Storie che creano mondi e mondi che creano storie

Disinnescare il rapporto tra scienza e mascolinità per rendere pensabile il futuro.

È importante capire quali argomenti usiamo per pensare altri argomenti; è importante quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante capire quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami intrecciano legami. È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie.

Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto


scienza e mascolinità

Quanta parte della scienza è vincolata all’idea della mascolinità e che cosa significherebbe per la scienza se così non fosse? Questo è il punto di partenza che nel 1985 la biofisica matematica americana Evelyn Fox Keller propone nel volume di Reflections on Gender and Science, tradotto in italiano e pubblicato da Garzanti nel 1987 con il titolo Sul genere e la scienza.

Bruna Bianchi evidenzia questo quesito nella ricostruzione dell’origine del pensiero e poi dei movimenti ecofemministi nell’ambito di un articolo pubblicato dalla rivista telematica DEP. Deportate, esuli, profughe edita a cura dell’Università Ca’ Foscari di Venezia nel luglio 2012. L’analisi di Keller, scrive Bianchi «prende le mosse dalla critica di due stereotipi fondamentali che agiscono nel rapporto tra donne e scienza: il primo è quello che fa coincidere l’oggettività con la mascolinità e la soggettività con la femminilità, il secondo è quello che individua nella scienza un’attività umana priva di valori e di connotazioni emotive».

Qual è stato il peso di questi stereotipi legati al carattere universale della scienza? E quanto hanno potuto agire entro il senso comune, spingendosi fin dove il pregiudizio, legato a ciò che è scientifico e a ciò che non lo è, è stato inteso come oggettivamente valido in molti ambiti dell’esistenza? Una considerazione di questo tipo oggi più che mai si staglia come un elemento di riflessione che va considerato prioritario, in quanto non riguarda solo i movimenti ecofemministi nella loro pluralità, né un punto di vista che interessi una qualche distinzione di genere, specie, razza, orientamento sessuale e/o politico e così via.

È dunque necessario riconsiderare quale sia il vincolo che l’idea della mascolinità ha posto a partire dall’ambito scientifico e quanto questo sia pesato sul modo irresponsabile di intendere l’ecologia da parte dei governi e dell’economia globale alla luce del disastro climatico e ambientale e dell’ultima pandemia che ha interessato il pianeta.

Il salone internazionale del libro di Torino 2020 – quest’anno in versione Extra, ossia in versione “distanza sociale” – ha ospitato un intervento di Donna Haraway che, con un’intervista rilasciata a una delle sue traduttrici Claudia Durastanti e a Loredana Lipperini, ha illustrato i contenuti di Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, pubblicato in Italia da Not Nero Edizioni nel settembre 2019 ma negli Stati Uniti già edito nel 2016 con il titolo Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene.

Come spiega Federico Comollo, Chthulucene è

un termine con cui l’autrice vuole definire la serie di forze e rapporti tentacolari sul nostro pianeta che possono e devono agire all’unisono per rendere l’Antropocene il più insignificante possibile nel nostro futuro. Sono vere e proprie tempospettive, ovvero una moltitudine di temporalità e spazialità diverse, reali e possibili, che hanno il compito di ricreare rifugia, nuovi assemblaggi multispecie in cui soggettività umane e non, potranno scampare alla catastrofe e sopravvivere ricreando nuovi modelli ed equilibri.

Da questa prospettiva è facile capire perché il testo di Haraway è risultato una delle letture più popolari in Italia durante la fase del lockdown e sia definito, da alcuni, come la svolta ecologista dell’autrice di Manifesto cyborg

scienza e mascolinità

Il lungo periodo interessato dal lockdown tra i molti incalcolabili risvolti ha imposto, con la sua mancanza di precedenti in fatto di definizioni, un pervasivo stato di crisi che ha investito anche e soprattutto il linguaggio. Ciò fino alla comparsa ufficiale del termine pandemia, che in ogni caso non è riuscito a descrivere le criticità economiche, sociali, psicologiche e politiche che una moltitudine di soggetti hanno affrontato – perlopiù in mancanza di elaborazioni linguistiche che potessero riconnettere l’idea della catastrofe a processi, anche se noti, quasi del tutto innominati. 

In Staying with the Trouble, Haraway sottolineava già nel 2016 come sussista la necessità di dare un nome a noi stessi e a tutto ciò che non siamo noi, all’interno di un gioco animato dal medesimo fervore collaborativo. Una nomina portatrice di un riconoscimento paritario in cui il rispecchiamento avviene tra l’umano e tutte le specie animali, vegetali e minerali del pianeta. Ciò concerne un vero progredire che investe anche il linguaggio in termini di autonomia critica, espressiva e speculativa. A questo proposito scrive Haraway:

Insisto anche sul fatto che abbiamo bisogno di un nome per raggruppare le forze e i poteri dinamici e sinctoni di cui le persone costituiscono una parte, all’interno dei quali sono in gioco l’esistere e il progredire. Forse è solo attraverso l’impegno intenso e le forme di collaborazione e di gioco con tutti i terrestri che saranno possibili nuovi ricchi assemblaggi multispecie in grado di ospitare anche gli umani.

Nell’intervista al Salone rilasciata da Haraway a metà maggio, l’autrice innesta i contenuti di Chthulucene alla realtà odierna della pandemia, stimolando ancora una volta in chi ascolta e legge Haraway la necessità di un ribaltamento del pensiero su cui poggiano i capisaldi del nostro presente biologico e culturale di individui.

Come praticare la possibilità di incontrare qualcosa che non sia noi stessi, nell’approccio con il mondo al di fuori del nostro pensiero? Come praticare un intendimento di solidarietà inter-specie per fare in modo che ciò che Haraway chiama “l’eccezionalismo umano” esca fuori dal quadro generale e non si stagli come fenomeno sempre prevalente? Come non consentire più a questa prevalenza di eclissare la totalità dell’orizzonte che riguardi parimenti l’umano, l’animale e la natura? Come stare a contatto con il problema costituito da un mondo tanto artificiale quanto ereditato sia in termini biologici che culturali, il quale mai come in questo momento mostra limiti a ogni prospettiva futura di fattibilità?

Haraway, nell’ambito dell’intervento al Salone, definisce un passaggio simbolico che la ha portata a una pratica ecofemminista del tutto contemporanea e liberata dai fraintendimenti e dalle critiche mosse a questo movimento in passato e nel presente. Il pensiero ecofemminista, ossia l’accostamento anche su base teorica di due termini come ecologia e femminismo, ha faticato a incontrare in Europa una diffusa comprensione delle sue prerogative, nonostante il termine compaia per la prima volta nel 1974 proprio in Francia. Haraway, a proposito dei possibili motivi di questo fraintendimento, a volte riservato al movimento ecofemminista in Europa, dichiara: «Non conosco abbastanza i nostri reciproci movimenti, forse è questo. Credo anche che ci siano straordinarie differenze. Per esempio molte amiche femministe europee, nutrivano un disprezzo per l’ecofemminismo, come se l’ecofemminismo fosse un movimento retrogrado […] Come se l’ecofemminismo fosse una cosa semplicistica e non lo è mai stato. È sempre stato un movimento ricco e complesso. Credo che per alcune femministe europee è stato difficile comprenderlo, almeno tra le persone delle mie cerchie».

scienza e mascolinità

Il Manifesto Xenofemminista (Laboria Cuboniks, 2016) come ricorda Lidia Curti in Femminismi futuri, definisce l’intersezionalità come una modifica dell’universale che non può essere imposta dall’alto ma costruita dal basso, seguendo itinerari laterali e talvolta disagevoli. Itinerari che concernono in primo luogo il linguaggio e il corpo femminile sia in termini di poiesis (fare nel senso di comporre) che di praxis (agire tecnico, produttivo, artigianale). La centralità del corpo femminile in tal senso è chiamata, per parafrasare Audre Lorde, a dare un nome a quanto di innominato c’è nell’esistente. «Per le donne, la poesia non è un lusso» scrive Lorde, «è un modo di dare nome all’innominato così che possa esser pensato». Cosicché ciò che esiste oggi in termini di crisi possa essere pensato mediante attraversamenti e prospettive nuove.

L’importanza data al linguaggio in questi termini può portare a un vero e proprio disinnesco. Ossia alla possibilità di neutralizzare dinamiche inattuali e costrittive attraverso l’emersione al dicibile di certi percorsi. E con ciò opporsi a quegli argomenti, a quei legami, a quei pensieri, a quelle credenze, a quelle vulgate che hanno creato mondi attraverso narrazioni connotate in modo univoco e stereotipato. Narrazioni che manifestano da tempo uno stato di crisi intrinseca alla loro natura monomandataria. Da quest’ottica, apprendere quali storie hanno creato mondi e quali mondi hanno creato storie smette di essere un’esortazione e diventa un richiamo alla responsabilità di ciascuno/a per scongiurare l’impensabilità del futuro.

Print Friendly, PDF & Email
Close