Quattro autori, quattro libri: la letteratura francese appena tradotta in Italia
Nel giro di poche settimane sono arrivati in traduzione italiana quattro libri francesi (tra gli altri) che sono testimonianza della variegata vitalità della letteratura d’Oltralpe sia nel corso della seconda metà del Novecento che negli ultimi anni (e tra poco sarà disponibile il formidabile e tragico libro di Philippe Lançon Le lambeau, tradotto da Edizioni e/o con il titolo La traversata). Ancor più interessante è che questi libri, in particolare due, siano stati pubblicati da piccoli editori: si tratta dell’ennesima testimonianza del grande lavoro fatto sulla narrativa da case editrici coraggiose e certamente in grado di muoversi con grande abilità tra le letterature straniere.
Gli argomenti di questi libri, non tutti recenti, sono certo differenti e poco hanno in comune, anche se a emergere da ognuno di essi, seppure in maniera molto diversificata, è una sorta di disagio verso il reale che assume ogni volta un carattere d’invenzione diverso, ma che pure quando pare allontanarsi dalla realtà, immediatamente ne richiama le fratture e i problemi in chiave trasfigurata.
Pierre Jourde insegna letteratura francese all’Università di Grenoble, specialista di letteratura di fine Ottocento, ed è considerato in Francia uno degli scrittori più autorevoli, pubblicato da tempo nella nobile “Blanche” delle edizioni Gallimard. Come sottolinea Claudio Galderisi nella sua introduzione a Paese perduto (pubblicato da Prehistorica con la traduzione dello stesso Galderisi), chi si trova tra le mani questo libro, il primo tradotto in italiano, può trovare alcuni dei luoghi centrali dell’opera di Jourde: in un suo saggio, La littérature sans estomac, che gli costò anche una “scomunica” su «Le Monde», lo scrittore criticava il sedicente salotto buono della letteratura francese contemporanea e in questo romanzo si può ritrovare «l’illustrazione delle tesi estetiche e letterarie che l’universitario aveva difeso con una vis polemica coinvolgente nella sua opera critica», in quanto tutti i riferimenti classici del romanzo contemporaneo non ci sono, o sono messi sottosopra, a dimostrazione di una vitalità che può staccarsi dai cliché.
Paese perduto sembra infatti richiamare più le antiche tragedie, seppure con le unità aristoteliche un poco dilatate: nel giro di due giorni due fratelli si recano per un sopralluogo in un rudere nel paese fittizio di Fauconde, ma lì saranno risucchiati dall’evento della morte di una giovane ragazza e vivranno i momenti che intercorrono tra la sua veglia funebre e il funerale. Il racconto di questo distaccamento dalla città a favore di luoghi di campagna sperduti, è il modo attraverso il quale Jourde descrive la fine del mondo contadino, abbandonato e divorato dal tempo, una distruzione narrata con un linguaggio aspro e a tratti violento. Questo perpetuo disfacimento trova qui un’esemplare rappresentazione nel contrasto tra la giovane ragazza scomparsa e gli anziani che ne vegliano il corpo. Le loro pelli dure e segnate, i loro corpi piegati e martoriati dalla fatica, sono gli ultimi singulti di un luogo che si sta decomponendo e non ha possibilità di salvezza.
Jean Malaquais è invece uno scrittore del secolo scorso, nato nel 1908 e morto novanta anni dopo, di origina polacca: il suo romanzo La città senza cielo (pubblicato dalle edizioni Cliquot con la traduzione di Elisabetta Garieri e arricchito dalla bella prefazione del 1974 di Norman Mailer), nonostante sia stato pubblicato per la prima volta nel 1953, sta avendo anche in Francia una decisa riscoperta grazie a una recente ripubblicazione. Si tratta di un romanzo distopico che trae ispirazione anche dalle vicende dell’autore: negli anni della seconda guerra mondiale infatti Malaquais fu prigioniero dei tedeschi, riuscì a lasciare la Francia senza passaporto e arrivò in Spagna dove dovette però fuggire nuovamente dai nazisti perché ebreo, fino a rifugiarsi in Sud America come esule.
La vicenda di La città senza cielo è impressionante per la sua capacità di anticipare i tempi: il suo orrendo mondo di palazzoni altissimi, computer sempre più invasivi e uomini e donne che mirano perennemente a un culto narcisistico sono ciò che crea un cortocircuito nella mente del protagonista Pierre Javelin: solo il pensiero che tutto questo possa non essere normale lo porta a perdere tutto, anche la sua identità. Malaquais descrive questa terribile esperienza di scomparsa del protagonista che si trova coinvolto in complesse baruffe burocratiche o in incontri incomprensibili, un’esperienza che sfocia presto in un irrazionale che ricorda Kafka e Orwell (forse il vero riferimento di questo libro), «una pura e semplice ricerca dell’identità, quell’identità che tutti quanti sentiamo svanire nelle grandi e oscure fauci del tempo».
Di Régis Jauffret non ci dovrebbe essere molto da dire: tradotto in Italia con costanza grazie alla pregevole attività delle Edizoni Clichy (imperdibile è, almeno, il romanzo I cannibali), torna in libreria con quello che è il suo libro più sperimentale e dirompente, Microfictions (tradotto in maniera formidabile da Tommaso Gurrieri), un volume composta da 500 piccoli romanzi, o brevissimi racconti, di due pagine ciascuno.
È interessante l’operazione compiuta da Jauffret che con Microfictions scrive un libro post-moderno che nasce dall’unione della brevità della comunicazione dei tempi contemporanei e l’ampiezza e il mondo variegato del romanzo novecentesco. Ciò che certamente risulta dalla lettura è il fine che si impone Jauffret, che nelle cinquecento vite che traspone sulla pagina tenta di descrivere la vita nella sua interezza, le varie declinazioni che prendono gli animi degli esseri umani, le perversioni e le bellezze dell’esistenza, le conseguenze del mentire e del fallire, i semi dell’odio e dell’amore, la dolcezza di essere amati e il dolore di odiare. Microfictions è un libro subdolo, che nella brevità delle sue storie emana in realtà un veleno fastidioso e perpetuo nel lettore, che pagina dopo pagina scivola in una dissoluzione delle certezze e delle comodità che costellano la sua vita: un libro che necessita di essere letto e digerito e che può, come tutti i grandi libri, aprire a nuove visioni della realtà una volta concluso.
Si segnala infine il romanzo di Bertrand Leclair, Malintesi, pubblicato da Quodlibet con la traduzione, al solito molto precisa, di Marco Lapenna: il romanzo parla della sordità, un tema che in Malintesi viene indagato uno spunto autobiografico (poiché la figlia dello scrittore è sorda, «Quando ho scoperto che mia figlia era sorda, la mia prima reazione è stata di scrivere per salvarmi da quella che all’epoca mi sembrava una tragedia. Ma non ero pronto, e ho abbandonato, dedicandomi ad altri progetti» ha detto l’autore) e una parte di invenzione, poiché la vicenda del romanzo ha come protagonista un ragazzo sordo nato negli anni Sessanta. Al di là della già segnalata rarità di questo tema in letteratura, questo libro assume la forma di una lunga indagine sull’isolamento che rischia di dettare questa condizione, ma anche sul disorientamento che una simile notizia può portare negli equilibri di una famiglia e sul valore della lingua dei segni (un tema per alcuni versi sconosciuto ai più, ma la cui storia viene qui ripercorsa con dovizia di particolari dallo scrittore).
Nel raccontare una storia simile il registro dello scrittore sarebbe potuto certo scivolare nel patetico, ma invece Leclair, e qui sta una grande dimostrazione della sua abilità di scrittore, sceglie una lingua analitica e un modo di procedere molto limpido, elementi che garantiscono al romanzo una dose di oggettività che non può che arricchirne il valore. Interessante è infine la forma che questo libro assume, sospesa appunto tra l’invenzione e il racconto obliquamente autobiografico e che si nutre anche di innesti simil-saggistici, come nelle parti in cui l’autore si muove tra le varie rappresentazioni della sordità in letteratura.