Giuseppe Bertolucci

Per un cinema minore.

Pubblichiamo un estratto del volume “Sulla famiglia Bertolucci” (Ensamble, 2018) che raccoglie gli interventi del Ciclomaggio tenutosi nel 2017 presso l’Università di Siena.

Della famiglia Bertolucci, Giuseppe è il minore. Figlio minore di Attilio, fratello minore di Bernardo: una minorità anagrafica che è facile trasporre in ambito artistico. Ci ha riso più volte, Giuseppe, di questa sua condizione di spettatore non partecipante delle glorie familiari, di questa sua condizione di semi-invisibilità: al cospetto del grande poeta (nonché critico cinematografico) e del grande regista (nonché poeta incensato agli esordi) la sua figura svilisce per ritrarsi in un cono d’ombra. Un’ombra che lo accompagnerà per tutta l’esistenza, dai primi passi al fianco del già affermato fratello maggiore sino ai lavori della maturità, sempre affetti da una mancanza (di coesione o chiusura stilistica e narrativa) o, al contrario, e forse in un consapevole tentativo di compensazione, da un eccesso (di stravaganza e di caricatura), probabilmente con la sola eccezione di Segreti segreti del 1984. Queste lacune o queste iper-saturazioni sono dunque la cifra peculiare del cinema di Giuseppe Bertolucci, un cinema che si muove lungo le scivolose linee di demarcazione tra linguaggi e medium e che spesso tracima da una parte o dall’altra.

La fascinazione di Giuseppe per il mondo dello spettacolo ha evidentemente una forte influenza felliniana, ma, a differenza del regista riminese, questa stessa fascinazione sconfina dentro territori esterni al cinema, per approdare al teatro comico e di avanspettacolo con Roberto Begnini, ad esempio, oppure per orientarsi verso il nemico riconosciuto (all’epoca) del cinema stesso, la televisione; o ancora, e al contrario, per elevarsi alle nobili forme operistiche, come la regia de La Traviata del 2001, andata in scena al Regio di Parma e, comunque, anche in onda sui canali RAI 1. Una trasversalità che non si limita ai dispositivi, ma si dirama orizzontalmente anche nei generi cinematografici: ai lungometraggi di finzione, il Bertolucci minore affianca un’ampia produzione documentaria e di inchiesta, come Pasolini prossimo nostro del 2006 o In cerca del ’68 del 1998, e alcuni cortometraggi, di cui uno, dedicato a Bologna in occasione dei Mondiali di calcio del 1990, girato insieme al fratello Bernardo.

Cosa rimane di questa eterogenea produzione, centrifuga e dispersa, poliedrica a tratti incostante? Quello che sembra trapelare, sotto la patina ostica di questi esempi frammentari, sono le tracce di un fare cinema in tonalità minore. Con minore si fa certo riferimento a una venatura musicale – del resto, il riferimento alla tradizione operistica è una grande cornice di senso unitaria nella famiglia Bertolucci – che potrebbe essere individuata in una tensione malinconica verso un’Italia volta al passato anche quando radicata con tenacia all’attualità, ma, anche e soprattutto, all’idea sviluppata da Gilles Deleuze e Félix Guattari nel loro saggio su Kafka 2. Per i due autori francesi, la letteratura minore è il luogo di una spossessione linguistica che si trasforma in senso produttivo nella rigenerazione di una lingua in qualche modo “altra” da parte di un soggetto dell’enunciazione. Una torsione enunciativa che si carica di valenze politiche e apre nuovi spazi del senso, abitando territori estranei per risemantizzarli.

Da questo punto di vista, Giuseppe Bertolucci si inscrive a pieno diritto all’interno di un’atmosfera sviluppata ampiamente dal cinema italiano, che del fallimento in tonalità minore ha fatto una cifra costituente e unitaria, al di là dei generi e delle epoche. Nelle forme della commedia e del grottesco, così come in molti dei film politici e di inchiesta, la produzione cinematografica nazionale ha messo spesso in scena l’incapacità di adattamento del soggetto alla realtà sociale, i piccoli scarti dalla norma, le inettitudini sfumate e le meschinerie del quotidiano, nonché l’impossibile sovrapposizione definitiva tra ruolo e maschera3. Una sequela di tragedie ridicole e di farse tragiche, che scandiscono il cambiamento epocale prodotto dalla modernità italiana, tanto storica quanto cinematografica4. E non è forse un caso che il più “giuseppiano” dei film di Bernardo sia allora La tragedia di un uomo ridicolo del 1981, un film minore appunto, ambientato nella provincia padana, che si staglia come uno spartiacque discreto tra le opere fiammeggianti e di ampio respiro degli anni ’70 e i grandi kolossal internazionali di fine anni ’80 e ’90. Così, la dimensione specificatamente ruvida eppure immediatamente condivisa è forse il tratto che più caratterizza il cinema di Giuseppe, ed è probabilmente nella relazione con la tradizione nazionale e con le dinamiche del microcosmo famigliare che una lettura comprensiva e generale della sua opera può dare degli esiti imprevisti e felici.

Dov’è la mia casa?

Era quasi inevitabile che il minore dei Bertolucci trovasse asfissiante un’aria di famiglia così satura e ricca, dove al contempo i confini interni di pertinenza si delineavano con estrema chiarezza. Tra il poeta celebrato e riconosciuto anche dalle più alte autorità nazionali (Attilio dirigerà ad esempio «Il gatto selvatico», house organ dell’ENI presieduto da Enrico Mattei) e il regista enfant prodige del cinema internazionale (unico italiano a vincere un Premio Oscar per la miglior regia con L’ultimo imperatore del 1987), Giuseppe imbocca una strada secondaria e poco illuminata, che alla stabilità del padre oppone una dispersività poco attraente e alla potenza centrifuga del fratello una geografia minuta, fatta di luoghi marginali eppure prossimi. Una posizione scomoda che però non sfocia in una conflittualità aperta con la dimensione famigliare e domestica, quanto semmai nell’accettazione tacita dell’inevitabilità della dissoluzione della casa come approdo sicuro degli affetti, per quanto contrastanti questi ultimi possano essere.

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Note

  1. Sull’eclettismo bertolucciano, si veda anche A. Mirabile, Documentary film as equivalence: Giuseppe Bertolucci’s Pasolini prossimo nostro (2006), Studies in Documentary Film, V, 2-3, 2011, p. 140.
  2. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 2010.
  3. Per tutti questi temi il rimando è ovviamente a M. Grande, La commedia all’italiana, Roma, Bulzoni, 2003.
  4. Sulla modernità controversa nel cinema italiano si rimanda a R. De Gaetano, Introduzione, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di R. De Gaetano, 3 voll., Milano, Mimesis, 2014-2016.
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