“Dai Pogues in poi ho iniziato a vedere il bicchiere mezzo pieno”

Canto popolare, canto sociale. Proponiamo un estratto dal colloquio fra Antonio Fanelli e Sandro Portelli su questi temi fra genealogia e connessioni col presente. La versione integrale è pubblicata sul nuovo numero de Il De Martino*, la rivista dell’Istituto culturale dedicato al grande etnografo napoletano, studioso del “mondo magico”.  

AF: L’idea di questo numero della rivista “Il de Martino” nasce dal mio scritto precedente sul canto sociale per la Treccani e dal libro “Contro canto”, ricordi quando sono venuto a casa tua per parlarne? E così ho un po’ ricostruito la tua riflessione sul canto sociale, sparsa in vari articoli e su riviste, senza mai confluire in un libro o in una antologia.

SP: Si, anche perché, devo dire, insomma, di musica ne deve scrivere gente che ne sa di più, perché alla fine io ho sempre ragionato più sul rapporto tra musica e contesto sociale che sulla musica in sé e come tale, e anche per questo ho finito per spostarmi sempre di più sulla storia orale, proprio perché come competenza critica capivo meglio le storie che non le musiche dei canti di cui mi occupavo. Però, diciamo che comunque un percorso dentro al canto sociale c’era e si vede dalla raccolta che hai fatto.

AF: Il testo che più mi ha colpito, proprio come riflessione interna al meccanismo di creazione e diffusione del canto sociale è Tipologia della canzone operaia. Quello come è nato? Su committenza per qualche occasione, convegno, etc.?

SP: No, per altro non mi ricordo esattamente come nasce ma credo proprio che c’entri qualcosa una conversazione con Nicola Gallerano, risalente ai primi tempi in cui ho cominciato a frequentare – e poi l’ho frequentato a lungo – l’Irsifar (Istituto romano per la storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza) che all’epoca era presieduto da Nicola Gallerano. Nicola è stato uno dei primi a prendere sul serio il discorso delle fonti orali, quindi c’era questa sollecitazione e poi l’articolo nasceva, in realtà, dall’esperienza di ricerca a Terni, da una parte, e dall’altra, da una cosa che io avrei sempre voluto fare e non ho mai fatto: un lavoro serio sulla parodia. Io avevo fatto come tesina per l’esame di Glottologia con Cardona una riflessione sulla parodia e avrei sempre voluto fare una cosa più approfondita, seria, ragionata, ho sempre pensato che bisognasse fare anche uno spettacolo sulla parodia ma non ci sono mai riuscito. E quindi c’erano un po’ questi due elementi: la ricerca a Terni e la riflessione ‘mancata’ sul tema della parodia. E poi c’erano anche altre idee che mi avevano influenzato, ad esempio, mi ricordo un saggio che avevo letto all’epoca sul «Journal of American Folklore», intitolato Ma c’è un folk nella fabbrica?, e l’autore si arrampicava un po’ sugli specchi per dire che si, c’era. In realtà c’è un grande ricercatore e studioso, Archie Green che ha scritto delle cose straordinarie su quello che lui chiama “laborlore”, ovvero il “folklore del lavoro”, quindi avevo un po’ tutte queste cose in mente e soprattutto c’era l’esperienza di Terni in cui avevi questa realtà di operai che cantavano i “canti a mete” e quindi mi interessava un po’ ragionare su questa presenza del mondo contadino tradizionale dentro la fabbrica. E poi il mio articolo sulla Tipologia della canzone operaia, come vedi, non individua dei generi musicali.

AF: ma riflette sul rapporto tra il canto e la comunità di produzione e di fruizione del canto stesso.

SP: esatto, individua dei contesti sociali e non dei generi musicali, lo ripeto ancora una volta, non è un saggio musicologico ma è, in qualche modo, sociologia della cultura.

[…]

SP: L’altra cosa che invece mi ha colpito vederla ritirata fuori è l’articolo del ’79 sulle culture giovanili e la politicità del privato, che nasce come documento interno del circolo Bosio, per la discussione tra di noi, perché era il ’77

AF: e qualcosa, diciamo, stava succedendo.

SP: e la prima cosa che più colpisce riguardando un po’ queste cose è che, chiaramente, usavamo un altro linguaggio, molto più politico e anche dottrinario, anche se, devo dire, che in tutte le migliaia di pagine che ho scritto ci saranno si e no due o tre citazioni di Marx in tutto. In quel saggio, rileggendolo oggi, mi diverte tutto quello sforzo per ricondurre tutte le differenze all’asse centrale della differenza di classe che è una cosa che si è andata un po’ erodendo con il tempo, ripensandoci oggi mi appare un po’ difensivo, è un po’ come dire …

AF: ci sono altre cose però …

SP: si, ma riassorbiamo le altre cose nella nostra

AF: in realtà non è andata poi così …

SP: non è andata così, non era vero, però, è stato un inizio, per cominciare perlomeno a ragionarci. Lì, per esempio, mi aveva colpito, mi pare che nell’articolo lo riporto, questa cosa che c’è nel libro di Studs Terkel, Hard times, dove Terkel, che è un grande critico musicale e soprattutto un grande giornalista radiofonico, fa una cosa che nessuno storico si sognerebbe mai di fare, per capire gli anni ’30 intervista i ragazzi degli anni ’60, e domanda “ma voi che sapete, che esperienze avete e cosa significano per voi gli anni ‘30”, e c’è questa frase di un ragazzo … e credo che qualcuno di loro, uno di sicuro, è entrato nei Weathermen … e spiega “i nostri genitori ci dicono sempre che loro hanno fatto la fame e noi adesso ce la passiamo bene e di cosa ci lamentiamo e invece non capiscono che sono loro che se la passano bene adesso e noi stiamo malissimo” e questa cosa mi illuminò, assieme alla storia – e mi pare che ci sia nell’articolo -, del barbiere partigiano di San Lorenzo che si lamentava perché diceva “mia figlia non finisce la bistecca, c ‘è gente che è morta per farle mangiare la bistecca”. E questa cosa mi si connette con un racconto meraviglioso, che invece non c’è nell’articolo, dello zio di Lucilla Galeazzi, che aveva costruito, letteralmente, con le proprie mani la casa e quando i figli cominciano a dire “ma che casa hai fatto?”, lui disse “me state facendo come Krusciov a Stalin”, cioè, questa difficoltà tra le generazioni sulla quale ancora dovevamo iniziare a ragionare. E poi c’era questa storia di Bruno Andreoli – che è una delle colonne della storia dell’Istituto de Martino – che diceva “il comunismo negli anni ’50 voleva dire mangiare tutti, e ora che mangiano tutti?”. Queste erano un po’ le domande alla base di quell’articolo

[…]

AF: e nel saggio del ’79 e soprattutto in quello dell’83 c’è già il fatto che tu non crei delle opposizioni tra autentico e inautentico, sono autentici perché sono operai, e ci trovi il Cantamaggio, il rock e la balera nella loro cultura musicale, non è che il loro repertorio è puro, anzi.

SP: guarda, io questo discorso, ripensandoci adesso, me lo sono riformulato così, anche dopo aver ascoltato ieri sera Fabio Dei, ecco, non è che il concetto di autenticità non esiste, il concetto di autenticità esiste ma non consiste nel fatto della genuinità del folklore, che per altro abbiamo visto esempi incredibili di spettacolo di fakelore, ma l’autenticità consiste nel riconoscere esattamente chi è il soggetto che parla

[…]

SP: Per me sono stati i Pogues a farmi accorgere che c’era un gruppo punk intriso di musica tradizionale. E questi vengono da un posto dove la musica tradizionale non è mai stata patrimonializzata e separata in questo modo dal resto, come un po’ da noi, e questo è il percorso che mi porta ad occuparmi di Bruce Springsteen e a vedere come dentro questa storia c’è un elemento di consapevolezza di classe. Quindi, è un po’ la storia del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, dai Pogues in poi ho iniziato a vedere il bicchiere mezzo pieno.

AF: e l’incontro con i Pogues quando avviene?

SP: avviene del tutto casualmente perché vengono i Pogues a Roma e deve essere la seconda metà degli anni ’80 e al «Manifesto» mi dicono “perché non gli fai un’intervista?” e io, pensa, non li avevo mai sentiti e sono andato e Shane MacGowan ha detto “no, no, non se ne parla” e però son rimasto a sentire il concerto e appunto questo intreccio tra punk e suoni irlandesi mi colpì molto, e poi mi colpì che c’era la figlia di Ewan McColl, Christie MacColl e questi cantavano “Dirty Old Town” che è la più bella canzone mai fatta da Ewan McColl e la facevano non come revival ma perché è una cosa che a loro appartiene. E questo anticipa anche un po’ tutto un discorso sul rapporto tra musica popular e tradizione folk che vale per l’Irlanda, vale per la Romania e vale un po’ anche per tutta l’America Latina, per cui questa nostra separazione così netta tra cultura di massa e folklore, in realtà è molto, molto più fluida.

AF: e questo è proprio l’altro discorso centrale nella raccolta di saggi che abbiamo fatto.

SP: si, e qui c’è tutto il discorso sulla country music, questi luoghi di scambio, e poi c’è la country music da una parte ma anche l’ottava rima dall’altra, per fare un esempio in casa nostra di uno spazio dove le culture, alta e popolare si incontrano e si mescolano, si scontrano.

AF: e questa è una consapevolezza nuova rispetto alla fase politica dell’alternativa di classe dove anche le culture e le forme espressive erano lette come alternative, antitetiche al colto e al commerciale e non mescolate.

SP: a me colpì molto una cosa di Franco Coggiola, che era uno che di musica ne capiva, e quando lui fa il disco sulla fabbrica occupata, la Crouzet, e lì ci sono tante parodie e anche canzonette e Franco notava che le cantavano, si, ma le cantavano con un’altra voce e questo è poi anche tutto il discorso di Giovanna sulle forme musicali alternative della stessa emissione vocale contadina e popolare, e questo è un  po’ anche il discorso che cercavamo di fare ieri, no? Per cui le forme oppositive si annidano anche dentro l’egemonia.

AF: e la riappropriazione creativa di cose che ti arrivano e che fai tue.

SP: e come scrivi anche tu, puoi anche cantare Vola Colomba, ma se la canti con la voce di Giovanna Daffini ..

[…]

Le culture non sono mai state separate. E allora ecco il fascino per la parodia, l’ottava, la country music, tutti terreni mobili, di confine, di scambio, di dialogo e di scontro. E lì c’è un discorso particolare sull’autenticità, questa è una delle grandi lezioni del lavoro sui migranti. Non so se ricordi il primo saggio che ho scritto sulle musiche migranti, in una antologia fatta prima in America e poi tradotta in Italia

AF: in Italia postcoloniale?

SP: precisamente, ricordi la storia di Joana, e lì noi ci aspettavamo delle cose che avevamo in mente noi e allora cercavamo di convincere Violeta Joana a non cantare O sole mio con la base pre-registrata e pretendevamo che lei cantasse le canzoni rumene, stavamo dentro una logica di autenticità spaventosa e fu quando ci siamo accorti di questa cosa e beh dissi “no, ma la sua autenticità è quella,” il computer, il microfono, l’amplificazione. Poi alla fine ce l’ha pure cantate quelle che volevamo noi ma è molto meno autentico. Ecco, il disco sui rumeni che stiamo per fare comincia proprio con O sole mio e mi domando se non c’arrestano perché usiamo la base pre-registrata. Va beh, vediamo. Poi c’era Costantin, un signore rumeno che veniva a lavorare nel giardino della mamma di Mariella e io chiacchierando gli chiedo che lavoro faceva in Romania, “il cantante” risponde lui, “di che musica?”, “folk”. Vado a registrare e le sue canzoni sono tutte d’autore, ma tutte canzoni d’autore che imparano dal folklore, un po’ l’inverso di quello che fa Orietta Berti, perché poi uno se lo domanda “e allora che facciamo con tutto il discorso nostro del liscio? No?”, è una domanda che per me rimane ancora in sospeso, ma lì è qualcosa di più di un semplice contatto e forse dobbiamo pure ripensare questo concetto di nazional-popolare, ripensandolo non tanto come la diffusione di un prodotto egemonico, cioè la cultura popolare di una nazione è quella che cala dall’alto, ma vedere anche come elemento di identità quegli elementi che salgano dal basso, però, queste sono categorie teoriche, astratte, sulle quali sono sempre stato debole.

[…]

AF: Sandro, cambio un attimo discorso, perché mi viene in mente questa cosa, tu prendi delle cose di un’altissima densità teorica e le fai subito tue perché ti servono per spiegare dei fenomeni che vedi e dei problemi che incontri nella ricerca e nella politica culturale, così prendi  da Cirese la definizione della nostalgia come consapevolezza critica dei prezzi pagati per entrare nella modernità, che Cirese rielabora da Marx, e la usi per la vicenda di Raffaele Machetti, e poi ascolti Stuart Hall, quando nessuno lo conosceva ancora in Italia, visto che non era tradotto e pubblichi su «I Giorni Cantati» il testo fondamentale sulla decostruzione del concetto di popolare, così prendi subito da lui il cuore della definizione teorica dei cultural studies e di un nuovo approccio gramsciano ai temi della cultura popular, ecco, senza entrare nei dibattiti teorici e senza impantanarti in discussioni teoriche e accademiche, tu le fai tue e le usi immediatamente

SP: beh, mi fai venire in mente la vecchia distinzione che facevamo quando lavoravo al CNR, com’era? Ricerca fondamentale e ricerca applicata, io sono sempre stato dentro la ricerca applicata, più un ingegnere che un fisico

AF: ricerca-intervento era la formula che usavate con Valentino Paparelli per il lavoro politico in Umbria

SP: si, ed è un concetto che elaborammo anche insieme a Vincenzo Padiglione. Si, diciamo che c’è questa espressione che è entrata nel giro anche in Italia ma che a me deriva dallo spagnolo e cioè che gli strumenti di lavoro si chiamano proprio “herramienta”, cioè ferramenta, i ferri del mestiere, la cassetta degli attrezzi, che vuol dire, alla fine, che cosa ti serve? Bricolage, ecco, è questo, per cui si innesta sulla mia passione da una parte per la parodia e dall’altro per il quilt, appunto, per mettere assieme dei pezzi e fare una cosa nuova.

 

*Per informazioni sulla rivista scrivere a iedm@iedm.it o contattare l’Istituto Ernesto de Martino al numero 055446171.

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