Su “Il ritorno del Barone Wenckheim” (Bompiani), di László Krasznahorkai.
Una delle cose che, volendo, possiamo chiedere cortesemente alla letteratura è un aiuto per riflettere sul rapporto fra l’idea di una comunità che si disgrega e quella di un mondo che si decompone. In caso, citofonare Krasznahorkai.
In un’intervista alla Paris Review, lo scrittore ungherese (qui una prima visione d’insieme del suo percorso) ha dichiarato: «Ho già detto mille volte che ho sempre voluto scrivere solo un libro. Ora, con il Barone, posso mettere fine a questa storia. Con questo romanzo ho la prova che tutto ciò che ho realmente scritto in vita mia è solo un libro. E il libro è questo: Satantango, Melancolia della resistenza, Guerra e guerra e Il ritorno del Barone di Wenckheim. È questo il mio libro unico». Se prendiamo sul serio l’indicazione dell’autore secondo cui questi quattro romanzi costituirebbero un’unica opera, Il ritorno del barone di Wenckheim– da poco pubblicato da Bompiani, nella titanica traduzione di Dóra Várnai – chiuderebbe allora il cerchio ricollegandosi direttamente al primo, Satantango. Del resto, potremmo considerare che il tema ricorrente nelle opere di László Krasznahokai è quello di un villaggio ungherese dove sta per tornare qualcuno, e in effetti Satantango avrebbe potuto chiamarsi Il ritorno di Irimiás, così come Melancolia della resistenza avrebbe potuto essere Il ritorno del Principe, e così via.
Ma, a vederlo da tale prospettiva unitaria, Il ritorno del Barone di Wenckheim, appare forse come l’anello più debole delle quattro parti di questo ciclo romanzesco. Rimane da capire se e quanto tale presunta debolezza sia un effetto inevitabile, se non auspicabile, del meraviglioso sforzo romanzesco di Krasznahorkai: non solo la capacità di creare mondi come quelli in cui ci immerge con le sue opere, ma perfino di normalizzarli, con tutti gli effetti collaterali del caso.
La scena iniziale del Barone, dopo il bel prologo in forma di Avvertenza a sfondo musicale, è una ragazza che, con un cartello in mano e circondata da giornalisti locali, staziona inamovibile, giorno e notte e senza una chiara rivendicazione, di fronte al capanno dove si è asserragliato suo padre, il Professore. Quest’ultimo, biologo di fama e maggior esperto mondiale di muschi, è impegnato in un ostinato tentativo di autoimmunizzazione contro la nostra insopprimibile e malsana tendenza al pensiero. Fa da tempo una vita da senzatetto.
Intanto, in quello stesso villaggio, sta per accadere qualcosa che crea molto subbuglio: sta per tornare il barone Wenckheim. Arriva da Buenos Aires, dopo che i suoi parenti hanno riscattato i suoi enormi debiti di gioco. Ha fra i sessanta e settant’anni di età, anche se ne mostra ben di più. Alto, goffo e pallido, timido e spaventato. La sua famiglia se ne vergogna: gli comprano abiti raffinati e gli ingiungono di non farsi più vedere. Eppure, al villaggio sono tutti convinti che sia ancora molto facoltoso e che le sue ricchezze ricadranno trionfalmente su tutta l’economia locale, attirandogli peraltro tutti i più incalliti scrocconi locali: «forse ciò suonerà inusuale a voi, che siete abituati alla cosiddetta ‘democrazia’, ma dovete prendere atto che da oggi qui il signore è lui». È per questo che, in una delle scene più riuscite del romanzo, l’arrivo in treno alla stazione del villaggio sarà un evento memorabile, memorabile ovvero disastroso.
Ambientate nell’Ungheria dei nostri tempi, le storie del professore e del barone scorrono per lo più parallelamente: il primo è recluso nella sua capanna in mezzo al bosco, il secondo è invece costretto a una socialità che eviterebbe molto volentieri. Il romanzo è attraversato dalla malinconia di quest’ultimo, che non riconosce niente di quel che lo circondano e di quel che gli mostrano. Di quel che ricordava di quel posto non è rimasto niente. Ma al barone del villaggio e della sua fama non interessa niente: «Ho dimenticato il momento in cui a diciannove anni ho dovuto abbandonare questa città e questo paese, un solo punto fermo era rimasto nella mia vita, un punto a cui tenevo tantissimo, a cui mi aggrappavo, e quel punto era Marietta». È la malinconia di un amore mai dimenticato, un amore di cui intuiamo il potere distruttivo lungo tutto il corso della vita del barone prima del ritorno. Arrivato al villaggio, cerca solo lei, e la vicenda del loro amore mancato e rinviato per decenni si conclude nell’unica maniera possibile: quando finalmente avviene il tanto sospirato incontro, il barone neanche la riconosce.
Le storie del professore e del barone vengono incrociate da quelle dei personaggi che le incrociano: il sindaco, direttore della biblioteca, il preside, Stellina e gli altri energumeni locali, bikers neonazisti, il direttore del giornale, Dóra, il capitano di polizia, e una pletora di ciarlatani, e gente mezza svitata e temibile. Il tutto scorre fra articoli anonimi di disprezzo per gli ungheresi inviati al giornale locale, omicidi, esplosioni la storia, fino a una passeggiata finale nel bosco, suo luogo d’infanzia dove, sperava il barone, sarebbe finalmente riuscito – forse – a decidere cosa fare di sé stesso.
In tutto questo, la sensazione è che i personaggi che appaiono in questo libro, che si è recentemente aggiudicato il National Book Award per la letteratura straniera, siano incastrati nel limbo fra una sorta di trascendenza normalizzante e il ridicolo di noi esseri terrestri. E in quel limbo appaiono ancora più goffi, irrisolti e strutturalmente incapaci ad adattarsi al caos che regola i mondi di Krasznahorkai, che a volte sembra metterli in quelle situazioni e guardarli più sghignazzando che compatendoli. Postura legittima e talvolta feconda, certo. Li spaventa e poi li deride, come un bullo: «perché nient’altro che la paura, nient’altro costituisce una forza così immensamente e terribilmente grande, perché oltre alla paura nient’altro è in grado di determinar alcunché negli universi organici e inorganici».
Ci sono spesso momenti in cui pare in arrivo una svolta: «si era congelata la vita del bar per un attimo, perché quell’attimo si era in qualche modo incrinato – come se si fosse sprigionata una pesante, oscura, terribile paura, una paura che travolgeva tutto ciò che esisteva». Veniamo preparati a cose che però non avvengono quasi mai e che, quelle volte che avvengono, mai possono essere spiegate nemmeno secondo i peculiari rapporti di causalità instaurati entro il mondo di questo romanzo. La molla viene caricata fino a collassare senza nessuno scatto, e l’attesa dell’evento non si fa banalmente essa stessa evento: rimane solo «la paura del fatto che un’esistenza non ci sarà più».
La polifonia del romanzo si compone delle frasi lunghe e articolate a cui ci ha già felicemente abituati Krasznahorkai – c’è di che esser molto grati, di nuovo, alla traduttrice Dóra Várnai – e che contribuiscono all’effetto ipnotico del romanzo. È anche a questo effetto che dobbiamo la capacità di Krasznahorkai d’immergerci nei suoi mondi oscuri, in società tristemente derelitte ma comicamente apocalittiche. Eppure, stavolta l’impressione dominante è che, a differenza degli altri libri di questa dichiarata tetralogia o opera unica, il goffo non si trasformi mai in grottesco, che l’incongruo non diventi mai in felice sfasatura, e che la lente deformante non deformi abbastanza. Per chi ha già fatto l’esperienza di lettura dei libri di Krasznahorkai, la sensazione che forse ormai manca è lo sfasamento fra il nostro mondo e i suoi, come se ormai, conoscendoli così da dentro – grazie alla sua bravura nell’immergerci –, da quelle parti ci trovassimo troppo a nostro agio, perdendoci così la benedizione dello straniamento. O forse è ormai Krasznahorkai stesso a trovarsi troppo a suo agio in quei mondi, non sentendo più il bisogno di rappresentarli attraverso la lente della sfasatura con i mondi considerati “normali”. Ma, anche se così fosse, non starebbe a noi lettori preoccuparsene: siamo già impegnati a preoccuparci per il professore e il barone, figuriamoci se abbiamo tempo di angosciarci anche per il loro demiurgo bulletto.
Piuttosto, nostra responsabilità di lettori è forse quella di non credere alle sue dichiarazioni di “ultimo romanzo”. E non solo per una semplice speranza di fan che smania di leggere altri suoi nuovi romanzi, ma anche per l’auspicio che la tensione del suo ritorno al romanzo finisca per sovrapporsi a quella dei personaggi ritornanti delle sue opere migliori. Ora che è tornato anche il barone Wenckheim, possiamo sperare che torni perfino il barone Krasznahorkai.