Via Almirante angolo Piazza della pacificazione nazionale

Il comune di Grosseto intitola una strada a Giorgio Almirante. Una strana idea di pacificazione nazionale, basata su pratiche di obliterazione della storia, passa anche per piccoli provvedimenti amministrativi. 

 

Sagrado è un piccolo comune di poco più di duemila abitanti conficcato nel cuore della provincia di Gorizia alle soglie della Bisiacaria, dove si parla uno dei dialetti frutto della fusione (a dominanza Serenissima) veneto-friulana. Si trova su un confine storico, quello tra l’Arciducato d’Austria e la Repubblica di Venezia.

Il 31 maggio 1972 i militari dei carabinieri Antonio Ferraro, Donato Poveromo, Franco Dongiovanni,  Angelo Tagliari, Giuseppe Zazzaro si portano con le loro gazzelle nei pressi di una strada statale a Peteano, frazione di Sagrado. Una telefonata nella notte alla stazione dei carabinieri di Gorizia aveva segnalato, in quella strada, un’auto con due fori di proiettile sul parabrezza. I primi tre carabinieri provano ad aprire il cofano rimanendo uccisi da un ordigno innescato dall’apertura. I responsabili sono esponenti dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo. Gli altri due carabinieri rimangono feriti gravemente. Uno dei coautori della strage, Carlo Cicuttini, esponente del Movimento Sociale Italiano, per mascherare la sua voce si fa operare alle corde vocali. Lo fa nella Spagna franchista, che lo proteggerà dall’estradizione. Nel racconto fatto nel 1984 dall’altro autore (reo confesso) della strage di Peteano, Vincenzo Vinciguerra, viene riportato come Giorgio Almirante avesse fatto pervenire 35.000 dollari a Cicuttini per quella operazione. Nel 1986, dopo il ritrovamento dei documenti che provavano le transazioni tra banca di Lugano, Banco di Bilbao e Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Enzo Pascoli furono rinviati a giudizio per favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti. Pascoli venne condannato, mentre Almirante si avvalse dell’immunità parlamentare fino a un’amnistia che gli permise di uscire dal processo.

Erano tempi in cui riconoscere e riconoscersi era una forma di lotta quotidiana. Giusto un anno dopo la strage di Peteano, il 21 giugno 1973, Almirante si ferma al Mottagrill di Cantagallo, sull’Autosole, e va alla cassa per chiedere un caffè. La risposta del cassiere “Lei è fascista, io non la servo” induce i sedici lavoratori dell’autogrill a incrociare le braccia senza dire né ahbah, e Almirante, furioso come il pelide Achille, deve togliere il disturbo. Il giorno successivo squadristi di Ordine Nuovo danneggiano l’autogrill i cui lavoratori nel frattempo vengono denunciati da Almirante. Alle spese processuali (i lavoratori verranno tutti assolti) contribuiscono anche i ricavi di un disco appositamente registrato dal Canzoniere delle Lame e venduto solo al Mottagrill.

                     

È notizia di lunedì 16 aprile che la maggioranza di centrodestra del consiglio comunale di Grosseto ha approvato, a pochi giorni dalla festa di Liberazione, una delibera con la quale si rinnova l’intitolazione di tre strade del capoluogo maremmano. Una a Giorgio Almirante, leader del Msi, una a Enrico Berlinguer, storico segretario del Pci, e una terza, che confluirà probabilmente in una piazza, alla “Pacificazione nazionale”. Il sindaco Vivarelli Colonna ha annunciato che la delibera rappresenta «un gesto di equilibrio, di apertura e di equidistanza, di superamento del conflitto ideologico che oramai ha stancato tutti». Gli ha dato manforte il portavoce provinciale di Fratelli d’Italia, Fabrizio Rossi, aggiungendo che l’intitolazione delle tre strade, di cui una a Giorgio Almirante, rappresenta il degno «coronamento del suo insegnamento politico, e un esempio da seguire». Hanno votato contro la mozione il PD e la lista Mascagni, i 5 stelle sono usciti dall’aula.

Perché soffermarsi su una delle tante piccole battaglie per la memoria, che nella provincia italiana passano per una strisciante e costante revisione sistematica della toponomastica? In fondo la  toponomastica è sin dall’inizio della nostra storia unitaria il campo di battaglia sul quale si consumano opzioni ideologiche contrapposte, scelte politiche, manipolazioni della memoria, operazioni di costruzione del consenso (si veda ad esempio il caso delle vie “coloniali” di Bologna). 

A Trani, ad esempio, via Almirante esiste già ed è collocata tra via Sandro Pertini, incarcerato dal fascismo, via Giuseppe Di Vittorio, condannato dal Tribunale speciale, perseguitato, espatriato in Francia, e via Giorgio Amendola confinato a Ponza dopo che suo padre Giovanni era morto a Cannes a causa dei pestaggi subiti dai fascisti. Ve ne sono diverse in Italia di via Almirante. A Civitanova Marche una l’hanno sostituita con Via Nelson Mandela: un militante africano contro il razzismo al posto di chi ha dato il suo nome al razzismo fascista.

Quali siano le battaglie politiche per cui si onora Giorgio Almirante con l’intitolazione di una strada non si comprende: e non possiamo pensare che siano quella per la reintroduzione della pena di morte, o la sua opposizione al divorzio e all’interruzione di gravidanza. E nemmeno le battaglie per il “non rinnegare e non restaurare”, slogan attraverso il quale non volle mai fare i conti col fascismo, nonostante la scelta compiuta dalla classe politica di consentire al suo partito di presentarsi alle elezioni e avere deputati e senatori.

Nella delibera grossetana, come in ognuna delle operazioni evocate, ci sono almeno tre diverse intenzioni, legate a tre modalità di rileggere la storia italiana dalla stagione di quelle che Pavone definiva le tre guerre (civile, patriottica e di classe) ad oggi. Come le Moire della mitologia greca, le implacabili figlie di Necessità chine a filare il destino delle anime: ognuna di queste intenzioni ha lo sguardo rivolto verso una diversa articolazione del continuum spazio-temporale.

La prima è rivolta al passato: utilizzare la “strategia della livella” per mettere sullo stesso piano fascisti e antifascisti, repubblichini e partigiani, omettendo il ruolo che i primi giocarono nei due anni della sanguinosa occupazione tedesca. La seconda è rivolta al presente: inserire nella crisi del sistema partitico tradizionale, nel lento declino del paradigma dell’“arco costituzionale”, uno storytelling post-ideologico, in cui le distinzioni nette non hanno più senso perché comune o almeno parallelo sarebbe il percorso dei miti fondativi di tutti gli schieramenti. La terza è infine l’intenzione più gravida di conseguenze, perché è quella rivolta al futuro: esprimere nella toponomastica l’idea di società che si vuole per il domani, una società pacificata, che ha sublimato nella convergenza delle prime due strade la possibilità di riconoscersi nella ricchezza e nella pluralità di posizioni presenti nel conflitto sociale, politico e storico da cui nasce la Costituzione (alla cui stesura però il movimento neofascista di Almirante non aveva partecipato e che sanciva e sancisce l’illegalità di un ritorno al fascismo partitico, in qualunque forma).

Cloto, alle origini della Pacificazione

Un primo effetto della scelta di intitolare due strade a due leader di partiti politici che durante la prima Repubblica si collocavano su posizioni antitetiche è quello di generare l’illusione dell’equivalenza. Rossi e neri sono tutti uguali, la guerra ci ha contrapposti, la Repubblica nata dalla guerra ci ha indistintamente riuniti. Come ha notato Nicoletta Bourbaki a proposito delle sue inchieste sulle manipolazioni fasciste delle voci di Wikipedia dedicate a eventi e personaggi rilevanti del 1943-’45, e come abbiamo già rilevato a proposito dell’eccidio nazifascista di Montemaggio e in altre occasioni di ricerca, questo tipo di equivalenza ha lo scopo preciso di semplificare fino alla banalizzazione il quadro storico della Resistenza, espungendo ad esempio il ruolo non certo trascurabile dell’occupante nazista.

Un’operazione di tal fatta, apparentemente molto raffinata, poggia in realtà su un assunto indimostrato, un mantra ripetuto fino alla nausea e interiorizzato da tutti i principali opinion makers, televisivi e non, del panorama italiano. Si tratta della retorica della memoria condivisa, della necessità di azzerare le identità e occultare le differenze per fornire al Paese una rappresentazione quanto più condivisibile degli eventi che seguirono il 25 luglio 1943. La conseguenza taciuta della retorica della memoria condivisa è l’eclissi della memoria collettiva, la possibilità di declinare il verbo “ricordare” al plurale. Perché se la prima «rimanda a un unico passato, cui nessuno può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia», l’altra «sembra presumere un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze».1

Se nel dibattito emergono documenti, prove, evidenze che attestano differenze, divisioni, contraddizioni, allora lo sguardo analitico viene esorcizzato, additato come divisivo e finanche violento, al punto da invocare il valore assoluto della Pacificazione. È in questo senso che la Pacificazione funziona in maniera analoga agli slogan blut und boden della cultura di destra primo novocentesca che Furio Jesi definiva «idee senza parole»2: retoriche celebrative, enfatiche, irrazionalistiche che giustificano posizioni e scelte politiche sacralizzando il passato.

Lachesi, storia non è memoria. Il destino di Giorgio Almirante

E allora andiamo a riprendere un vecchio processo e un documento che proviene dagli archivi di Massa Marittima, in provincia di Grosseto, e trovato da alcuni storici dell’università di Pisa nell’estate del 1971. È un manifesto cartaceo fatto affiggere sui muri dei comuni grandi e piccoli della Toscana meridionale, datato maggio 1944. A grossi caratteri fu trascritto l’ultimatum di Mussolini che disponeva la fucilazione di tutti coloro che, avendo scelto la lotta partigiana, non si fossero consegnati entro la mezzanotte del 25 maggio alle autorità nazifasciste. Chi era andato a rendere più forte l’esercito di Liberazione, chi si apprestava a provare a sconfiggere il nazifascismo con le armi, avrebbe dunque dovuto riconoscere il “grave errore” e scendere dalle montagne per combattere e collaborare coi nazisti che occupavano tutto il loro territorio, l’alternativa sarebbe stata la morte mediante “fucilazione nella schiena”.

Il manifesto trovato negli archivi dagli storici e pubblicato da l’Unità era firmato da Giorgio Almirante che, allora, era capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma ministro del MinCulPop, il ministero della Cultura Popolare, strumento del consenso e della manipolazione dell’ultimo periodo fascista. Mezzasoma aveva fatto parte del gruppo di animatori della Scuola di mistica fascista, e dei suoi Quaderni che con l’obiettivo di “forgiare” la nuova classe dirigente littoria, contribuivano alla diffusione del razzismo. Almirante stesso non era estraneo al razzismo biologico. Da protagonista aveva portato avanti la triste campagna di promozione delle leggi razziali, la più triste della storia italiana contemporanea. Fu segretario di redazione de La Difesa della Razza, il megafono del razzismo di Stato.

Dopo la pubblicazione del manifesto con l’ultimatum ai partigiani da parte de L’Unità (27 giugno 1971) Almirante – inaugurando una pratica che farà scuola fra i suoi eredi politici – querela, dichiarando la falsità del manifesto e negando di avere apposto la sua firma a una minaccia istituzionale di morte e a un contributo attivo alla repressione anti-partigiana.  Nega di avere aiutato il nazismo da fascista. Parte allora un processo per diffamazione a Luciana Castellina e a Carlo Ricchini (del Manifesto e de L’Unità, che avevano pubblicato nel frattempo il documento) in cui la difesa Almirante prima nega, poi prosegue con manovre dilatorie di ogni tipo. 

Quando in aula entra Rizzago Radi, sindaco di Massa Marittima, e con calma espone davanti ai giudici l’originale del documento firmato da Almirante, il decreto mussoliniano di morte ai partigiani, si comprende che per il capo del MSI non ci sono dichiarazioni o smentite che tengano.

Il sindaco di Massa aveva iniziato la sua attività partigiana proprio all’inizio di quel maggio 1944 e ora quasi trent’anni dopo si trovava, da primo cittadino della sua comunità, di fronte a colui che aveva firmato la minaccia della sua condanna a morte.

Non basta, perché nell’estate del 1974, durante una delle udienze arriva un’altra conferma documentaria: un telegramma datato 8 maggio 1944 spedito dal MinCulPop alla prefettura di Lucca che riproduce esattamente il manifesto: la firma è “Giorgio Almirante”.

L’8 maggio 1978 arriva la sentenza della Cassazione che assolve pienamente l’Unità per aver dimostrato in modo documentato quanto riportato nell’articolo contro cui Almirante si era scagliato. Oggi le carte del processo penale sono conservate, dopo la donazione di Carlo Ricchini nel 2006, presso l’Istitituto Storico grossetano della Resistenza. Ancora di questi tempi qualcuno prova a sostenere il contrario negando anche qualsivoglia legame fra Almirante e il razzismo nonostante la facilità di riscontrare alcuni suoi articoli:

[…] altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue.

«La Difesa della razza» 5 maggio 1942

Atropo, o di come scenderà l’oblio

La delibera del comune di Grosseto non è certo l’unica nel suo genere. La mistificazione del passato di Almirante, la sua trasfigurazione in nume tutelare e benevolo spalleggiatore dei padri costituenti serpeggia nella ripetizione meccanica dell’aneddotica della prima Repubblica, si trascina stancamente negli sfondoni storiografici dei cacicchi di partito, nella loro cultura fatta di documentari e narrazioni giornalistiche. Si ripetono storielle edulcoranti per rassicurare, per dire che tutto va bene, per derubricare il fascismo nel cestino del non riciclabile. Eppure, la strategia della “costituzionalizzazione” di un partito come il Movimento Sociale ha prodotto nel lungo periodo non tanto la sublimazione della cultura politica fascista in un’invocata “destra moderna” quanto una lenta normalizzazione di parole, gesti, memorie nostalgiche di quella pagina buia della nostra storia. Come scriveva Carlo Levi nel 1952, i fascisti che avevano aderito al Movimento Sociale credevano in una sorta di miracoloso carnevale, «il sogno di un capovolgimento irrazionale nel quale essi possano, per miracolo, diventare i primi, i capi o i fedeli seguaci di capi onnipotenti». Se questo impossibile rovesciamento non ha mai avuto luogo nella storia della prima Repubblica, oggi ricompare nella sua volgarità simbolica laddove meglio può albergare il rimosso della classe dirigente parlamentare: i bagni degli uomini di Montecitorio.

Un giorno qualcuno abiterà in piazza della Pacificazione, a Grosseto. Magari una famiglia di italiani di seconda generazione, madre, padre, il figlio più grande sedicenne. Il ragazzo probabilmente non capirà a cosa si riferisca la Pacificazione di cui parla la targa. Penserà a guerre e catastrofi lontane, simili a quelle che gli raccontavano i suoi nonni, venuti da luoghi altrettanto remoti. Speriamo che questo ragazzo ascolti buona musica, abbia tanti amici e sia un buon writer. E che imbratti con le sue bombolette il decoro osceno di piazza della Pacificazione.   

                       

 

Questa sera all’ingresso del Teatro dei Rozzi di Siena in occasione dello spettacolo della compagnia La Lut in memoria del partigiano Vittorio Meoni, Stringiti a me, sarà possibile aderire all’iniziativa di raccolta firme dell’Anpi Mai più fascismi, perché le istituzioni repubblicane mettano in pratiche misure concrete di sostegno alla giustizia sociale, alla formazione e alla memoria e di contrasto alle organizzazioni che si richiamano alla dittatura italiana degli anni Venti e Trenta. 

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Note

  1. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, p. 23.
  2. È possibile leggere il richiamo alla Pacificazione nazionale come «mito tecnicizzato»; per un approfondimento cfr. E. Manera, Memoria, violenza, scrittura: la «macchina mitologica» in Jesi, in (a cura di) G. Leghissa ed E. Manera, Filosofie del mito nel Novecento, pp. 229-238.
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