Paolo Rosa, artista plurale. Il primo modo che viene a mente per mettere insieme un nome e una definizione che gli stava e mi sta a cuore.
Un artista e più precisamente un regista che, in collaborazione con il suo Studio Azzurro, ha esplorato, dall’inizio degli anni ’80, tutti i linguaggi nuovi della creazione e della comunicazione. “Bottega d’arte”, laboratorio singolare di sperimentazioni e di esperienze, fondato – con Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi come Collettivo militante di controinformazione – Studio Azzurro è un luogo riflessivo e performativo del fare e del pensare, documentato nel libro e DVD, Videoambienti e ambienti sensibili (Feltrinelli 2009).
Come regista penso a realizzazioni che mi sono care: al teatro (Il nuotatore, nel 1984, Venezia; Vedute. Quel tale non sta mai fermo, 1985; La camera astratta, da Documenta 8 di Kassel) e soprattutto al cinema “espanso” – per sua definizione – non nella direzione del videogioco ma della videoarte (Il giardino delle cose, 1992). E alle installazioni nei musei e sui musei, veri affreschi digitali e interattivi, tra creazione artistica e ricerca antropologica, didattica e ricezione estetica (Tavoli. Perché queste mani mi toccano?,1995). Opere costitutivamente aperte che hanno preso la misura immersiva delle nuove tecnologie. Opere che indicano ed invitano ad una inversione dell’arte e della cultura contemporanea: passare dalla forma e la rappresentazione alla relazione e la partecipazione. Come dimenticare il video in cui due mani bianche accarezzano un vuoto apparente dove si materializzava progressivamente un oggetto; poi le mani si scostano e l’oggetto pian piano sparisce. Un effetto termico reso visibile ma soprattutto il significante di una “cura delle cose”, il cui senso va oltre ogni vieto neorealismo.
Una attività d’esplorazione e di continua ricerca che Paolo Rosa (con Andrea Balzola) ha articolato teoricamente nel suo ultimo libro L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (Feltrinelli, 2011). Un manifesto – formato discorsivo delle avanguardie – di analisi e di proposta che parte da una constatazione radicale: la Rete è un connettore semantico, una forma simbolica che ha il valore che ebbe ai suoi tempi l’invenzione della prospettiva.
Per Rosa, artista e docente, essere connessi non è essere in rapporto; la sola tecnica non è condizione sufficiente alla generazione di legami collettivi, estetici e culturali. Estetici in primo luogo: l’interattività permette la produzione di opere “impermanenti” che hanno un carattere di evento e provocano (diamogli la parola) «responsabilizzazione etica ed estetica dello spettatore e […] comportamenti fruitivi imprevedibili che […] producono a loro volta delle possibili trasformazione dell’opera». E legami culturali: come dimostra il lavoro sui “Musei narrativi” (Percorsi narrativi e affreschi multimediali, Silvana, 2011) sulla didattica e la memoria, la cui realizzazione promette un inatteso rinnovo della funzione e del senso dei musei, tramutandoli in luoghi interagenti di conoscenza e in cliniche per gli sguardi. Un’attività internazionale (USA, Cina, Giappone, ecc.) e nazionale, come il ruolo recente di progettista e direttore artistico della mostra “Fare gli Italiani – 150 anni di storia italiana”, per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Contro il consumismo e la mercificazione, così Rosa pensava al progetto d’un museo Felliniano a Rimini, di cui chiedeva la realizzazione nella sua risposta alla consegna, da parte della sua e mia città, del Sigismondo d’oro. Un museo le cui immagini sapessero rispondere a quelle del Librone in cui il grande regista aveva disegnato i propri sogni.
Rosa sapeva che non solo le connessioni, ma neppure le relazioni bastano. Ci vogliono attachments, cioè capacità di attaccamento, di prossimità sensibile ed affettiva. Qualità singolare che l’amico Paolo, aperto e generoso, possedeva in sommo grado, nonostante gli impegni di insegnamento – al Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate dell’Accademia di Belle Arti di Brera – e di gestione e le delusioni politiche.
Ma è venuto per me il momento di lasciare l’imperfetto che non avrei voluto usare – per ricordare a futura memoria il suo progetto di Stazioni Creative. Moltiplicare il collettivo felice di Studio Azzurro? Comunicare e realizzare una pratica teorica delle arti? Non c’è bisogno di sperare per crederci. Toccherà al futuro – per quel che resta oggi della tensione verso quel tempo – dirci se sarà soltanto un’utopia.
[Questo articolo è già apparso su La Voce di Romagna, Rimini, il 22 agosto 2013]