L’America prima dell’America – “I giovani” di J.D. Salinger

La riscoperta dei racconti raccolti ne “I giovani” (Il Saggiatore, traduzione di Delfina Vezzoli) riportati alla luce nel 2014 da Devault-Graves, un piccolo editore indipendente di Memphis, testimoniano proprio la trasversalità di un autore capace ancora oggi di raccontare angosce e turbamenti di un secolo di cui in qualche modo ancora facciamo parte.
Salinger Giovani

I libri di J.D. Salinger sono sostanzialmente riflessioni e conversazioni montate le une alle altre secondo un ritmo musicale da cui discende un senso narrativo ed estetico tanto asciutto e lapidario quanto capace di produrre meraviglia. Il montaggio diviene così l’asse attorno a cui è possibile penetrare l’opera e quello che viene più comunemente definito il mistero di un autore tanto pubblico quanto appartato (ostinatamente appartato). Non è un semplice obbligo dettato da necessità se la più importante biografia su Salinger (David Shields, Shane Salerno, Salinger. La guerra privata di uno scrittore, ISBN 2014) sia costruita proprio attraverso il montaggio di una serie di testimonianze capaci di definire l’autore e il suo universo sociale e narrativo. Una biografia che vive sia dell’ostinata privacy di Salinger sia della assoluta fama de Il giovane Holden. In questo contrasto si muove questa sorta di macchina biografica concepita da un critico (Shields) e da un regista (Salerno) capace di restituire senza stereotipi una delle figure più emblematiche della letteratura del Novecento, agendo principalmente sull’uomo più ancora che sull’autore, perché proprio l’oblio dentro cui ha voluto rinchiudersi Salinger ha trasformato la sua stessa umanità in letteratura. Del resto anche Romano Giachetti con Il giovane Salinger (Baldini & Castoldi, 1998) capovolgendo i termini, indagava la figura di Salinger partendo da un’analisi dei suoi testi montandoli poi all’interno di un discorso critico biografico.

Se un testo letterario diviene un vero e proprio simbolo transgenerazionale e si trasforma nell’icona di una cultura che contemporaneamente il suo autore rifiuta in toto (fama e visibilità in particolare), la sovrapposizione diviene non un mezzo di indagine feticistico, ma una forma esatta di critica e analisi della contemporaneità in cui il ruolo dell’autore e della sua opera sono centrali.

I giovani è una raccolta di tre racconti ricomparsi dopo un oblio durato oltre settant’anni. Tra i primi scritti di Salinger I giovani, Va’ da Eddie, Una volta la settimana mettono in mostra già la piena maturità dell’autore de Il giovane Holden e anticipano i temi che saranno poi centrali per buona parte del secondo dopoguerra americano.

Salinger si pone un passo dopo la generazione perduta di Dos Passos e Hemingway (da cui molto ha preso, ma non di certo la desolazione dell’eroe solitario) e laterale ad autori come John Barth e Richard Yates che radicalizzano in un certo senso la contestualizzazione cocktail society che in Salinger è principalmente l’ossatura attorno a cui far ruotare i personaggi e non una vera e propria critica d’ambiente.

Ed è in questo autonomo equilibrio che ruota la fortuna e la sfortuna (come nel caso di questi racconti rifiutati da «The New Yorker» e approdati solo su riviste minori nel 1940) letteraria di Salinger: un equilibrio che sembra tanto più funzionare quanto più è efficace la capacità dell’autore di montare i propri personaggi come elementi sempre slegati l’uno dall’altro e solo occasionalmente insieme all’interno di una storia. La scrittura di Salinger ricorda così la messa in scena cinematografica tipica della New Hollywood e non a caso quella di John Cassavetes, suo lettore, in cui il centro è sempre l’attore (personaggio) ben oltre le esigenze di luce e fotografia (John Cassavetes, Un’autobiografia postuma, minimum fax, 2014).

I giovani è il racconto dell’America prima dell’America. La guerra è alle porte e il vecchio mondo è in disfacimento, i giovani prendono forma oltre Atlantico, assumono un ruolo che sarà centrale e che si farà carico di ciò che è stato, delle contraddizioni, delle nostalgie e dei dolori. Supereranno la generazione perduta e si imporranno come maggioranza. Sono giovani poco romantici, non radicali e minoritari come i beat, ma certamente radicali nell’imporsi, spaventati, ma duri nel prendersi il mondo in spalla. La loro non sarà produzione di meraviglia (anche se a tratti se ne scorge il sogno), ma di contraddizione: faranno dello scontro il terreno del chiarimento in maniera esplicita, ma dopo di loro ogni conflitto verrà anestetizzato. Dopo di loro verranno solo altri giovani in un moto perpetuo in cui il ruolo è dato e lo scontro generazionale impossibile perché nessun’altra categoria che non sia quella di giovane verrà più concepita. Il loro non sarà mai un ruolo di potere, ma essi ne saranno semplicemente lo strumento. Essere giovani diventerà il modo migliore per essere usati e, solo per questo, contemporaneamente apprezzati.

I giovani, il primo dei tre racconti che dà il titolo alla raccolta (mentre nella raccolta americana del 2014 è Three Early Stories) è una sorta di racconto in presa diretta fatto di dialoghi serrati alternati a brevi note d’ambiente: i dialoghi corrono lungo la pagina veloci e ritmati:

 «Bill è un carissimo amico di Jack Delroy» annunciò Lucille.

«Non è che lo conosco poi tanto» disse Jameson.

«Bene. Adesso devo filarmela. A dopo, voi due.»

[…]

«Davvero? Pensavo di aver sentito Lu dire che eri un suo caro amico».

«Sì, già, l’ha detto. Solo che non lo conosco poi tanto. Adesso però dovrei proprio andare a casa. Ho questo tema che devo fare per lunedì. Non pensavo neanche di tornare a casa per il weekend».

«Ma la festa è ancora giovane!» disse Edna.

Siamo a una festa, c’è eccitazione, ma contemporaneamente distacco, è il tipico tono di Salinger capace di tenere insieme con poche battute un umore giovanile intriso d’ingenuo nichilismo. Non esiste abbandono, ma desiderio, e del desiderio la voglia, con la sua smisurata felicità prima del suo appagamento. «La festa è giovane» dice Edna; lo proclama quasi a definire la libertà dei termini di un dialogo in cui tutto è detto per essere frainteso, ma anche per essere giustificabile.

Il racconto si muove così su due piani; da un lato il dialogo che si fa serrato che scorre veloce, ma porta anche con sé come un fiume in piena una strana sensazione di angoscia, qualcosa che sfugge sia dalle parole spesso ripetute sia nel tono che ogni volta necessita di una riformulazione; dall’altro lo sfondo, riassunto dalle risa di una biondina che si ripetono come un battere del tempo. Prima le risa da lontano connotano l’ambiente, lo descrivono e aprono la scena, poi si fanno soffocanti e affiancano il dialogo isolandolo e staccandolo dal resto.

La lingua di Salinger vive in un continuo movimento di esatta proporzione tra posizione e senso e tra detto e non detto. Non esplode, non rivela, ma lentamente mette a suo agio il lettore, lasciandolo alla fine in un posto sconosciuto e in un certo senso pericoloso.

I protagonisti di Salinger sono spesso altoborghesi, ricchi e viziati, sono annoiati e persi nel collo di qualche bottiglia di superalcolici. Tendenzialmente hanno tempo per dormire e per riflettere, non si abbruttiscono in una lenta decadenza, ma sono come isolati in una sorta di tempo fermo, sospeso e chiuso su se stesso. Nella tripartizione in cui i racconti sono strutturati (lo stato dell’arte, una pausa dalle consuetudini e il ritorno leggero e naturale allo stato dell’arte), viene accennato un movimento che subito si chiude, per riprodursi identico, o in una leggera variazione, alla successiva occasione, dando l’impressione che niente stia accadendo e niente accadrà.

[…] Il sole li illuminava entrambi, mettendo in risalto la pelle lattea di Helen, senza far niente per Bobby, se non mettere in risalto la forfora e le borse sotto gli occhi.

«Cosa ne diresti di un lavoro?» chiese Bobby.

«Un lavoro?» fece Helen, continuando a limare. «Che tipo di lavoro?» […]

La pausa non è mai fatta di tragedie o di accadimenti particolarmente violenti o svilenti per i personaggi, ma è costruita attorno a una altissima tensione in cui i mutamenti sono appena avvertiti eppure percepiti come possibili (perché infinite sono le possibilità di personaggi creativi e ricchi e annoiati), a volte addirittura imminenti. La scrittura di Salinger è una camminata su pezzi di vetro: a qualsiasi velocità si percorrano le sue pagine non cambia il grado di assimilazione perché le pagine seguono l’occhio (e non il contrario). Il lettore occupa così il medesimo spazio dei personaggi, perché il livello è quello esclusivo della percezione, del sentimento che scorre tra le parole (tra le righe) costruite con meravigliosa precisione da Salinger. E allora nulla accadrà se non lo vorremo capire e nulla succederà ai personaggi se non li vorremo sentire.

Percepire per Salinger vuol dire principalmente discorrere, e nei discorsi le parole cadono, ed è lì che con sapienza lui raccoglie le parole per metterle meglio in mostra davanti al lettore; ancor più questo avviene durante le lunghe telefonate che tagliano i racconti costruendone spesso l’ossatura.

Se Salinger continua a imporsi ai nostri occhi è anche per l’intuito non banale di aver centrato la propria narrazione sul discorrere, sul parlare di cose che stanno da altre parti con persone (telefono) che stanno in altri luoghi ancora. E non conta che sostanzialmente Salinger sia un autore d’interni, perché quello che sta al centro del racconto è il racconto stesso e il mezzo usato per realizzarlo. La parola orale fattasi scrittura, l’incontro fattosi chiacchiera, l’amore come presenza di un momento: l’andirivieni di corpi e voci in una stanza. L’assenza del corpo (che poi sarà nel caso di Salinger, l’assenza del corpo stesso dell’autore) è totale nei racconti, basta una parola e tutto viene a cadere, a sciogliersi e perdersi. La presenza non conta mai e quasi mai è decisiva, anzi riallontana e obbliga a risintonizzare i sentimenti, non più dell’ennesima presa di tempo. Leggera leggera si muove la scena tra le parole.

«Puoi portarla al cinema una volta alla settimana» disse lui. «Non morirai di certo».

«E chi lo ha mai detto? Me lo hai mai sentito dire?»

«No». Ed entrò in sala da pranzo.

Salinger ha un senso preciso per il dolore, ed è sul dolore, come fosse un mezzo di trasporto, che i suoi personaggi si muovono. Il dolore di Salinger esclude tragedie perché è esso stesso ritmo è musicalità, il dolore non può essere interrotto, può solo variare d’intensità e di volume, ma è la materia stessa della narrazione. Salinger lo dosa con cautela, senza gli esibizionismi tipici di molta letteratura americana della sua epoca. Spetterà all’udito del lettore di dare forma, ogni volta l’ultima, alla scrittura di Salinger.

Viviamo di parole dette e scritte davanti a schermi illuminati che in continuazione cambiano testi e contesti e questo ci impone di essere sempre pronti e reattivi a cogliere umori e ritmi, a trovare il senso di discorsi elaborati a migliaia di chilometri da noi, da persone conosciute solo attraverso parole, personaggi reali che niente distingue da personaggi di romanzi, se non che esistono da qualche parte in carne e ossa. A questo mondo forse spaventoso e inconsapevolmente letterario (fatto però di una letteratura che poco c’entra con i grandi analisti del nostro secolo come Pynchon, Foster Wallace e James Ballard, ma molto più con Honoré de Balzac e George Gissing) Salinger parla da pari, con la naturalezza ovvia delle parole in rincorsa.

Salinger ci insegna, ci lascia un ritmo per la nostra volontà. Scomparire per esserci, per l’essenza che le parole dicono e danno e per il desiderio di corrispondere loro. Tutte quelle parole che Salinger condensa nelle sue narrazioni vaporizzandole e sciogliendole nel senso del discorso con un lavoro accurato di levigazione abile e raffinato (questi racconti non scontano nulla alle sue opere più famose), noi le perdiamo abitualmente, dalla mattina alla sera.

E con loro vorremmo fortemente e intimamente scomparire. Perché tutte quelle parole ci hanno definito, insegnato e in pratica raccontato. Scomparire in un mondo fatto e costruito dalle parole significa riprendere possesso della propria definizione e tornare a mettersi in discussione (sempre difficile in mezzo al chiasso del chiacchiericcio diffuso). Anche Salinger è scomparso, e anche per questo questi tre racconti non testimoniano nulla, ma raccontano di nuovo e ancora di nuovo e ogni volta per ogni nuova volta.

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