A partire dai fatti di Ventimiglia del giugno scorso, proponiamo un colloquio con Fulvio Vassallo Paleologo che inaugura una piccola indagine sui dispositivi di accoglienza e respingimento dei migranti, in relazione alla configurazione delle frontiere europee.
Maddalena Fossi – Di fronte alle vicende di Ventimiglia ci si interroga sulla direzione che sta prendendo l’Europa rispetto alle politiche che riguardano i migranti. È un dato di fatto, ma pare sempre meno riconosciuto, che le persone si spostano sul territorio, come sempre nella storia e ancor di più oggi nel contesto dei fenomeni migratori post-coloniali delle nostre società contemporanee.
Come collocare i fatti di Ventimiglia all’interno di una riflessione sugli spazi tracciati dalle frontiere europee?
Fulvio Vassallo Paleologo – Difficile parlare di una sola Europa. Oggi l’Unione Europea è frammentata sia a livello centrale, con maggioranze variabili nel Parlamento Europeo e frequenti contrasti tra Commissione, Consiglio e Parlamento, sia tra Bruxelles, Strasburgo e le capitali europee dopo che in molti Paesi hanno vinto partiti nazionalisti (e apertamente xenofobi) che mettono in discussione tanto l’euro che la possibilità di una politica comune in materia di immigrazione e asilo.
Appare esemplare da questo punto di vista il percorso a ritroso del Piano Europeo per l’Immigrazione varato dalla Commissione il 13 maggio e approvato solo in minima parte dal Consiglio europeo del 25/26 giugno. Si è trovato un accordo solo sulle misure dirette al contrasto dell’immigrazione irregolare e alla lotta ai trafficanti. Invece le proposte sulla rilocazione in Europa di 40.000 profughi in due anni, e di resettlement dai Paesi di transito per altri 20.000 profughi da Paesi terzi, sono state approvate formalmente, ma sono ancora da definire nelle concrete modalità applicative.
Si doveva partire da una modifica del Regolamento Dublino III, almeno con la possibilità di un riconoscimento reciproco degli status di protezione da parte dei vari Paesi europei, come l’Italia chiedeva da un anno, ma si è rinviato tutto al 2016.
L’esempio emblematico di quanto stanno cambiando i controlli di frontiera si può cogliere proprio a Ventimiglia. Oltre che alle frontiere esterne dell’Unione Europea, oggi assistiamo a un inasprimento dei controlli anche alle frontiere interne dello spazio Schengen. Si corre il rischio che decisioni fondamentali che riguardano la vita delle persone siano assunte in frontiera dalle autorità amministrative, al di fuori dei principi consolidati dello stato di diritto. E potrebbero andare in crisi anche gli accordi bilaterali di riammissione, come nel caso di Italia e Francia l’accordo di Chambery.
Gli enormi spazi di discrezionalità affidati alle autorità amministrative nella “selezione” dei migranti da respingere hanno già prodotto respingimenti sommari e tentativi di riammissione di migranti irregolari già da tempo residenti in Francia.
La Carta dei Diritti dell’Unione Europea vieta qualsiasi respingimento collettivo. Non ci sono e non ci possono essere zone franche rispetto al principio di legalità e alla riserva di giurisdizione, non esistono in Europa terre di nessuno, zone di transito o sale di attesa, nelle quali le polizie possano limitare la libertà personale di circolazione con procedure sommarie impedendo alle persone l’accesso al territorio e a una procedura equa per il riconoscimento dello status di protezione e il conseguente inserimento nei sistemi nazionali di accoglienza.
M. F. – Quale relazione tra le nostre frontiere sempre più “strette” e l’idea di poter selezionare o filtrare chi le attraversa?
Da giornali e televisione sembra che si possa distinguere in modo chiaro le così dette “migrazioni economiche” da fenomeni di migrazione forzata o fuga da persecuzioni. Pare che sia possibile operare una distinzione di questo tipo al momento dell’ingresso in Europa, o che sia pensabile una selezione nei Paesi di partenza o di transito. Ma come si fa a tenere separati percorsi migratori che sempre di più portano con sé un intreccio complesso di ragioni di fuga, siano queste di tipo economico, bellico, ambientale, individuale? Davanti a una realtà così articolata, ci chiediamo: chi è un migrante economico? Chi è invece un richiedente asilo?
F. V. P. – Definire una persona come migrante economico può significare negare persino l’accesso alla procedura di richiesta di asilo, considerando che l’Italia non ha attivato servizi di informazione in frontiera e soprattutto non garantisce un immediato accesso alla medesima procedura. Il rischio è che chi non ha ancora lo status di richiedente asilo possa essere rinviato nel Paese di origine, se tale Paese è definito “paese terzo sicuro”. Il legislatore italiano non ha raccolto l’indicazione contenuta nelle Direttive europee per una lista di “paesi terzi sicuri” verso i quali respingere anche coloro che presentano una richiesta di asilo, ma la distinzione che si vorrebbe introdurre tra richiedenti asilo e migranti economici potrebbe preludere all’adozione surrettizia di una lista di Paesi dai quali potrebbero arrivare solo migranti economici.
Diventa sempre più cruciale il tema degli accordi di riammissione e di cooperazione pratica di polizia, condizione per l’esecuzione effettiva delle misure di allontanamento forzato e, in teoria, per un contrasto delle organizzazioni criminali che hanno base nei Paesi di transito. Sembra del resto definitivamente fallito il tentativo di esternalizzare il diritto di asilo e i campi di raccolta nei Paesi di transito, come si è tentato di fare nel 2011 in Tunisia. Di fatto i migranti tutti, senza alcuna distinzione tra cosiddetti migranti economici e (potenziali) richiedenti asilo, sono costretti a raggiungere l’Europa attraverso canali irregolari, nelle mani di trafficanti sempre più spietati, e seguendo rotte sempre diverse, a fronte dei muri e dei divieti che si moltiplicano ogni giorno alle frontiere esterne, ma anche a quelle interne, dello spazio Schengen.
M. F. – Chi sono i trafficanti? Durante il lavoro quotidiano nei servizi di accoglienza si ascoltano tante storie di fuga e migrazione, e la gran parte di queste raccontano le tappe di viaggi lunghi, faticosi e assai rischiosi. E costosi. Sono storie di debiti che chi viaggia si porta con sé nel Paese di arrivo. D’altra parte dai mezzi di informazione e dai dibattiti sul piano politico la figura del trafficante emerge forte ma assai opaca. Quali sono le relazioni tra un aumento generalizzato del controllo delle frontiere, la conseguente sempre maggiore difficoltà di accedere allo spazio europeo in modo sicuro e legale, e i fenomeni di traffico e tratta di esseri umani?
F. V. P. – Occorrerebbe prendere atto dei limiti della repressione penale di questi fenomeni, una repressione affidata ad apparati di polizia e giudiziari che non hanno certo intaccato il potere delle organizzazioni criminali che gestiscono la mobilità delle persone verso l’Europa, in totale assenza di canali legali di ingresso, né hanno costituito quel fattore dissuasivo delle partenze, che costituisce il vero obiettivo delle politiche europee in materia di immigrazione.
La via che si è prescelta, e che trova una sua immediata concretizzazione nel rilancio degli accordi di Rabat e di Cotonou e nel Processo di Khartoum, consiste in una nuova collaborazione con stati governati da dittature militari.
I nuovi rapporti di collaborazione e di scambio di informazione a livello di forze di polizia, che adesso vengono rilanciati a livello europeo da parte dell’Agenzia Frontex, rischiano di “bruciare” le vite di molti titolari di status di protezione e dei loro familiari. E non risulteranno di nessuna utilità per la tutela delle vittime del traffico e della tratta, che pure sarebbe doveroso garantire proprio in base alla normativa interna (artt. 18 Testo Unico sull’immigrazione 286 del 1998) e alle Convenzioni internazionali (come i Protocolli contro la tratta e il traffico allegati alla Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale).
Occorre capovolgere questa prospettiva, rivolta soltanto alla repressione della cosiddetta migrazione illegale, e attivare strumenti più efficaci per una individuazione delle vittime del traffico e della tratta, riconoscendo a coloro che sono costretti a ricorrere agli scafisti per salvarsi la vita, ad esempio a tutti coloro che provengono dalla Libia, un permesso di soggiorno per protezione umanitaria, e affinando per le vittime della tratta quelle misure di protezione che la carenza di finanziamenti e la discrezionalità delle questure hanno di fatto paralizzato.
M. F. – Buone pratiche. In Italia abbiamo un panorama variegato e spesso anche incoerente e disomogeneo per quanto riguarda le tipologie di progetti di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, le attività di monitoraggio e tutela dei diritti, le forme di collaborazione tra le amministrazioni, i soggetti privati o del terzo settore che gestiscono l’accoglienza e l’associazionismo.
Alla luce della sua esperienza personale e nel territorio che le è più familiare, potrebbe soffermarsi su un’esperienza locale positiva che merita di essere evidenziata?
F.V.P. – Questa è la domanda più difficile. Difficile rispondere con esempi positivi. Il sistema italiano di accoglienza si sdoppia. Da una parte le grosse imprese cooperative, quelle del sistema Mafia Capitale per intenderci che ha creato in molte regioni come la Sicilia situazioni di monopolio, esempio il mega CARA di Mineo e la rete dei centri gestiti dal Consorzio Il Solco in tutta la Sicilia. Si tratta di un sistema che ha dei vertici nazionali ma che opera anche attraverso una miriade di associazioni collegate e di enti locali collusi. Poi abbiamo una miriade di gestori convenzionati con le prefetture, per la gestione dei centri più piccoli come i CAS (centri di accoglienza straordinaria) sulla base di gare indette dai prefetti. Qui non è facile trovare buone pratiche. Spesso nelle strutture manca un qualsiasi presidio medico e il mediatore linguistico-culturale.
Altrettanto grave la situazione dei centri per minori stranieri non accompagnati. Carenza di personale e mancanza di professionalità, oltre a locali non a norma costituiscono la “regola”. In qualche struttura, addirittura, riescono a entrare anche i trafficanti che si propongono per un ulteriore trasferimento verso il nord Italia. Questo succede per la totale mancanza di controlli da parte di molte prefetture e per la mancanza di personale e di professionalità da parte dei gestori.
Se andiamo al sistema degli SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), qualche buona pratica non manca. Ad esempio, l’associazione “I Girasoli” che opera dal 2007 in provincia di Caltanissetta (Mazzarino) e da allora si occupa dei minori stranieri non accompagnati. Attualmente, l’associazione ospita venti ragazzi stranieri non accompagnati richiedenti asilo dai sedici ai diciotto anni che si avvalgono di un équipe specializzata e multidisciplinare composta da dieci operatori. Una differenza sostanziale con la maggior parte degli altri centri dove gli ospiti non trovano neppure un mediatore culturale o un consulente legale.
[Una forma più estesa di queste riflessioni si può leggere qui]