Come sta il cinema italiano? Lo abbiamo chiesto a Marina Resta

Marina Resta, filmmaker e direttrice artistica di “Working Title Film Festival – Festival del cinema del lavoro“, Vicenza.

La nuova legge sul cinema è stata approvata lo scorso 3 novembre e stando a quanto afferma il Ministro Franceschini sarà in vigore da gennaio. Nel frattempo conosceremo anche il contenuto dei decreti attuativi, alla cui scrittura alcune associazioni di categoria stanno collaborando. Abbiamo deciso di pubblicare i primi contributi ricevuti da professionisti per l’e-book che stiamo preparando sul cinema italiano dopo la riforma.

Abbiamo iniziato con Christian Carmosino e Simone Catania, ora è la volta di Marina Resta. La nuova legge stabilisce anche una delega al Governo per la riforma in materia di rapporti di lavoro nel settore – ossia l’applicazione del Jobs Act – ed è proprio al cinema del lavoro che la regista dedica una parte della propria ricerca.

Da Altamura a Bologna e poi a Berlino e a Milano

Il mio percorso nel mondo del cinema è cominciato nel 2003. A 19 anni sono partita dalla Puglia (Altamura, per la precisione) per andare a studiare a Bologna: mi sono iscritta al Dams Cinema spinta da una curiosità, che ben presto si è trasformata in una vera passione. A differenza di molti miei colleghi universitari, non avevo intrapreso questo iter di studi con l’obiettivo di fare dei film, questo tipo di urgenza l’ho maturata negli anni. Ho preferito proseguire con la formazione universitaria, dopo la laurea triennale mi sono iscritta alla Magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale, sempre dell’Università di Bologna. Durante il primo anno della laurea magistrale ho frequentatato il corso di Filmwissenschaft della Freie Universität Berlin come studente Erasmus. A Berlino ho anche svolto la ricerca per la mia tesi di laurea sulla “Berliner Schule”, gruppo informale di registi tedeschi formatisi alla DFFB (Deutsche Filmund Fernsehakademie Berlin), una delle più importanti scuole di cinema della Germania.

Durante l’università e subito dopo ho organizzato rassegne cinematografiche, tra cui una proprio sulla Berliner Schule per il Goethe Zentrum di Bologna e ho collezionato esperienze di volontaria e stagista in alcuni festival tra cui Robot e Gender Bender di Bologna e Le Giornate degli Autori della Mostra d’arte cinematografica di Venezia.

Nel 2011 ho iniziato a frequentare il Corso di documentario serale delle Scuole Civiche di Milano e nel 2012 ho realizzato, a ventotto anni, il mio primo film, Milano fa 90, film documentario di 24 minuti sulla linea circolare 90/91 di Milano, prodotto dalla scuola con un budget bassissimo e presentato in alcuni festival milanesi come Sguardi Altrove e Docucity.

Credo che l’utilità delle scuole di cinema risieda oltre che nel fornire competenze tecniche, anche nel rendere possibile la produzione di film personali e creare legami per collaborazioni future. Ciò che manca è un’adeguata promozione dei prodotti audiovisivi.

Profondo nord

Attualmente la mia base è Vicenza, dove vivo da quasi quattro anni. Mi sono trasferita in questa piccola città veneta per motivi legati alla mia vita privata ma sto cercando di costruire anche un legame più profondo. L’acqua calda e l’acqua fredda, il mio secondo film documentario (con Giulio Todescan), uscito nel 2015, parla degli operai dell’acciaieria Valbruna di Vicenza, che per la maggior parte vengono dal Sud Italia e in particolare da Giovinazzo (Bari), dove fino agli anni ’80 erano in funzione le Acciaierie e Ferriere Pugliesi.

Essere periferici. Svantaggi e opportunità

Credo che essere periferici rispetto ai grandi centri decisionali o di produzione penalizzi in parte la possibilità di far conoscere il mio lavoro ma è anche vero che ci sono sempre più possibilità di distribuzione alternativa sia attraverso i piccoli festival su tutto il territorio, sia attraverso piattaforme on line dedicate come Film Festival Life e Movibeta, che mettono in contatto filmmaker e festival, e come la piattaforma Movieday che invece fa da intermediario tra filmmaker ed esercenti.

Per L’acqua calda e l’acqua fredda, che è un film completamente indipendente, auto-prodotto e auto-distribuito, abbiamo sfruttato queste nuove opportunità. Il 1 maggio 2015 all’anteprima vicentina al Cinema Primavera siamo riusciti a riempire una sala di 300 posti. Un successo di pubblico riscontrato anche con una proiezione nell’aprile 2016 organizzata al Cinema Grande di Altamura attraverso Movieday. Inoltre L’acqua calda e l’acqua fredda è stato selezionato anche da alcuni festival tra cui Foggia Film Festival, dove ha ottenuto una menzione di merito, Sguardi Altrove a Milano e Mediterraneo Video Festival, dove ha ottenuto una menzione per la miglior produzione indipendente. Tutto ciò mi spinge a continuare per questa strada, magari cercando future sponde produttive più solide.

Tornando al mio rapporto con Vicenza, nel 2016 ho dato vita con Giulio Todescan a “Working Title Film Festival – festival del cinema del lavoro” con lo scopo di portare anche a Vicenza film (soprattutto documentari) al di fuori della distribuzione canonica, e al contempo riflettere sul tema del lavoro, non in maniera generica, ma guardando allo scenario attuale e concentrandosi anche sui lavori intellettuali e creativi che nel sentire comune non sono percepiti neppure come tali. Oltre a un palinsesto audiovisivo che annoverava film documentari, di finzione, di animazione e persino una web-serie, Klondike de La Buoncostume a cui è stata dedicat una maratona su schermo cinematografico, abbiamo anche organizzato un dibattito sul lavoro freelance.

Milano resta per me un satellite, anche grazie alla relativa vicinanza con Vicenza: mi capita di tornarci per collaborazioni con amici conosciuti alla Scuola Civica. Ad esempio ho collaborato come aiuto regista (e non solo) alla realizzazione di B82- La Biennale fantasma del 1982 di Giorgia Ripa (che aveva già collaborato a Milano fa 90), un film documentario appena terminato che rielabora materiali di found footage su vhs e interviste odierne ai protagonisti della Biennale Arte del 1982.

Cosa potrebbe fare il Ministero

Ho sentito parlare del ddl 2287 e dalla più complessa Riforma degli audiovisivi voluta dal Ministro Franceschini attraverso i giornali generalisti da prima dell’estate, ma solo ultimamente mi sto informando in maniera più approfondita ascoltando le opinioni più diverse per farmi un’idea oggettiva.

Trovo positivo lo stanziamento di maggiori risorse per il settore cinematografico, meno positivo il criterio di contributo automatico, che vanta una maggiore oggettività, ma pone di fatto uno sbarramento all’entrata a tutti quei soggetti più piccoli e indipendenti e soprattutto emergenti, perché i parametri di assegnazione di questo contributo contemplano la performance sul mercato dell’impresa cinematografica. Questo significa che saranno favorite sempre le stesse imprese cinematografiche più commerciali e dipendenti dai broadcaster e lo spazio per la sperimentazione e la novità tematica, di linguaggio, di genere e di formato sarà sempre più marginalizzata.

Credo che una quota del 18% del fondo di 400 milioni (forse sarà inferiore) destinata al calderone di opere prime e seconde, start up, piccole sale e festival sia troppo ridotta e anche in questo caso il rischio della “guerra tra poveri” è dietro l’angolo. Inoltre ritengo che il MIBACT dovrebbe riservare maggiori risorse per lo sviluppo di progetti audiovisivi indipendenti o con budget basso, perché è proprio durante quella fase di ricerca e scrittura che si pongono le basi di un film e se ne decreta la sua sostenibilità e successo produttivo.

Penso che il MIBACT dovrebbe aggiustare un po’ il tiro della riforma coinvolgendo attivamente associazioni e istituzioni culturali più piccole e indipendenti, cercando di guardare anche alle realtà più periferiche e magari nate dal basso che contribuiscono a creare una cultura audiovisiva alternativa nei territori (e magari in seconda battuta anche un indotto economico).

Sul ruolo delle sale e sui contributi per far nascere i film

Sul versante delle sale cinematografiche, più che distribuire fondi per aprire l’ennesimo multisala, sarebbe utile cercare di (ri)creare un pubblico e una comunità (per esperienza il pubblico cinematografico è anagraficamente sempre più vecchio), renderlo sempre più consapevole e critico – questo passaggio dovrebbe passare anche attraverso una formazione alla visione fin dalle scuole primarie -, offrire al pubblico una programmazione non omologata, come stanno facendo ad esempio Kinodromo a Bologna o l’ambizioso progetto di Wanted Cinema a Milano o tanti piccoli festival diffusi sul territorio.

Non ho mai usufruito di contributi statali per realizzare i miei film, perché al momento lavoro in modo indipendente (nel vero senso del termine), da outsider e novizia del settore, senza avere una casa di produzione alla spalle. Sto cercando di imparare e fare esperienza per costruirmi una credibilità di fronte a un’eventuale casa di produzione o addirittura un giorno pensare di fondarne una io stessa.

Una terminologia conosciuta più dai produttori che dai registi

Nel corso dei miei studi ho imparato a conoscere la terminologia utlilizzata dal Ministero (tax credit, tax shelter, equo compenso, copia privata, contributi selettivi, product placement). Vengono considerati difficili tutti quei film che per formato, linguaggio, tema, genere sono difficilmente incasellabili e quindi meno vendibili.

Le Film Commission e i festival nella nuova legge

La nuova legge si limita a prendere atto delle esistenza sui territori regionali di film commission che in gran parte gestiscono fondi regionali e europei.

Il panorama delle film commission in Italia è molto eterogeneo e il loro ruolo specifico cambia da regione a regione. Questo ha creato e continuerà a creare un divario piuttosto incolmabile tra regioni che hanno privilegiato nell’ultimo decennio politiche attive per lo sviluppo di un settore cinematografico locale -tra cui primeggiano Puglia e Alto Adige, anche grazie a fondi di finanziamento cospicui dedicati- e regioni che non l’hanno fatto come il Veneto, la cui film commission esiste sulla carta come coordinamento di piccole film commission locali che non hanno fondi di finanziamento.

È abbastanza recente il lancio di “Veneto Film Network”, una piattaforma on-line il cui obiettivo è quello di creare una rete tra professionisti dell’audiovisivo, case di produzione e distribuzione e festival attivi sul territorio regionale, cercando di sopperire almeno in parte alle mancanze della film commission regionale.

Secondo me il ruolo principale di una film commission dovrebbe essere quello di permettere lo sviluppo del settore audiovisivo in un territorio, non solo rendendo quel territorio location cinematografica riconoscibile e motore di cineturismo, ma soprattutto investendo in formazione di maestranze e di figure professionali locali, come ad esempio i location scout e i location manager, figure anello di congiunzione tra la produzione e il territorio. In alcuni casi, oltre a ciò, le film commission, attraverso il proprio Fondo di finanziamento, cercano di attrarre produzioni anche da altri territori, creando un indotto puramente economico diretto e indiretto sul territorio.

Il ruolo dei festival è sempre più quello di una distribuzione alternativa, oltre che uno spazio promozionale. Negli ultimi anni i festival stanno avendo un ruolo importante anche nella produzione con fondi dedicati e laboratori. Già solo a livello italiano mi vengono in mente Torino Film Lab, Biennale College, Atelier di Milano Film Network e Doc at Work del Festival dei Popoli.

Inoltre i festival, piccoli o grandi che siano, offrono la possibilità di incontro tra professionisti del settore e offrono ai cineasti un confronto più diretto con il pubblico. Quindi hanno una forte valenza sociale oltre che culturale e anche i festival più piccoli e periferici andrebbero maggiormente sostenuti.

Una prospettiva sul documentario e sulle autrici

Nonostante negli ultimi anni ci siano stati dei segnali di apertura e di riconoscimento nei confronti del cinema documentario – basti pensare all’inclusione in concorso nei maggiori festival cinematografici come Venezia e Berlino e una maggiore distribuzione nelle sale cinematografiche -, ritengo che sia ancora un cinema difficile da produrre e soprattutto da distribuire. Credo che il problema sia culturale: il film documentario è ancora considerato anche da molti addetti ai lavori un film di serie B, una palestra per poi fare il grande salto nei film di finzione. La polemica accesa da Paolo Sorrentino a proposito della recente candidatura all’Oscar di Fuocammare di Gianfranco Rosi ne è un chiaro segnale.

Personalmente ho amato e apprezzato di più altri film di Rosi, come Below sea level e Boatman, ma ritengo comunque più che legittima la candidatura di Fuocammare, che, oltre ad avere qualità cinematografiche, ha goduto di un palcoscenico internazionale con la vittoria dell’Orso d’Oro a Berlino e ha portato sui grandi schermi il tema delle dolorose emigrazioni dei nostri giorni.

Un’autrice italiana che apprezzo molto è Costanza Quatriglio, regista di grande intelligenza e capacità, un po’ relegata alla nicchia, forse perché nella sua carriera si è dedicata soprattutto al cinema documentario o forse perché donna.

Sicuramente c’è un problema di discriminazione nel cinema italiano: le registe sono meno e meno conosciute dei colleghi di genere maschile, fanno più fatica a reperire finanziamenti e quando si lavora in coppia con uomini viene sempre menzionato per prima l’uomo (parlo anche per esperienza personale). Alcuni festival come Sguardi Altrove di Milano hanno il merito di portare alla luce del sole questa questione e di promuovere il cinema (in gran parte indipendente) a regia femminile.

In questo momento sto lavorando all’organizzazione della seconda edizione di “Working Title Film Festival”. Ho inoltre in cantiere (sono in fase di sviluppo) un film documentario sulla figura di Rocco Scotellaro, poeta, scrittore, ricercatore sociale, sindaco socialista di Tricarico (provincia di Matera), morto a trent’anni nel 1953.

Questo contributo è stato raccolto nel mese di ottobre 2016. Alle osservazioni della regista sono stati aggiunti solo i titoli introduttivi.

I dati sulle donne registe in Italia e all’estero sono stati analizzati per la prima volta da Alessio Galbiati (poi ripresi dal Mibact) e trovano conferma nel report pubblicato la scorsa settimana dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (qui l’executive summary). Il CNR sta conducendo ora uno studio che riguarderà anche altre professioni (aiuto regia, sceneggiatura, adattamento, direzione della fotografia e produzione).

Nel corso della presentazione del CNR al Festival di Torino sono state avanzate alcune richieste in materia di parità tra uomini e donne. Questo appello segue quello più articolato dal punto di vista della lotta alle discriminazioni elaborato dal collettivo PerUnCinemaDiverso. Lo stesso collettivo ha formulato insieme ad Anac e Writers Guild Italia alcune indicazioni per la stesura dei decreti attuativi della nuova legge sul cinema.

 

 

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Close