L’hacking biopolitico de La Cura di Salvatore Iaconesi*.
È possibile avviare dei processi di elaborazione delle nostre esperienze, a partire da un riuso pubblico di dati e immagini? Le nostre tracce digitali hanno in sé potenzialità inespresse, tali da renderle disponibili a interventi diversi dall’analisi quantitativa e algoritmica?
La vita di ciascuno di noi è oggi inscindibile dall’enorme e costante flusso di tracce digitali che generiamo attraverso le nostre attività online o semplicemente in quanto co-abitanti di un’infosfera dove le tecnologie di tracciamento diventano al tempo stesso sempre più pervasive e sempre meno visibili. È del tutto illusorio credere che si possa sospendere il flusso: mentre restiamo immobili, chiusi in casa e disconnessi dai nostri dispositivi, un algoritmo sta elaborando nuovi dati relativi al tempo trascorso dal nostro ultimo acquisto o dall’ultimo controllo medico, che prenderanno, ad esempio, la forma di un’offerta commerciale personalizzata o dell’invito per uno screening gratuito.
Un’immagine che a nostro avviso ben rappresenta tale flusso è quella del “doppio”, o meglio del Data Doppelgänger. Lo sdoppiarsi non va inteso come duplicazione – anche parziale o frammentaria – dell’originale, ma piuttosto come un processo di sintesi intrinsecamente cooperativo tra uomo e tecnologie di tracciamento, che si presta a cristallizzarsi in differenti forme determinate, suscettibili a loro volta di nuove trasformazioni. Ciò significa innanzitutto che i dati digitali, tutt’altro che predeterminati e semplicemente “estratti”, sono invece sempre il frutto di un atto di mediazione e di montaggio.
Cosa avviene quando da un lato nel processo di sintesi è negata (ma potremmo meglio dire occultata) la presenza dell’uomo, e dall’altro i dati generati sono affidati ad automatismi algoritmici al fine di preservare e ottimizzare la vita umana? Cercheremo di trovare alcune risposte attraverso il caso in esame, che è stato il motore e l’inesauribile stimolo della nostra ricerca, ovvero La Cura di Salvatore Iaconesi.
Si può dire che la storia de La Cura prenda avvio da un’immagine e da un tentativo di dialogo: l’immagine è la radiografia cranica di Salvatore Iaconesi, interaction designer e hacker, il tentativo di dialogo è tra lui e il referente di quell’immagine, un tumore cerebrale localizzato nell’area del linguaggio. Ricoverato nell’agosto del 2012 in seguito a due crisi epilettiche, Iaconesi è sottoposto alla lunga serie di accertamenti previsti dai protocolli medici, che lo conducono infine alla diagnosi del cancro. Ciò di cui egli si rende conto, già dai primi giorni di degenza, è che il suo nuovo status di malato implicherà una sorta di sospensione della vita, non prevedendo la sua partecipazione in quanto essere umano complesso, ma semplicemente come “corpo da riparare”. È proprio per il desiderio di uscire da questa condizione di «paziente algoritmico», che egli chiede di avere un’immagine del suo cancro. La sua richiesta viene tuttavia apertamente respinta; l’unica via per lui sarà, allora, quella di dimettersi volontariamente dall’ospedale e fare richiesta per il rilascio della sua cartella clinica digitale. È a partire da questo momento che prende corpo il progetto de La Cura.
Una volta ottenuti i suoi dati, Iaconesi li converte in formati comuni e riutilizzabili e li pubblica online; contemporaneamente, registra un video su YouTube in cui invita chiunque a scaricarli, manipolarli e ricondividerli, in sostanza a sottoporli a un’operazione di montaggio, orientata a trovare una cura: «Grab the information about my disease, if you want, and give me a CURE: create a video, an artwork, a map, a text, a poem, a game, or try to find a solution for my health problem». Spostando il tumore dall’invisibile al visibile, il medium radiografico lo rende diagnosticabile e misurabile, proclamandosi al contempo assoluto garante della sua esistenza. Il suo valore documentale appare, dunque, indiscutibile. Ciò che, tuttavia, sembra rilevante chiedersi è cosa ne sia della capacità dell’immagine di “parlare” con lui di quest’evento, di aprire a uno spazio di elaborazione e di ricerca del suo senso.
La richiesta di una “cura” da parte di Iaconesi può essere interpretata secondo almeno tre piani: 1) una cura per lui stesso, cioè l’avvio di un percorso di elaborazione personale del suo trauma, che richiede di essere articolato intersoggettivamente; 2) una cura per le immagini e i dati, riabilitandone la prestazione referenziale e il valore testimoniale mediante nuove forme di «autenticazione» in Rete; 3) una cura per tutti, cioè la possibilità di un’inedita elaborazione storica del cancro (ma potremmo dire della malattia e della morte), a partire da un intervento creativo sulle sue tracce mediali. L’invito proposto da Iaconesi è quello di “giocare” con il contenuto della sua cartella clinica; eppure, a questa libertà creativa apparentemente illimitata egli pone un fondamentale vincolo, sebbene non esplicitandolo mai come tale: la cura, in qualunque forma avverrà, dovrà farlo uscire dalla condizione di «essere umano codificato attraverso la malattia». La reale minaccia a cui appare esposta La Cura non risiede, allora, tanto nel possibile insuccesso dei suoi tentativi creativi, quanto in una nuova chiusura del “varco” inaugurato dall’atto di hacking, nella ritorsione del processo in procedura, in sostanza nel ritorno di una verticalità codificata a discapito di un’orizzontalità aperta e potenzialmente priva di limiti.
Riteniamo, in generale, che – preso nella sua singolarità – ciascun tentativo di cura abbia optato tra due strategie, solo apparentemente opposte: 1) accogliere le immagini e i dati clinici esattamente per ciò che sono, provando cioè a interpretarli per fornire un concreto aiuto alla risoluzione della malattia; 2) distaccarsi da essi, nei modi più diversi e complessi, ma restandone inesorabilmente ancorati proprio in questo movimento di esclusione, incapace di “aprirsi al mondo” in modo davvero inedito. Nonostante ciò, il sito si configura come la risorsa aperta, sempre accessibile per una nuova elaborazione, e al tempo stesso come l’aggregato discontinuo di oggetti mediali diversi ed eterogenei, sulle cui differenze invita a porre lo sguardo e a interagire creativamente. Ne risulta un processo aperto, potenzialmente interminabile e dalle direzioni impreviste, destinato a non potersi mai risolvere in un successo o in un fallimento, ma che può soltanto attestare nel proprio corso l’esito dei differenti atti di montaggio. Se questi ultimi non sapranno assolvere al debito testimoniale posto dalle immagini e dai dati, potranno forse farsi carico in modo esemplare delle sue criticità e dei suoi aspetti paradossali, offrendo al contempo nuovi materiali pronti per successive elaborazioni.
Per quanto riguarda poi le possibilità di una “biopolitica affermativa” (una politica “della vita” e non “sulla vita”) potremmo vedere lo stesso gesto fondativo de La Cura come un particolare atto di montaggio, cioè l’introduzione di un operatore di discontinuità nella narrazione lineare in cui l’attuale cultura ha circoscritto l’esperienza della malattia e della morte. Questa sequenza non è stata demolita ma, attraverso un gesto di hacking, si è piuttosto “aperto un varco” verso una nuova rete di strade, contrassegnata sin dall’origine dalla provvisorietà, che non ci dà modo di quantificare il tragitto né di “geolocalizzare” la nostra posizione, ma ci invita piuttosto a proseguire la ricerca tracciando nuovi percorsi.
*[L’autore coglie quest’occasione per ringraziare Flavio Bauer e Arianna Calvieri, che hanno contribuito, in modo diverso ma ugualmente determinante, alla nascita di questo percorso di ricerca].
L’articolo completo è contenuto nell’ebook Dentro/Fuori. Il lavoro dell’immaginazione e le forme del montaggio. L’ebook, disponibile in diversi formati (epub, mobi e pdf), può essere scaricato gratuitamente o attraverso una donazione alla campagna di supporto #sostienilavoroculturale.
Il 12 novembre alle ore 17, l’ebook sarà presentato presso la Nomas Foundation di Roma (Via Somalia 33).
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