Torna Il mangiatore di carta di Edgardo Franzosini: una passeggiata in quattro tappe nel libro.
Siete di quelli che vanno in solluchero quando sentono il profumo della carta? Andate a dirlo a Johann Enrst Biren, se ne avete il coraggio!
“Ma è morto nel 1772!” potreste obiettare. Ebbene, è un dettaglio irrilevante, perché nel suo Il mangiatore di carta, Edgardo Franzosini ci mostra, fra le altre cose, come sia del tutto verosimile fare un giro nella Parigi di questi giorni e incontrare Balzac per farci due chiacchiere.
Chi è Biren? È lo scrivano di corte (svedese) protagonista della vicenda storica che Franzosini ricostruisce appunto ne Il mangiatore di carta, pubblicato nel 1989 e ora meritoriamente riportato in libreria da Sellerio. Un paio di anni fa, qui su il lavoro culturale abbiamo già tentato di presentare le opere di Franzosini a chi non le conoscesse ancora, e ora è finalmente possibile aggiungere a quella panoramica qualche parola su questo redivivo libro.
La caratteristica principale di Biren? Be’, il titolo del libro un qualche indizio lo dà. Ci basti aggiungere, per non rovinare troppo il gusto della lettura (ehm), che Biren, vissuto nel diciottesimo secolo, non si accontentava certo di mangiare carta di poco conto, ma preziosi trattati di pace – rigorosamente in copia unica – e assai cospicue quietanze, sempre in copia unica.
Edgardo Franzosini racconta come il suo interesse per la figura di Biren sia scaturito da alcune paginette apparentemente minori di Illusioni perdute di Balzac, in cui il nostro ghiotto scrivano fa capolino in alcune pagine e poi sgombra il campo troppo sbrigativamente. Per spiegare meglio questa fascinazione, Franzosini chiama in causa Roland Barthes e la sua raccomandazione a non lasciarsi sfuggire quei «passi trascurati» che sembrano non servire a molto per lo «svelamento dell’enigma o del destino» dei protagonisti dei grandi romanzi. È dunque seguendo lo stesso consiglio che possiamo fare un giretto attorno al suo romanzo, un giretto in quattro tappe: Maurice Sendak, Bartleby, l’inchiostro medio-orientale e Fabriano.
1. Maurice Sendak
Leggendo la vicenda del mangiatore di carta, torna in mente un episodio che raccontava Maurice Sendak, il grande disegnatore e scrittore di letteratura per l’infanzia, l’autore ad esempio del capolavoro Nel paese delle creature selvagge e colui che, per lavorare meglio a delle illustrazioni su di un libro di Herman Melville, chiese e ottenne di poter dormire per una notte nel suo letto.
Racconta Sendak: «Una volta un bambino mi mandò una cartolina con un suo piccolo disegno. Mi piacque molto. Rispondo a tutte le lettere che ricevo dai bambini – a volte molto frettolosamente – ma a quel caso dedicai più tempo del solito. Gli mandai una cartolina in cui disegnai una delle mie Bestie selvagge. Scrissi: “Caro Jim, la tua lettera mi è piaciuta molto”. Poi ricevetti una lettera da sua madre, che mi diceva: “Jim ha talmente tanto apprezzato la sua cartolina che l’ha mangiata”. È stato uno dei complimenti più belli che io abbia mai ricevuto. Non gli interessava niente di aver ricevuto un disegno originale di Maurice Sendak. Lo vide, gli piacque, lo mangiò».
È un aneddoto tenero e commovente, certo, ma – fosse vivo (però, ripeto, questo è un dettaglio secondario) – avremmo forse il dovere d’instillare in Sendak un dubbio: quel bambino era un suo appassionato fan o forse un moderno Biren stava crescendo?
2. Bartleby
Johann Enrst Biren era uno scrivano, dicevamo. E, se stiamo giocando una partita in un campo letterario, nessuno scrivano potrà sfuggire al paragone con il Bartleby di Herman Melville, soprattutto in chi considera il suo «I would prefer not to» più una bussola che una citazione letteraria. Quello fra Biren e Bartleby è, professione a parte, un accostamento pertinente?
Una volta scoperto, «sorpreso con il boccone ancora in gola, Biren non mostrò né costernazione né avvilimento. Arrestato, messo in catene, condotto alla prigione reale di Stoccolma, una sorta di fortezza militare in forma di gigantesco ottagono, non oppose alcuna resistenza». Inoltre, «la sua espressione è quella dell’agnello: dolce, domestica, interrogativa. Il sentimento della vergogna, della colpa, gli è sconosciuto». E, per finire, di fronte al suo ex datore di lavoro che lo va a trovare in cella proponendogli una soluzione per salvargli la vita, «Biren non disse una parola. Sorrise lievemente, abbassò gli occhi e si prese la testa tra le mani».
Da parte sua, Bartleby, scrivano a servizio di un avvocato nella Wall Strett dell’Ottocento, era un «uomo dall’aspetto singolarmente mite». Quando l’avvocato newyorkese sentì rispondersi per la prima volta da lui «preferirei di no», osservò che «il volto [di Bartleby] era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli». Melville ne descrive l’attitudine in termini di «signorile nonchalance cadaverica, ma nello stesso tempo risoluta e controllata». Era «innocuo e silenzioso come quelle vecchie sedie». Più il suo rifiuto si faceva inappellabile, più i suoi occhi erano «spenti e vitrei». Quando il padrone di casa decise di farlo arrestare per vagabondaggio, «il povero scrivano, avvertito che doveva essere tradotto alle Tombe [il carcere], non aveva opposto la minima resistenza, ma vi si era adeguato con la sua pallida, imperturbabile mansuetudine».
Quando Bartleby, «incline a una languida disperazione, chiuderà gli occhi per sempre», l’avvocato dirà di lui che sta dormendo «con i re e i consiglieri». Di re e consiglieri sapeva molto anche Biren, prima al loro servizio e poi, per uno di quei rocamboleschi rovesciamenti della storia, uno di loro. Certo, c’è sempre quel piccolo dettaglio: Biren è realmente esistito, Bartleby no. Ma, in primo luogo, abbiamo visto quanto questo sia così relativo, e, seconda cosa, dire che Bartleby non è mai esistito significa per certi versi negare l’esistenza di un anfratto oscuro e insieme luminoso dell’umanità, e no, non è il caso. «O Bartleby! O Biren! O umanità!» avrebbe aggiunto Melville alla famosa chiusa del suo racconto se avesse saputo della vicenda dello scrivano svedese.
A proposito, visto che stiamo parlando de Il mangiatore di carta, queste parole di Melville su Bartleby non possono lasciarci indifferenti: «eseguì una straordinaria mole di lavoro. Quasi fosse ingordo di avere qualcosa da copiare, pareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c’era pausa per digerirli».
3. L’inchiostro medio-orientale
Franzosini scrive che Biren era talmente esigente per la qualità dell’inchiostro che finì per produrselo da solo: «Col tempo, mai pienamente soddisfatto dell’inchiostro che gli provvedeva la corte, perfezionò un proprio composto in cui erano state mescolate un’oncia di vetriolo di ferro, tre once di noce di galla di quercia asiatica (proveniente di preferenza dalle città di Aleppo, Mossul e Bassora), un’oncia di legno del Brasile e infine quaranta once di aceto». Leggendo questo passaggio, anche a me è venuto da seguire il consiglio che Franzosini mutua da Barthes, ovvero quello di non prendere alla leggera i «passi trascurati». Ma in questo caso seguire è quel consiglio è stato motivo di tristezza e rabbia: quando ho letto i tre nomi di Aleppo, Mossul e Bassora, non ho potuto fare a meno di pensare al tragico presente che stanno vivendo quelle città e i loro abitanti.
Aleppo: città fra le principali vittime della guerra civile (se di guerra civile si tratta) in Siria, solo nella cosiddetta battaglia di Aleppo (2012-2016) si stima siano morte almeno 31.000 persone. È un cumulo di rovine.
Mossul: nella battaglia di Mossul dell’ottobre 2016, le forze irachene, francesi, americane e curde hanno lanciato un attacco per la “liberazione” della città dal cosiddetto Isis, operazione completata, per così dire, nel luglio scorso. Un tempo splendore, oggi anche Mossul è un cumulo di macerie che neanche Piranesi avrebbe mai potuto immaginare.
Bassora: la città irachena deve ancora risorgere dalle macerie dell’occupazione del 2003 e dell’assedio del 2008, e da tutte le altre sventure belliche di cui è ancora vittima. Ma anche la storia di Bassora contribuisce a mostrare come il verbo “risorgere”, da quelle parti, fatichi a trovare ragioni per essere addirittura pronunciato.
Franzosini racconta di come Johann Enrst Biren abbia mangiato un trattato di pace appena ottenuto dal diplomatico per cui lavorava come scrivano: quanti ne servirebbero oggi di quei trattati di pace, nelle terre da cui Biren riceveva le preziose materie prime per il suo inchiostro
4. Fabriano
La carta prodotta a Fabriano era ritenuta di grande qualità già ai tempi di Biren, tant’è che il nome della cittadina marchigiana fa più volte la sua comparsa fra le pagine de Il mangiatore di carta. Ad esempio: «Johann Ernst Biren solleva la penna e considera con attenzione la superficie del foglio. È carta prodotta nella città di Fabriano». Oppure, mentre Biren è in galera perché il suo vizio è stato scoperto, gli capita di catturare e inghiottire gli scarabei che entrano nella sua cella, probabilmente perché «qualche tempo addietro, da un venditore di carta di Fabriano ha sentito dire che nel suo paese (nel nostro paese) “scarabocchiare” vuole letteralmente significare: usare caratteri di scrittura simili a scarabei!»
Bene. Fabriano e la sua carta. Ma c’è un problema.
Arrivati alla fine di questa nuova edizione de Il mangiatore di carta – e per fine intendo proprio la pagina dopo l’indice e prima della lista degli altri titoli della collana di Sellerio «La memoria» – troviamo questa dicitura: «Questo volume è stato stampato su carta Grifo vergata delle Cartiere di Fabriano nel mese di ottobre 2017». Buon appetito.