta ad Hardin che sancisce (fin dall’evidenza dei titoli) definitivamente l’emersione del dibattito intorno ai beni comuni: una discussione che sarà oceanica, interdisciplinare, multiforme e trasversale e il testo di Lorenzo Coccoli ce ne offre un sapiente spaccato.
Infatti, dopo i due testi già citati, l’articolo di Lawrence Lessig, Commons and Code (1999), esplora il rapporto tra beni comuni e tecnologia informatica ponendo il problema delle restrizioni alla proprietà intellettuale mentre il quarto articolo, Naomi Klein, Reclaiming the Commons (2001), percorre le rotte della resistenza alla globalizzazione neoliberista «costruita a scapito del benessere umano a livello locale» e quindi vòlta alla privatizzazione dei beni comuni.
All’intersezione dei precedenti testi, si colloca l’articolo di Vandana Shiva, The Enclosure and Recovery of the Biological and Intellectual Commons (2002): biodiversità e saperi tradizionali indigeni costituiscono risorse comuni e ogni loro recinzione, attraverso brevetti e diritti di proprietà intellettuale, rappresenta «un furto ai danni della gente che possiede in comune quelle risorse, e porta alla loro perdita».
Il quinto articolo proposto, Massimo de Angelis, Reflections on Alternatives. Commons and Communities (2003), esamina la possibilità di costruire un nuovo mondo partendo dal basso, a partire da «due principali pratiche: la riconquista e/o la rivendicazione dei beni comuni e la pratica (di apprendimento) delle comunità»; l’articolo successivo, Donald M. Nonini, The Global Idea of the Commons (2007), offre spunti interessanti sul concetto generale di beni comuni e sulla crisi del capitalismo contemporaneo. Settimo articolo inserito nel volume è A New Politics of the Commons (2007) di David Bollier dove si afferma che «i beni comuni possano svolgere un ruolo fondamentale di riordino delle tematiche culturali e politiche» e perfino porsi come nuova visione del mondo; l’ottavo contributo consiste nell’articolo di Silvia Federici, Feminism and the Politics of the Commons (2010), che affronta la relazione tra beni comuni e comunità da un punto di vista femminista. Il nono e penultimo articolo è di Peter Linebaugh, Enclosures from the Bottom up (2010), e consiste in una complessa riflessione a partire dalla rivolta di Otmoor (1829) quando, a seguito del tentativo del governo britannico di recintare le vicine terre comuni, si scatenò un’imponente resistenza locale. L’ultimo articolo è il testo di Michael Hardt, Two Faces of Apocalypse. A letter from Copenhagen (2010), e affronta il tema del comune indagandone le antinomie a partire dalla incisiva considerazione per cui «il comune sta senza dubbio diventando il terreno centrale della lotta politica in contesti politici molto diversi».
Ma, come si accennava, non si tratta solo di una rassegna di autori internazionali; Coccoli non esista tracciando una propria rotta: i beni comuni potrebbero rappresentare una “significante vuoto” capace di legare istanze sociali, altrimenti non assimilabili, entro un unitario orizzonte comune di lotta che si connoti, in negativo, per l’estraneità dai meccanismi del neoliberismo economico e, in positivo, per la produzione di legami comunitari. Una rotta, come dice lo stesso autore, che si presenta alla maniera di «un progetto ambizioso, certo, ma forse mai così attuale».
Come si è cercato di far emergere, il testo di Coccoli è una navigazione ampia nel tempo e nello spazio: dalla ri-emersione dei beni comuni con la “tragedia” di Hardin del 1968 fino all’attualità del “comune” di Hardt e tutto ciò veleggiano tra Chiapas e Cochabamba, tra Seattle e Genova, passando per l’India e il mare virtuale di Internet.
In questa narrazione, infine, si riscontra un pregio notevole e indiscutibile: nell’oceano dei beni comuni, Coccoli ci dà tutte le coordinate essenziali e, allo stesso tempo, riporta fedelmente quanto la questione sia complessa e sfaccettata. Così l’invito alla navigazione è esplicito ed assolutamente affascinante.
[Una versione più ampia di questo post è uscita su Sitosophia]
Note
[1] Si fa cenno al recente dibattito “incrociato” tra Ugo Mattei Beni Comuni. Un manifesto, Laterza, Roma 2012, Michel Hardt e Antonio Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012 ed Ermanno Vitale Contro i Beni Comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma 2013.
[2] Cfr. Aa. Vv. Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi, Roma 2012.