Su una comparazione molto in voga in Italia.

Comparatio non petita sembra essere il genere preferito dei giornalisti italiani un po’ a corto di idee, una specie di versione lunga dell’ ormai famoso “e allora il PD” o “e le Foibe” reso celebre dagli stellati del web. Ultime vedette di questa lucha libre pseudo-intellettuale, in cui personaggi pubblici vengono screditati comparandoli a altri (ma Martin Luther King era omofobo tanto quanto X, Gandhi razzista proprio come Y) e forse la più comica è quella che vede sul ring Indro Montanelli e Pier Paolo Pasolini, personaggi lontanissimi dal punto di vista culturale, politico, e per stile di vita. Oltre alla ovvia pigrizia intellettuale di questo tipo di accostamenti (l’appiattimento della storia che fa fare Stalin = Hitler = Ho Chi Minh, tanto per dire), il danno grave è quello di sviare l’attenzione sul problema che si ha davanti, evitare di fare i compiti di storia e di geografia che capire il mondo e il passato richiede, e cercare di risolvere il problema con facile qualunquismo (“alla fine sono tutti uguali, signora mia…”).
Cosa hanno in comune dunque Montanelli e Pasolini? Beh, tutte e due non sono perfetti, e, udite udite, a Pasolini piaceva il cazzo allo stesso modo in cui a Montanelli piacevano le bambine africane, quindi, per la legge della logica di terza media, tutti e due sono da condannare, o perlomeno se si accusa l’uno allora si deve accusare l’altro.
Allora cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, sia nel metodo che nello specifico.
Pasolini non era pedofilo. I pedofili sono attratti dagli adolescenti, mentre Pasolini amava succhiare il cazzo ai ragazzi. Per i più legally-minded fra voi, non tutti erano maggiorenni, ve lo concedo, e se volete possiamo investigare l’età del consenso negli anni ’60. Ma per voi che riuscite a leggere libri, il meraviglioso capitolo “Il pratone della Casilina” dall’ultimo romanzo postumo Petrolio, vi presenta la scena di un intellettuale di mezza età, in ginocchio in un prato di periferia, circondato da decine di ragazzi che a turno gli eiaculano in bocca. A molti questa scena suscita orrore, o perlomeno un certo imbarazzo, se non altro per la lingua diretta che io qui malamente riproduco. Pasolini ha infatti operato una sorta di de-monumentalizzazione di sé stesso attraverso il grottesco e l’orrore (soprattutto nelle ultime opera, basti pensare a Saló o le 12o giornate di Sodoma, per esempio), mentre Montanelli ha fino alla fine raccontato la storia epica della propria gioventù coloniale e la cronaca di un presente illuminato da un passato glorioso. La statua Montanelli se l’era già costruita in vita, mentre Pasolini ha lasciato solo domande difficili a cui rispondere. Allora, vi siete chiesti perché non ci sono statue di Pasolini (tranne quella che ricorda il luogo della morte a Ostia, e qualche strada di periferia con il suo nome)?
Riproviamoci. Perché il madamato è accettato in Italia più dell’omosessualità? Perché il sistema patriarcale delle statue (tutti uomini vero, tranne la mamma del mega-direttore Catellani e forse qualche mariagoretti qui e là di fronte ai donorioni di provincia) vigila sul territorio come i carabinieri di Pinocchio, attento che nessuno baci nessuno, che i circle jerks siano solo estemporanei, e che il matrimonio con la femmina e la patria regni sovrano?
Pasolini ha passato la vita a parlare e a mettere in piazza (spesso senza statue le sue, in periferia, sotto una fontanella arida al massimo) il suo desiderio sessuale, a cercare di capire perché era “diverso” (in questo completamente freudiano viveva la sua omosessualità con un grande senso di colpa, di cui parla spesso nei suoi saggi, nelle interviste televisive, e in forma non poi troppo sublimata nelle sue opere). A causa di questo, è stato perseguitato dai fascisti, dalla stampa, dalla Chiesa, e messo al pubblico ludibrio per tutta la vita. Non riesco neanche a immaginare che forza morale e psicologica richieda riuscire a essere un artista in queste condizioni, dove ogni gesto pubblico e privato è sempre sotto l’occhio vagliante dei media e della magistratura. Se vi interessa saperne di più, il volume Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, curato da Laura Betti ed edito da Garzanti nel ’77 vi da’ un’idea di una vita passata in pretura a difendersi da ogni tipo di accuse. Tra le tante, tanto per darvi un’idea del circo di cui stiamo parlando, l’accusa nell’ottobre del 1961 di avere rapinato una trattoria di San Felice Circeo con una pistola d’oro. Questo basta a indicare il ruolo assegnato a Pasolini nel panorama mediatico italiano come figura comunque losca, pervertita, e senz’altro criminale.
La realtà, alas, è ben diversa. Tornando allo specifico politico di questo confronto: Pasolini ha passato la vita a denunciare il colonialismo, di cui aveva diretta conoscenza attraverso i suoi viaggi e il suo lavoro. Su questo ho scritto un libro edito da Bruno Mondadori nel 2007, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo, in cui cercò di raccontare la necessità politica di fare film nell’era della decolonizzazione, e spiegare il percorso ideologico del giovane Pasolini che supera l’iniziale desiderio esotico per l’altro e scopre il grande fermento del sud del mondo in rivolta. Il suo amore per il corpo nero, che domina in molti suoi film, è un corpo sia sessuale che politico, è un corpo frocio e marxista.
Montanelli, da razzista, ha sempre lottato per difendere l’impero e lo sfruttamento dei paesi post-coloniali. E qui si arriva al problema più grave di questo bizzarro confronto, e cioè la differenza tra essere parte di un sistema di sfruttamento e oppressione (il colonialismo), e l’esperienza personale di discriminazione e oppressione che gli omosessuali, e il mondo queer in generale, in Italia hanno vissuto e continuano a vivere quotidianamente. Quando dunque parliamo di razzismo sistemico intendiamo un sistema di pensiero attualizzato in una serie di azioni, politiche, e scelte sociali che discriminano sulla base non delle esperienze di vita, ma dell’ideologia suprematista bianca che sta al cuore del colonialismo in generale, e del colonialismo italiano in particolare, in cui essere neri significava e significa essere sub-umani.
Montanelli era razzista. Lo era nei fatti e nelle parole, lo era quando “sposava” le bambine non perché era un pedofilo, ma perché il sistema, il grande Altro direbbe Žižek via Lacan, glielo chiedeva. E lui ha sempre risposto presente. Da borghese pensava di avere sempre ragione, e mai per un secondo si è messo in discussione, o ha cercato di capire le sue azioni. Se Pasolini ha passato la vita a cercare di capire sé stesso e il suo tempo, Montanelli ha passato la vita a fare una sola cosa: essere servo dei padroni, che ha sussiegosamente difeso, amato e riverito tutta la vita. Se avesse avuto il coraggio di Pasolini si sarebbe descritto a una festa in giardino in Veneto, in ginocchio mentre vecchi industriali lo coprivano di sperma. Ma questo è un altro discorso.