Un racconto da Bogotà sui passi di Michael Taussig

Un estratto dal diario di campo di Franco La Cecla da Bogotà.

Michael Taussig mi dà appuntamento di fronte al palazzone dove una volta c’era la redazione di “El Tiempo”. Lo rivedo a due settimane di distanza, quest’uomo di 78 anni, che cammina con un’apparenza fragile e nervosa allo stesso tempo, la sua bella faccia da ceco-australiano, il suo accento che in spagnolo tradisce New York. Quando lo avevo incontrato dieci anni fa tra Milano e Barcellona era un uomo molto bello e snello, alto, con un’aria di chi aveva attraversato il mondo e ne conosceva i bassifondi ma allo stesso tempo un raffinato scrittore. Accompagnato sempre da donne affascinanti e giovani, allora era Aisha un’indiana trentenne, a Palermo un’artista cilena quarantenne. Eppure qui capisco di lui un lato che potevo trovare solo qui. Quasi per caso al mare di Sferracavallo gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto seguirlo una volta in Colombia. Lui ci aveva pensato un attimo e poi aveva detto, «ma sì, c’è questo seminario residenziale a Cali sull’invisibilità, vieni ci arrangiamo in qualche modo».

E poi, inaspettatamente (perché dieci anni fa era stato molto brusco con me che per altro ero la persona che lo aveva fatto pubblicare per la prima volta in Italia) mi ha scritto ogni due giorni i dettagli di questo viaggio e ha “divulgato” la mia venuta qui ai suoi amici colombiani. Così quando appare alla esquina con la calle Jimenez, nel centro malandato e affollatissimo di Bogotà, sono molto timido io, mi sembra di non meritarmi da parte di questo uomo forte e fragile l’attenzione che mi dà.

Taussig è arrivato in Colombia nel ’68, con una compagna di allora che credo sia la madre dei suoi figli, e con un idealismo ma anche un coraggio straordinario e si è subito posto a lato del mondo dei neri della fascia rurale del Paese, e poi accanto alle lotte per le terre di indios e campesinos. Erano anni pericolosi – lo sono in parte ancora qui – ma lui spavaldamente ha condotto le sue ricerche. Era medico, si è reso utile, fin quando qualcuno lo ha avvertito che la polizia lo stava cercando e solo allora è venuto a Bogotà a cercare negli intellettuali e nella fascia alta della società qualcuno che potesse un minimo proteggere il suo lavoro, lui e la sua compagna. In realtà, come racconta in un capitolo di Corn Wolf sarebbe stato meglio restare invisibile là dov’era, tanto la polizia era andata a interrogare non lui, ma un altro Miguel, il panadero, il panettiere. Qui in Colombia ha lavorato da allora fino ad oggi, testimoniando le atrocità e allo stesso tempo cercando di capire questi mondi complessi, il potere, il narcotraffico, le Farc, i paramilitari, i minatori, la Colombia nera e india e scrivendo alcuni tra i libri più belli che l’antropologia abbia prodotto negli ultimi quarant’anni, portando qui Benjamin e Girard, Burroghs e Genet, Bataille e la grande cultura degli antropologi latinoamericani ed europei. Libri come Mimesis and Alterity, Shamanism, Colonialism and the Wild Man: a Study in Terror and Healing (questi due temi, terrore e cura, sono sempre stati al centro della sua attenzione: la violenza, ma anche la capacità di rovesciarla, di attivare la cura sciamanica per essa). E poi Il diavolo e il feticismo della merce, capolavoro dove Taussig ricostruisce il modo in cui i minatori neri si sono appropriati della mitologia religiosa occidentale ribaltandola, e dove applica a fondo la teoria del riflesso e controriflesso tra coloni e colonizzati, sviscerando Benjamin e Girard con un’abilità di lettura che, bisogna dire, i nostri filosofi benjaminiani non hanno.

Ma Taussig dalla sua ha l’immersione in una realtà terribile e complessa. Trovarmelo qui, che mi fa da guida alla sua Bogotà, mi impressiona. Mi misuro con le sue lunghe gambe rese incerte dall’età e però quest’uomo domani parte per andare in una delle zone più pericolose del Paese e poi mi raggiungerà a Cali. Mi ha parlato a Palermo e qui delle sue preoccupazioni. Hanno ricominciato ad ammazzare i leader sociali un po’ dappertutto, 300 uccisi nell’ultimo anno, proprio adesso che le Farc hanno abbandonato le armi e il governo parla di processo di pace. Ma qualcuno questo processo non lo vuole, e i giovani che avevano abbracciato le armi per poi abbandonarle oggi si trovano esposti come non mai. Il governo ha lanciato un programma di riabilitazione, di ministipendi per consentire a chi ha deposto le armi di imparare un lavoro, ma questa nuova violenza fa apparire il vero spettro della violenza, quei paramilitari sostenuti dal governo e dagli americani che hanno condotto gran parte dei massacri nel Paese, con la scusa di combattere il terrorismo. Una situazione complicata in un Paese bello e sanguinante. In Italia io avevo fatto pubblicare My Cocaine Museum, il libro in cui Taussig racconta il passaggio dall’Eldorado alla Cocaina e trasforma una visita al Museo dell’Oro incaico (bellissimo che qui è in centro) in una finestra per capire cosa sta accadendo qui e cosa la coca ha significato per le violenze, il potere, i corpi. E adesso è uscito in Italia il suo La bellezza e la bestia in cui racconta il grottesco mondo della chirurgia plastica che qui impera, come simbolo di ricchezza, tra tette e culi rifatti e facce rifatte per i narcos. Taussig è riuscito a entrare in questa realtà come pochi. Mi porta a mangiare in un ristorante argentino, poi a prendere un caffè al Centro Garcia Marquez. Mi ha detto di installarmi in un ostello qui alla Candelaria, l’area coloniale, piena di locali e malfamata nel vecchio centro di Bogotà. È protettivo, curioso dello spagnolo che parlo e mi racconta cosa faremo a Cali. Per una volta di più, ho il privilegio di attraversare la strada con un uomo più grande di me, più avanti negli anni, il privilegio di vedere cosa significa avere tanto vissuto, cosa è la ricchezza straordinaria di sguardo e di attenzione di un uomo come lui. E lui poi mi affiderà ai suoi amici che andremo a trovare insieme la sera nel quartiere Macarena che si arrampica verso i morros, le alture coperte di fittissimi boschi tropicali (ma siamo a 2500 metri). Qui conosco Juan Alvaro Echeverri e la sua sposa, Marta Triana. Lui è un antropologo che lavora nella selva con gli indios Huitoto e sulla loro complessa simbologia rituale basata sul tabacco. Di lui anni fa in un libro bellissimo sulle emozioni in amazzonia avevo letto un saggio sull’amore e la rabbia tra gli Huitoto. Che bello come le cose tornino, che bello che abbia servito avere una passione per l’antropologia. A cena arriva Jimmi Weiskopf un vecchietto macilento che mastica uno spagnolo con forte accento americano. Solo l’indomani capirò con che tipo di gente ho a che fare, Jimmy è uno di maggiori esperti di erbe allucinogene e di rituali connessi ad esse e del significato profondissimo dello Yajè, del nome dell’ayahuasca in indio. Non si tratta però della moda post-new age che impazza nel US e in Europa, ma di gente che ha vissuto e vive a contatto da decenni con gli sciamani della selva e della sierra. Jimmy ha scritto un libro di 500 pagine, Yajè, il nuovo Purgatorio. Quando saliamo sulla terrazza affollata di piante mi cedono l’amaca, e cominciano a parlare tra loro, Michael racconta dove sta andando, Juan Alvaro tira fuori da una boccetta un misto di tintura di tabacco e sale e me la fa assaggiare, Jimmy racconta della fatica a scrivere e a consumare quantità enormi di foglie di coca per stare sveglio. Sono immerso in un mondo che mi sembra quello che doveva aver sperimentato chi arrivava qui negli anni ’70, ma con una consapevolezza che allora non c’era. Il tabacco mi fa l’effetto di attenuare il jet lag e il soroche, il mal d’altura, e scioglie la mia lingua (e fa gorgogliare la pancia).

Qualche giorno dopo Marta e Juan Alvaro mi portano in campagna. Mi sento un po’ meno sperduto, mi piace la semplicità con la quale si occupano di me e i pezzi incredibili di esperienza che entrambi mi regalano, nascosti elegantemente nella curiosità nei miei confronti. Conosco un po’ meglio il paesaggio, meglio loro.

L’indomani mi affidano alla figlia di Marta, Maytik, che è una india, anzi una mestiza. La ragazza mi aspetta di fronte al Museo Nacional e con mia profonda sorpresa mi porta in giro per i mercati del quartiere la Macarena, dove parliamo di erbe medicinali, di frutta tropicale, di tipi di patate, di quello che la gente mangia quando ha poco da mangiare. Mi porta a mangiare in un altro mercato, La Perseverancia. Mi racconta la storia della chicha che è la bevanda di tutti, di mais fermentato, che il proprietario tedesco della Birreria Bavaria ha tentato per decenni di far dichiarare illegale, lui che ha il monopolio di tutta la distilleria della Colombia. Prima nessuno la voleva la sua birra, poi ha dato il nome di una eroina popolare fucilata nel 1817, Policarpa Salavarrieta Rios, a un tipo di essa, col diminuitivo con cui la donna veniva chiamata, la Poli.

Mi dice che però nei quartieri popolari tutti distillano ancora la chicha. Mi racconta delle passeggiate che fa con gli amici ambientalisti nella selva che circonda la città, ma sempre prima delle 9 del mattino. «Perché?» le chiedo. «Perché alle nove salgono nella selva i ladri, puntualissimi».

Mentre mangiamo al mercato mi rendo conto di avere di fronte una persona abbastanza fuori dal comune. È cresciuta nella selva, è una e il colore della sua pelle è moreno come lo è quello di molti indigeni, ma è vissuta a Hong Kong, parla italiano, portoghese, inglese e si occupa di parto nella medicina indigena tradizionale. Insomma è attraverso di lei che mi arriva il racconto. Lei è figlia del decennio rivoluzionario in cui sua mamma che appartiene a una grande famiglia locale è passata alla lotta accanto al movimento che chiedeva le terre per gli indios, affiliata al partito comunista, ha incontrato uno dei leader del movimento indigeno, è andata in carcere e in esilio, fin quando a vienna è nata lei. Come ogni buona storia di militanza i suoi si sono lasciati quando alla fine degli anni 80 il mondo comunista è scomparso. Il padre si è risposato con una stilista di moda a New York, la madre ha sposato Juan Alvaro che praticamente l’ha adottata. Ne è venuta fuori questa trentenne spavalda, forte, che mi porta in giro per gli orti urbani della favela che sta accanto alla Macarena e che più tardi mi porta a giocare lo sport nazionale colombiano il tejo, il tiro di un dischetto metallico di mezzo chilo contro un letto di fango distante una decina di metri. Mi racconta, mentre lanciamo di cosa significa essere mestiza qui, in un Paese abbastanza razzista ma del fatto che lei se ne frega abbastanza (il suo colore le permette di frequentare posti che a me sarebbero difficilmente aperti). Poi parla della macchia che ho io su una tempia e mi mostra la sua sulla fronte sotto i capelli e dice che da quella macchia al villaggio da cui proviene suo padre tirano fuori un sacco di significati.

Anche questo lo devo a Michael Taussig.

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