Piccola patria, in cerca d’autore

Appunti su “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto, presentato nella sezione Orizzonti della 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

«Che strane bestioline… Una volta che mettono la testa fuori, non rientrano più a casetta». Sono così, come le lumache, anche i personaggi di Piccola patria, il film che Alessandro Rossetto ha portato alla settantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, forte del sostegno delle Film Commission della Regione Veneto, del Friuli e delle province autonome di Trento e Bolzano.

Un film senza pretese sociologiche, ha detto il regista in conferenza stampa, accolto bene dal pubblico della Sala Grande del Palazzo del Cinema, che gli ha dedicato lunghi applausi al termine della proiezione.

Padovano d’origine, documentarista al primo lungometraggio, Rossetto offre il ritratto frantumato di un Nordest che ha perduto il suo guscio. Il suo Veneto è una Piccola patria affetta da relazioni incestuose, giochi erotici perversi che si risolvono in ricatti, ambigue amicizie (tanto maschili quanto femminili) che si sgretolano di fronte allo spettro del denaro, o meglio, al cospetto della sua mancanza. È un microcosmo popolato da presenze striscianti, manipolatorie, che si nascondono tra capannoni e allevamenti, alberghi e roulotte.

Uomini e donne apparentemente insospettabili, che si ritrovano in chiesa e vivono in appartamenti anonimi, in spazi altrettanto insospettabili. Una colonna sonora tutta in lingua veneta accompagna le riprese aeree di una terra che invece si rivela malata. Come un inno ricorrente, una musica solenne invita lo spettatore ad aprire gli occhi sui propri vicini, a “guardarsi attorno”.

Per scoprire che cosa? È qui che il film mostra i suoi limiti. Seppure ambientata a Nordest, la storia potrebbe collocarsi ovunque. In qualsiasi periferia d’Italia, ha dichiarato il regista. Detta così, potrebbe anche sembrare un pregio. Ma la narrazione di Rossetto non raggiunge mai quella potenza evocativa capace di renderla davvero rappresentativa di fenomeni drammaticamente diffusi, non solo in Veneto, ma in tutto il Paese. Il razzismo, la violenza, il degrado della periferia, la crisi dei rapporti umani e familiari, il fascino corruttivo del denaro appaiono sullo schermo privi di spessore, né indagati né problematizzati. Non è una questione di sociologia, ma di poetica. Di struttura narrativa sinceramente un po’ traballante.

Lo sguardo del regista non entra in campo con un’interpretazione. Sembra quasi svicolare, limitandosi a galleggiare sulla superficie delle cose, quasi a osservarle con indifferenza. Uno sguardo tutto sommato ancora incerto, indeciso tra l’approccio tipico del documentario – di cui però non conserva, per scelta stilistica, la corrispondente incisività – e la costruzione di una finzione debole, che non riesce a coinvolgere e non sorprende.

Nonostante la bravura delle attrici (su tutte Maria Roveran, che interpreta il personaggio di Lucia) e degli attori (convincente Mirko Artuso, nella parte del padre di Lucia), Piccola patria si lascia soltanto guardare, ma non arriva a lasciare il segno memorabile del cinema d’autore. È pur sempre una prima volta. Questo sì, non va dimenticato.

 

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