Arcobaleno, vita

Su Paul Graham.

Che cos’è un arcobaleno? È ciò che luce, acqua e occhio possono, insieme, animare tra cielo e terra. Non è un caso che la cosa veduta e quella che vede, confondendosi, si scambino il nome: iride, l’una e l’altra. È perciò che l’arcobaleno – l’accadimento sempre contingente e sempre stupefacente che meteorologia e ottica talvolta apparecchiano in cielo – è figura maggiore della foto-grafia, di quella scrittura – cioè di quella tecnica – della luce che ha che fare, in tutti i sensi, con il tempo e che ha per autore un occhio.

sanno di un bagliore che verrà
con dentro, a catena, tutti i colori della vita
– e sarà insostenibile
Vittorio Sereni, Pantomima terrestre

Is anyone as cruel as a normal person?
Arcade Fire

C’è sempre un giorno che il creato crea
se stesso e gli occhi e il modo di guardare
Alfonso Gatto

Se alcuni grandi maestri della fotografia ci hanno abituato a guardare alla disarmante qualsiesità di nostri e altrui paesaggi, all’insopportabile e malinconica presenza degli esseri umani che dunque siamo, tanto da costituire per certi versi una scuola dello sguardo diversamente posato sul banalmente dato e trovato, Paul Graham aggiunge, alle consuetudini già magistralmente immortalate, qualcosa che è più inaccettabile ancora. Egli pare infatti non accontentarsi della banale normalità di luoghi e persone, e a questa aggiunge la normalità degli attimi di vita, la normalità del tempo. Ma come? Il tempo, si dirà, non era forse già da sempre materia prima della fotografia, insieme alla luce? Sì, ma riuscire a metterlo in forma e declinarlo secondo un modo preciso, non è cosa da poco, né da tutti.

Che cosa c’è di più crudele della normalità?
Che cosa c’è di più crudele della normalità del tempo che scorre?

Con A Shimmer of Possibility prima (12 volumi pubblicati nel 2007 per MACK, progetto che si è guadagnato il Paris Photo Book Prize, nel 2011, come libro fotografico più significativo dei precedenti quindici anni) e poi in maniera ancor più magistrale con The Present (MACK, 2012), Paul Graham ha scelto di declinare il tempo, misurando e ripiegando la sua stoffa, illuminando l’opacità dell’adesso, il presente di vite che qui e ora scorrono, con una luce che ne rivela tutta la sublime, ordinaria tragicità, di esse come di ogni esistenza. “Luci mostruose” direbbe il Chekhov che ha ispirato Shimmer, bagliori di possibilità inespresse, quotidiane, intime, rifratte

dalla pioggia illuminata in controluce mentre un uomo, a Pittsburgh, taglia l’erba del suo prato o racchiuse nell’espressione del volto di una donna con gli occhi chiusi nel New England, in pigiama e pantofole davanti alla sua cassetta delle lettere. Luci che mostrano e nascondono, che illuminano e accecano: ogni fotografia di Graham è tragica perché è un enigma e una riserva di possibilità.

La luce nelle fotografie di Graham è tragica e crudele ma al contempo carica di grazia e bellezza (questo tema era già stato magnificamente e follemente esplorato attraverso le sovra- e le sottoesposizioni di American Night), avvolge attimi anodini per elevarli al rango di topoi dell’esistente ed è lei, drammatica e potente, a condurci attraverso i 12 volumi che costituiscono il progetto (raramente come in questo caso, la forza dell’insieme fotografico dipende quasi interamente dal progetto-libro).

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La luce e «nothing more»: tutto accade qui e ora, un qui e un ora non fissati, piuttosto perpetuati dallo scatto, insostenibile e necessario, poiché mostra tutto ciò che abbiamo, ovvero niente di più di questo e solo questo può essere dunque il nostro compito: «watch how the river comes up, flows smoothly around your presence, and gently reforms the other side like you were never there». Sublime e disperata è allora la vita. Nient’altro che la vita, in nessun altro modo essa può darsi, ma il bagliore che da essa irradia e illumina il possibile è accecante. Lo sguardo stra-ordinario, perché ultra-ordinario, di Graham fa coincidere questa vita con la fotografia: essa si svolge sotto questa luce e rigorosamente al presente e solo il medium che ne frantuma il tempo, che la sfaccetta, può rivelarla. L’occhio di Graham scruta dunque il tempo, vi si immerge, lo vede e lo fa vedere: il lavoro di The Present è tutto teso a conferire una materia visibile a ciò che, per eccellenza, non è sensibilmente percepibile e non è circoscrivibile in un concetto o in una definizione.
Dunque solo le immagini, queste immagini, restano.

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Un presente indefinito, poiché sempre aperto al possibile, e crudele, poiché esso non articola un senso, non ritiene l’attimo precedente e non prepara a quello che verrà. Nessun attimo è decisivo, perché ogni attimo in fondo lo è. I dittici e i trittici di The Present mostrano proprio le infinite possibilità che possono aprirsi in un istante, facendo esplodere ciò che veniva messo a tema già in Shimmer, e che a sua volta anticipava la questione fondamentale della temporalità della fotografia, di una fotografia che è fatta di tempo e che può arrivare a farcelo vedere.

Il tempo è dunque sospeso, è così che possiamo vederlo, si dirà guardando a questi scatti che mantengono l’inquadratura e lasciano lo sguardo indugiare tra i pochi secondi che separano l’uno dall’altro. Ma la sospensione implica uno scorrimento interrotto, un’attesa, un’incertezza, un’apprensione per qualcosa che verrà.

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Nelle foto di The Present invece il tempo non è arrestato, perché esso non è più concatenazione sensata di attimi, di un prima e un dopo che reciprocamente si conferiscono un significato: è forse piuttosto una sincope, una sfasatura di un ritmo costante, che accade anche perché l’obiettivo di Graham, qui e ora, la coglie.

Nient’altro che la vita dunque, che è fatta di luce e di tempo, forse di storie dalla trama slabbrata, riannodate qua e là tra loro, plurali e singolari, come uno dei dodici volumi di Shimmer che contiene una sola fotografia (dove quel personale mash-up di William Eggleston e Robert Adams di cui Graham parla, sembra risolversi a favore del primo), o come le inquadrature sdoppiate di The Present, abitate da consuetudini disparate.

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La fotografia è un impegno col mondo così come esso è, ci ricorda il fotografo inglese, e il compito che egli assume è dunque tragico ma necessario: Prometeo post-documentario, Graham forgia non già il genere umano ma il senso del suo mondo, “quando il mondo insignificante si trasforma in fotografia e […] queste fotografie si trasformano in un mondo significativo”.

Ma che cosa c’è allora di più crudele di questo, mostrarci sfacciatamente ciò che siamo per quello che siamo?

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Does Yellow Run Forever? è l’ultimo libro di Paul Graham e parla, cioè mostra, scrivendolo luminosamente, oltre a una dormiente e ai compro-oro sparsi per gli Stati Uniti, arcobaleni.

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È una serie di rara implausibilità che tuttavia cattura, lasciandoselo sfuggire, e proprio perché se lo lascia sfuggire, qualcosa del senso di ciò che capita quando ci guardiamo attorno. L’esercizio fotografico di Graham raggiunge – dopo capolavori assoluti come i già citati A Shimmer of Possibility e The Present (e la strafottenza dei titoli basti a dirne tutta la grandezza) – una sofisticazione ulteriore. Del presente, del sensibile e della vita non si dà ragione né racconto. Non perché essi eccedano il concetto, anzi: ma perché l’accadere, per essere detto, deve indeterminarsi, avventurosamente, con ciò che lo dice, con la tecnica che lo afferra e lo configura fino a esistere solo nel medio che li distingue e li tiene assieme.

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La vita non si separa mai da se stessa; essa si dà forma e si configura sempre diversamente. Graham non fa altro che esibire questi molteplici, contingenti, irragionevoli arrangiamenti normativi: forme di vita, modi di esistenza – non scene di vita. La fotografia non è specie diminuita del racconto, tranche de vie che sottrae, inquadrandolo, il discreto dell’evento dal continuo dell’accadere. Essa è la tecnica che piega e ripiega il tempo a forza di luce. La vita è istituita in immagine dal medio in cui tecnica e sensibilità, ancora e per sempre, si confessano indiscernibili. Il medio, e con esso l’immagine, è il luogo proprio – perché il più improprio (il medio è di nessuno) – della vita.

Non è un caso che tutta la poetica fotografica – se ce n’è una – di Graham (che in fondo non fa altro che ricusare ogni progetto, ogni organizzazione del sensibile, perché sa che esso è già destinato al tecnico, che l’uno è da sempre tramato dell’altro) abbia a che fare con nebbia, trasparenza, opacità: con l’intraguardabile e l’insostenibile. Perché in fondo chiedendosi quanto durerà, quanto terrà il giallo sta già rispondendo che l’arcobaleno non può essere traguardato. Esso segna il confine dell’accadere, che coincide, ogni volta, con una misura, che è una norma, di vita, con un colpo d’occhio, che è una ‘presa’, uno ‘scatto’, e con un evento.

La sua fotografia accede alla soglia del proprio-ora per restituirne la più idiosincratica – che è la più comune – delle ‘visioni’: il mondo per come è e la vita come viene.

Solo perciò lo stupore non ingenuo che incornicia l’occhio di Graham è dotato di un’eloquenza singolare. Esso espone una tesi, senza bisogno di dimostrarla. La fotografia è una procedura della vita: una tecnica che espone la vita; tra epanortosi e correctio: dove non c’è più nulla da medicare e tutto da sopportare.

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Ciò che si dà a vedere in queste immagini non è altro che potenza del qualunque. La fotografia di Graham non sottrae qualcosa al continuo della vita per renderlo discreto; o almeno: se lo rende discreto è solo perché con discrezione lo fa ‘continuare’ e sopravvivere nell’immagine. Esibendo così, della vita, dei sensi e dei colori e degli accadimenti la più intima natura tecnica, la più evidente consistenza mediale. La vita scontornata guadagna la possibilità di un senso soltanto perché può rimanere agganciata al possibile: quel possibile che la fotografia amplifica e moltiplica nell’infinità della mediazione che apre e mai compie.

Solo se si intenderanno con questa radicalità le immagini composte da Graham si capirà fino a che punto è in esse che si svolge una critica – che di essa ha però deposto stile e tono – delle forme – che sono il tempo e il modo – con cui apprendiamo ciò che ci sta attorno. Fotografare al tempo presente e nel modo del possibile vuol dire mostrare che non c’è mai niente di speciale e sempre tutto di saliente. È perciò che Graham è davvero l’autore di un’elegia potentissima – perché è struggente senza essere autentica, perché è fulgida e paziente e musicale – sulla ‘nothingness’, su quel nulla di speciale, su quel normale e modesto, che però è anche ciò in cui speriamo e ciò a cui teniamo, ciò che ci spaventa e ciò che temiamo, ciò che amiamo e non esaudiremo mai, che accade, su quegli eventi che sono eventi solo per chi a essi, più che di essi,è soggetto. Graham legge il tempo non sovrano nell’accadere di un arcobaleno, nel sonno e sogno di una donna, nell’impassibilità (questa sì, se si vuole, carica della più novecentesca politica) dei commerci e così facendo ci impartisce una formidabile lezione di etica: la facilità – tanto apparente quanto superficiale – del suo dettato sollecita la ferocia del sentimento non perché lo convoca in quanto tale, ma perché lo espone nel semplice e nell’irragionevole di un accadere e in tutto il possibile che in esso alberga.

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Queste foto non saranno mai cinema e non saranno mai narrativa. Queste foto non chiederanno didascalie, almeno se è vero che in esse non si mostra altro che la vita che viene e come viene, se in esse non si espone altro che ciò accade quando – apparentemente – non accade nulla. La prosodia della natura o la musica dei sogni o i muri di città conservano della vita tutta la potenza e dunque una promessa già esaudita: che non può che sopportare, inventandosi i modi e le forme, quello che le capita. Non c’è popolo né soggetto in questa fotografia: c’è solo, come un calco o come un negativo, una traccia di umanesimo abraso, che, distrattamente, resta, ma come già esausto in un altro impasto di naturale (organico e inorganico) che è cosmo. Non c’è sospetto né compassione: ma immersione nel dove si è. Come cristalli di significato possibile, le fotografie riscattano l’insignificanza senza farle la morale. Essa è già, tutta da svolgere, nell’immagine che la consegna alle parole di quanti la organizzeranno in senso per sé e per altri.

Quella di Graham è fotografia dell’indessicale puro che coincide con un attestato di anonimia radicale. Nulla a che vedere col “documentario”, col “reportage”: essa è a un tempo troppo singolare e troppo comune. Proprio io, proprio qui; eppure esonerato dall’identità (altri da me?), in nessun luogo (altrove?).

Le foto di Graham – opache anche quando non lo siano tecnicamente – suggeriscono che la creanza delle creature è ciò che l’occhio può sostenere: esso cioè può animare mondi, istituire l’energia per tenerli a galla. La vita che si istituisce in queste foto ha più a che fare con lo splendore del normale che con la trasfigurazione del banale. Perché – è la lezione degli arcobaleni, dei sogni e dell’oro – anche l’opaco, proprio l’opaco, è ciò che può davvero splendere.

 

Tanto semplice perché così vicina alla vita da confondersi con essa, così difficile perché esigentissima sapienza del medio: questo è il paradosso di Graham e il segreto (di Pulcinella) della sua fotografia. L’incoerenza e l’indecisione cessano, certo, a ogni ‘scatto’ e tuttavia esse si prolungano, come un alone, nell’aleatorio che l’immagine custodisce e che da essa si propaga. Il significato e il senso sono effetti della sorpresa che ci facciamo nel sostenere – rendendolo significativo per noi – tutto l’insignificante che ci circonda e che ci definisce. In fondo il mistero che avvolge queste fotografie è presto sciolto: in esse – ma quel che più conta: attraverso esse – l’insignificanza coincide essenzialmente con l’eccesso di senso (e di interpretazione e di forma; dunque di possibilità). E il medio fotografico altro non è se non la pietra filosofale che permette di scambiare l’infinito numero di significati che insistono nel mondo (e che lo rendono un mondo) con un che di sensato e significativo perché disponibile a divenire l’arredo – fosse anche solo immaginato – di una vita. Significativo è perciò il medio, sensata è dunque la forma. Né fatalismo né incanto: assunzione integrale dell’ambivalenza e dell’ambiguità di ogni forma di vita (o almeno: assunzione del fatto che ogni vita che abbia una forma non può che scontare ambivalenza e ambiguità; e ogni vita – per esser tale – è e ha una forma). Trovare però la giusta forma, così come l’immagine giusta, è una scommessa che non ammette criterio che non si istituisca insieme all’esperienza di cui esso sarà la misura. Perciò le fotografie di Graham parlano del mondo col mondo e del cielo col cielo. ‘Sulla terra non c’è che la terra’; oppure: oltre l’arcobaleno non c’è nulla se non un altro nulla che potrà essere solo diversamente vissuto da come già noi viviamo e vivremo quello che è il nostro e che altro non attende se non essere significato, fotografato – una volta ancora e nuovamente.

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Paul Graham

Fotografo inglese (1956), vive e lavora a New York. Figura maggiore della fotografia contemporanea, ha contribuito significativamente a rinnovarne temi e modalità. È stato tra i primi fotografi inglesi a fare uso del colore nell’ambito del reportage sociale, declinando da subito in maniera personalissima le specificità di questo linguaggio fotografico. Dai primi anni 2000 contribuisce costantemente al ripensamento di quella fotografia detta documentaria, ampliandone sensibilmente i confini e emendandone sempre le regole che l’hanno definita nel corso del tempo. Nei suoi progetti, un pensiero della fotografia e sulla fotografia si coniuga magistralmente con la pratica. La fotografia diventa con Graham, più che mai, un modo di pensare il mondo.

Ha esposto al MOMA, alla Tate Gallery, alla Whitechapel Gallery, a Arles per Les Rencontres d’Arles; i suoi ultimi libri sono pubblicati da MACK e ha ricevuto, tra gli altri, i seguenti prestigiosi premi internazionali: nel 2009, il Deutsche Börse Photography Prize, nel 2011 il Paris Photo Book Prize e nel 2012 l’ Hasselblad Award.

Nell’articolo citiamo e mostriamo: Does Yellow Run Forever? 2014, The Present, 2011, A Shimmer of Possibility, 2007. American Night, 2003. Tutti pubblicati da MACK, London.

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