È notizia recente l’istituzione, in Puglia, del reddito di dignità. Emiliano, il presidente della regione Puglia, coglie la sfida della campagna promossa da Libera e da Don Ciotti, per un reddito universale che riconosca a tutti la possibilità di vivere in condizioni dignitose, al di sopra della soglia di povertà.
Eppure basta uno sguardo alla proposta di legge per capire che qualcosa non quadra. Nella formulazione pugliese, il reddito, anche essendo individuale, è calcolato sulla base dell’ISEE dell’intera famiglia, che deve essere inferiore ai 3000 euro. Si tratterebbe di un massimo di 600 euro al mese per una famiglia di 5 componenti: 170 euro a persona. Come si legge nella proposta: «in una prima fase non varia al variare del reddito disponibile; successivamente tale importo potrà essere rideterminato e commisurato alla differenza tra la soglia massima e il reddito disponibile familiare». Nel testo di legge si mette in contro la possibilità di estensione della platea dei beneficiari.
Uno dei maggiori limiti dei modelli di welfare tradizionali è l’impianto familistico, che diviene sempre più inadeguato di fronte alla crisi della famiglia tendenzialmente patriarcale così centrale in tutta la modernità occidentale. Questo impianto, infatti, costituisce un ulteriore impedimento alla scelta di percorsi di autonomia e di indipendenza da parte dei più giovani, che si vedrebbero costretti a rinviare sine die l’aspirazione a emanciparsi dalla famiglia di origine, perché una tale scelta potrebbe comportare la perdita del reddito/sussidio per l’intero nucleo familiare.
Il nucleo familiare è centrale sia nell’individuazione dei beneficiari (che vengono individuati sulla base della «situazione reddituale e patrimoniale familiare» e di «altre eventuali condizioni di maggiore fragilità sociale tra le quali la composizione del nucleo familiare con particolare riferimento alla presenza di figli in minore età, la durata del periodo di assenza di occupazione o di esclusione dal mercato del lavoro e la condizione abitativa») che nella definizione del percorso concordato di attivazione e di inclusione sociale attiva, che deve essere sottoscritto dal richiedente e dal suo nucleo familiare e che è condizione di accesso al reddito. Anche proponendosi di essere “universalistico”, il reddito di dignità pugliese viene a configurarsi come un sussidio per famiglie povere, escludendo i soggetti individuali, in stato di bisogno, che vogliono emanciparsi dalla famiglia d’origine.
Ma non è tutto. Il contributo è sospeso dopo 12 mesi e subordinato alla sottoscrizione di un “patto di inclusione sociale” tra il soggetto beneficiario e l’ambito territoriale sociale di riferimento. Il patto individuale per l’inclusione attiva sarà definito da «personale dei Comuni (Ambito territoriale) e dei Centri per l’impiego pubblici, in collaborazione con soggetti privati, e del privato sociale che erogano servizi per le politiche attive del lavoro». Non è chiarito in cosa consista questo patto, ma si fa continuamente riferimento alla necessità di dispositivi per disincentivare comportamenti opportunistici e elusivi. Come si legge nel testo di legge, «il patto individuale di inclusione sociale attiva può sia obiettivi di inclusione sociale, di occupabilità e di inserimento lavorativo, sia obiettivi di riduzione dei rischi di marginalità connessi all’intero nucleo familiare, nonché obiettivi di attivazione». Nessuna definizione dei criteri per stabilire la congruità fra le proposte di lavoro e il profilo del beneficiario. Così, questo patto rischia di essere tutto sbilanciato a favore dei datori di lavoro, che possono contare, tra l’altro, su un’altissima ricattabilità del beneficiario. La durata di un anno, infatti, non tiene in considerazione la lunghezza dei tempi di ricerca di lavoro al Sud, soprattutto negli ultimi anni. Il beneficiario sarebbe incentivato a ricercare un lavoro a nero, in modo da poter usufruire nuovamente del sussidio.
Più che ad una forma di reddito, il dispositivo approvato da Emiliano assomiglia tanto ad un sussidio caritatevole, condizionato nei tempi e subordinato alle esigenze delle aziende sul territorio, con cui viene sottoscritto il misterioso “patto”. Viene tradita la campagna “Miseria ladra”, promossa da Libera, per l’introduzione del reddito di dignità in Italia.
Il reddito di dignità, infatti, non può essere inteso come un incentivo ad accettare qualsiasi lavoro venga offerto sul mercato, che si tradurrebbe in una legittimazione a ridurre salari e tutele. Il reddito, nella formulazione di Libera e nel dibattito politico e teorico italiano – che Emiliano sembra ignorare totalmente – è il riconoscimento della dignità della persona indipendentemente al posto che occupa nel mercato. In un momento in cui il lavoro è sempre più precario e intermittente e le tutele sindacali sono demolite progressivamente, solo al di fuori del ricatto della povertà gli individui possono autodeterminarsi liberamente.
Certamente a livello territoriale l’impossibilità di approvare misure universali di reddito impone la scelta di criteri di definizione dei beneficiari. In questo caso, però, i criteri sono totalmente sbilanciati a favore dei datori di lavoro, che possono disporre di un gran numero di soggetti abbondantemente al di sotto della soglia di povertà (170 euro modificano di pochissimo la situazione reddituale di un individuo) e costretti ad accettare le condizioni sottoscritte nel “patto”, pena la risoluzione del medesimo. Un esempio virtuoso di reddito territoriale è stato, negli scorsi anni, il reddito di formazione approvato a Barletta, che considerava come criterio di erogazione solo il reddito di ciascuno studente, non il merito, che lo avrebbe reso assimilabile ad una borsa di studio. Il Comune di Barletta, su proposta della Federazione della sinistra – Sinistra per Barletta, ha previsto nel 2012 l’assegnazione di un contributo di 200 euro mensili per un anno a giovani tra i 16 e i 26 anni inseriti in un percorso formativo. Si trattava di un contributo in supporto del reddito svincolato da criteri di merito. La sua funzione era quella di sostenere i soggetti in formazione nell’acquisizione di maggiore autonomia economica, permettendo loro di inserirsi più agevolmente nel mercato del lavoro. La tendenza all’incondizionatezza e all’universalità costituisce un principio cardine della filosofia del reddito di cittadinanza e del reddito di dignità.
Il grave errore commesso da Emiliano è di considerare il reddito come uno strumento di inclusione degli individui nei posti lavorativi che il territorio mette a disposizione, indipendentemente dalle loro caratteristiche. Il reddito, invece, è un dispositivo potente, che da un lato tutela tutti quei soggetti (precari, disoccupati, partite iva, working poor, ecc…) che rompono il compromesso fordista su cui si è retto il welfare classico, e che rivendicano diritti e dignità. Dall’altro pone un freno all’invadenza del mercato e alle condizioni imposte dai datori di lavoro, riconoscendo la dignità e la libertà di autodeterminazione di ciascuno come limite invalicabile e presupposto imprescindibile di ogni rapporto di lavoro.
Un ultimo elemento di perplessità è legato ai cosiddetti percorsi formativi, che dovrebbero integrare la misura. Come si ricorderà la formazione professionale è stata uno dei capitoli più opachi e inconcludenti in tutta la ormai lunga storia della Regione Puglia. Perciò bisognerà fare molta attenzione alle modalità di organizzazione dei percorsi formativi, affinché non si trasformino in una fonte di guadagno più per i formatori che per i formati. I percorsi formativi, inoltre, servono normalmente in quelle realtà in cui c’è una offerta di lavoro non soddisfatta da una domanda che si presenti con caratteristiche diverse. Non ci sembra che questo costituisca il problema principale della disoccupazione pugliese.
Insomma, chiamiamolo sussidio, chiamiamola carità, non chiamiamolo reddito di dignità.