Conversazione con Omar Calabrese

Su Matthew Barney e il neobarocco.

Cosetta G. SabaDallo studio ‘multiprospettico’ intorno alla pratica artistica di Matthew Barney – confluito nel nostro volume – emergono tre linee argomentative. La prima è inerente alla dimensione estetica del fare artistico di Barney e poneil problema della “dissoluzione dell’opera” all’interno del dominio dell’arte; quest’ultimo è “mantenuto artificialmente in vita”, ma sottraendovi la capacità di produrre “resistenza”[1]e “teoria”[2]una seconda linea argomentativa riguarda il principio traduttivo che informa,a diversi livelli, l’opus barneyano; la terza mira alla definizione della complessità del processo artistico messo in campo da Barney e tematizzato in termini di poliespressività e/o polimorfismo o riferito, attraverso la dimensione cinematografica del CREMASTER Cycle, alla Gesamtkunstwerk.

Cosa pensi della coerenza dei criteri di pertinenza implicati da queste tre articolazioni argomentative? A cominciare dall’assunto che, all’interno del tessuto mediale, il ciclo CREMASTER produca una completa dissoluzione dell’opera in termini di “contorno, individualità percepibile diretta, forma compiuta, distanza dal mondo effettuale”. Ciò che è ancora nominabile come opera (e che nella pratica di Barney si presenta come una serie espressiva che comprende coestensivamente performance, disegno, scultura, video, cinema, fotografia entro il formato dell’installazione) è un punto di immanenza in un percorso progettuale e non corrisponde, né si riduce, alla concretizzazione di un esito più o meno definitivo e unitario.

Omar Calabrese: Questa idea è molto giusta, ma bisogna intendersi sulla questione della “dissoluzione”, che non vuol dire che l’“opera” non esiste più, bensì che cambia di statuto. Infatti, se mi si permette di usare concetti miei [3], quella di Barney è un’opera tipicamente neobarocca, realizzata con mezzi contemporanei. Corrisponde a ciò che Mario Praz aveva esaminato nel concettismo seicentesco: la passione per il nulla. Le “operazioni di azzeramento” mantengono l’opera in tutt’altra forma, quindi dissolvono non l’opera, ma l’opera secondo la vecchia architettura e la vecchia concezione (infatti i film del ciclo CREMASTER, non a caso, li vedi: nel senso che ci perdi un sacco di tempo per guardarteli!). La questione è: “Dissolvono cosa”? “I parametri precedenti e tradizionali di concezione dell’opera; i parametri della rappresentazione e della riproduzione dell’opera stessa; i parametri di coinvolgimento del pubblico nella ricezione dell’opera”. Si tratta di uno ‘smontaggio’ che prende a pretesto l’idea del nulla, dell’azzeramento, della dissoluzione, per riformulare qualcosa.

Cosetta G. Saba: Nella pratica artistica barneyana – mi sto riferendo alla seconda articolazione argomentativa – sembra agire un principio traduttivo di materiali e forme che tuttavia tende a confondersi e a disperdersi – terza articolazione argomentativa – entro le definizioni di opera polimorfa, poliespressiva (e finanche di Gesamtkunstwerk) senza che emerga il problema del suo modo di funzionamento caratterizzato dall’azione performativa, dal re-enactment, dalla narrazione, da una peculiare semantica dei materiali, dal formato installativo e dalle sue varianti (re-stage), dalla dimensione . Rispetto all’interpolazione spaziale delle componenti singolari dell’opera (performance, video, scultura, C-print eccetera) nell’insieme di quell’opera installata (ad esempio DRAWING RESTRAINT 13 e 14 e DRAWING RESTRAINT 13: The Instrument of Surrender), gli spazi architettonici (Gladstone Gallery di New York, 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa, Leeum, Samsung Museum of Art, Seoul) ne sono parte integrante.

Omar Calabrese: Vale la pena soffermarsi sul fatto che quella che Barney chiama‘traduzione’, che chiamerei molto più banalmente ‘trasformazione’, consiste nel produrre un risultato finale che comunque è ‘opera’, prima dissolta e poi rifatta, e che produce anche le teorie su se stessa: questo processo di trasformazione implica la considerazione di quello che si sta facendo come un oggetto teorico,e quindi c’è un montaggio di elementi, di cose, attraversato da una linea verticale, o l’inverso se preferite, che è quella della teorizzazione di se stessa. Processo assai evidente nel fare artistico di Barney; ad esempio, se si prendono tutte le trasformazioni di carattere iconografico (per dirla in modo tradizionale) si nota un’altissima autoriflessività: nei travestimenti, nelle riprese di figure della storia dell’arte e della pittura. Ma, in fondo,anche se gli storici dell’arte possono non avere i mezzi per captare alcuni di questi caratteri, magari perché utilizzano delle categorie wölflinniane o altre predefinite, il ‘polimorfismo’ risponde alla definizione di ciò che Barney sta facendo e questo fa rientrareil suo lavoro in un’estetica barocca. In conclusione, direi che i tre tipi di argomentazione evidenziati sono perfettamente compatibili.

Nicola Dusi: Riguardo a CREMASTER, è possibile parlare di un “modo simbolico”[1] nei termini di Umberto Eco?

Omar Calabrese: Certo, ma mi lascia qualche dubbio perché risulta forse un po’ troppo generico. Il mio interesse per la nozione di ‘semisimbolico’ in arte, invece, mi obbliga allo studio delle categorie sul piano dell’espressione, per vedere se sono portatrici di nuovi significati sul piano delcontenuto, in modo da stare aderenti al ‘testo’. Mi sembra che funzioni meglio per parlare di Matthew Barney e diCREMASTER in particolare,anche perché questo permette di scomporre ed esaminare nella dimensione locale pezzi del suo lavoro: CREMASTER non va pensato come una ‘superarchitettura’, bensì come un insieme di ‘sottoarchitetture’, ognuna orientata a effetti particolari (d’altronde anche nella tua analisi [5] hai dovuto passare di luogo in luogo, nell’opera, per parlarne,ed è qualcosa diassolutamente necessario). Certo,c’è anche l’identificazione enciclopedica vasta, ma prendendo la direzione dell’analisi semisimbolica si riesce a dire qualcosa di più.

Nicola Dusi: In merito al problema dei testi sincreticie delle semiotiche ‘multimodali’ in cui non c’è specificità, dato che tutto resta ‘imperfettamente traducibile’ (almeno a qualche livello: a livello sensomotorio o a livello narrativo, a livello semisimbolico o altro), CREMASTER mette in gioco, in modo multiprospettico, generi e domini artistici ritenuti classicamente distanti non semplicemente come il cinema e la videoarte, ma anche la fotografia, la scultura, la performance…

Omar Calabrese: E la musica (non a caso è il fidanzato di Björk!). Ma se considero,come diceva prima Cosetta Saba, la variabilità dell’opera rispetto ai luoghi in cui viene proposta,c’è anche una variabilità rispetto agli spettatori che questi luoghi convocano. Quando anni fa ho organizzato la prima proiezione italiana diCREMASTER a Siena, c’era una forte presenza di musicisti che si riconoscevano in quello che veniva mostrato: dai gruppi mitici del punk rock americano all’opera lirica. Quindi perfino la proiezione diventa opera essa stessa: c’è un momento performativo della proiezione e della ricezione, qualcosa di ancora poco studiato nel lavoro di Barney.

Cosetta G. Saba: Questo tipo di pratica artistica evidenzia una serie di problemi teorici irrisolti e mette in discussione, con una certa radicalità, insieme alla definizione di “opera” anche le nozioni di “testo”, “cotesto”, “contesto”, “situazione”. Nell’opera barneyana tra tali nozioni si delinea un’interrelazione mutuamente inclusiva e inedita.

Omar Calabrese: Nella dissoluzione e riformulazione di ciò che comunque resta “opera” si può utilizzare una nozione molto utile, quella di “cornice”: Barney mentre dissolve, ripropone una serie di cornici che sono dentro e fuori ciò cui assistiamo. Se l’opera è mutevole rispetto ai luoghi,e rispetto ai pubblici, implica cioè una ricezione differente di volta in volta, c’è pur sempre una testualizzazione relativa alla performance che avviene e che dà delle istruzioni su come intendere in quel caso specifico quel testo. La nozione di cornice è variabile per definizione, basti pensare alle operazioni di Peter Greenaway con Rembrandt (Nightwatching, 2007) oppure con L’ultima cena di Leonardo (2008). Tornando a Eco, utilizzerei la nozione di “opera aperta” [6], che all’epoca era per l’appunto una nozione di estetica, cercando di semiotizzarla con questi aspetti di riapertura e chiusura locali, di volta in volta situati.

Cosetta G. Saba: Penso che “l’opera” barneyana sia definibile come un campo d’azione il cui perimetro non è tracciato tanto dall’estensione installativa e dall’interpolazione spaziale delle varie componenti compositive‘ locali’(componenti espressive singolari, aspetti locali, quel disegno, quella scultura, quel video eccetera), quanto dal limite del gesto espositivo (e dell’atto discorsivo implicito) tracciato nello spazio dell’installazione stessa. Limite di un’azione performativa che procede in modo discontinuo,che si arresta temporaneamente definendo, di volta in volta entro un dato spazio architettonico, il dentro e il fuori dell’opera, la sua “cornice”, e che definisce, in qualche modo, anche l’aspetto ‘globale’ dell’opera installata. La testualizzazione che vi si produce è un processo estremamente complesso, tanto in relazione ai re-enactment e ai re-stage, quanto in relazione all’uso delle fonti.

Nicola Dusi: In CREMASTER Barney usa non solo una ridda di stilemi (i modi del musical per esempio), ma spesso usa stereotipi, come se lavorasse per condensazione e rarefazione, cioè stereotipizzazione, degli immaginari cui si ispira (ad esempio il western o il gangster movie). Cosa ne pensi?

Omar Calabrese: Tutte le attività che producono testi di secondo grado, come dicono Compagnon [7] o Genette  [8], con le diverse marche intertestuali e i modi della citazione, dell’allusione eccetera non possono non partire da elementi di impoverimento. Del resto questo accade anche nella traduzione interlinguistica in cui si passa per un impoverimento, per poi andare verso una restituzione che migliora fino a complessificare; così accade nella conversazione: ad esempio nel passaggio da lingua uno a lingua due, dal nostro italiano nativo all’inglese, francese o quant’altro, devo passare per uno standard. Ho l’impressione che nei sistemi non linguistici capiti la stessa cosa: cioè dei “linguaggi” (chiamiamoli così, anche se non ci credo) che possono essere intesi come nativi per qualcuno, quando sono presi e riportati altrove passano attraverso degli standard, qualcosa che potremmo chiamare “lingua due”, per poi diventare più complessi perché (ri)elaborati. Non è tanto diverso dalle operazioni letterarie, come quando Borges riusa cose norvegesi, cinesi, boshimane, oppure da quello che fa Gombrowicz.

Nicola Dusi: Non è che Barney lo fa perché è un nordamericano? Lo dico a rischio di sembrare ideologico.

Omar Calabrese: Direi di no. Certo, la sua formazione ideologica pone dei problemi – perché è molto ‘americano’ – di semplificazione e, a volte, per quello che fa può sembrare quasi ‘fascista’ o ‘nazista’; anch’io anni fa avevo qualche perplessità. Ma attenzione: siamo in un’altra dimensione,che ha poco ache vederecon l’opera. L’ideologia va intesain senso semiotico e non dev’essere un giudizio di valore, sennò non leggerei Céline, Kafka, Pound…

Cosetta G. Saba: A proposito di ricezione‘ideologica’, sul piano curatoriale Barney sembra scontarne parecchia in quest’ultimo periodo. Da un lato, la sua opera viene celebrata e ‘museificata’ (recentemente, con il contributo della Fondazione Lorenz di Basilea, il Moma ha acquistato tutto l’archivio DRAWING RESTRAINT), dall’altro lato viene sistematicamente ‘elusa’, non convocata nelle situazioni espositive europee più importanti in termini di capacità di ‘leggere’ e di ‘interpretare’ ciò che di significativo accade nell’arte contemporanea. Al di là di queste postazioni ‘ideologiche’, come si colloca, secondo te, la pratica artistica di Matthew Barney nel ‘contemporaneo’?

Omar Calabrese: Sei anni fa io l’ho ospitato in una mostra sul neobarocco a Salamanca, e mi è costato pure parecchio. La mostra si chiamava Barrocos y neobarrocos: el infierno de lo bello [1]; ha avuto un grande successo, ma c’erail vantaggio di avere denaro, perché Salamanca era città della cultura in quel momento. Ho messo insieme artisti molto diversi – Franz Ackerman, Robert Longo, Teresa Margolles, Enrique Marty, Masbedo, Tony Matelli, Jonathan Meese, Julie Mehretu, Juan Muñoz, David Nebreda, Lars Nilsson, Erwin Olaf, Jason Rhoades, Javier Pérez, Bill Viola, Jan Fabre e il gruppo russo AES+F (presente anchealle ultime due Biennali di Venezia). Ma per tornare al problema dell’ideologia: l’aspetto politico di valutazione non mi interessa, mentre mi intriga l’ideologia come costruzione di un sistema di idee, in senso semiotico greimasiano. Intendo che sulla virtualità del senso costruisco un sistema categoriale di valori, che sono delle assiologie, e da lì si arriva alle ideologie che trovo nei testi realizzati: le ideologie sono cioè delle architetture vaste. Non c’entra quindi con il mio giudizio politico, ma con la mia relazione all’opera: un’opera va vista in termini di novità e innovatività oppure di mantenimento conservativo di una tradizione.

Cosetta G. Saba: Quando parlavo di ricezione ‘ideologica’ mi riferivo appunto al ‘sistema di idee’e alle assiologie sottese ai discorsi curatoriali, che rivelano una sorta di eteronomia imposta al fare artistico. Nondimeno, penso che la dimensione ‘politica’ (del ‘potere’ e del ‘sapere’) sia ciò che rende storicamente possibili quelle stesse ‘postazioni discorsive’ (celebrative o elusive che siano), così come rende possibile quanto vi è di inedito nella pratica artistica di Barney; tale pratica tuttavia da esse pare ‘eccentrarsi’ in forza della propria complessità estetica e,come sottolineavi, mantenendo ben fermo l’asse del valore economico-finanziario.

Nicola Dusi: Che cosa pensi della strategia della costruzione della star in ambito artistico? Barney è emerso in modo rapidissimo e ha subito dimostrato una grande padronanza della propria immagine multimediale e del proprio ruolo autoriale.

Omar Calabrese: Il fenomeno della costruzione della star fa parte in pieno dell’arte contemporanea, perché essendo un’arte polidimensionale non può non tener conto del mondo dei media nel quale si inserisce (e anche delle sue ideologie). Non è diverso quello che fa Barney da come si pongono molti altri artisti, ad esempio Damien Hirst o Maurizio Cattelan, o perfino Jan Fabre. Fa parte dell’inserimento dell’universo mediale dentro l’arte. D’altronde, come ha detto qualche artista, in questo caso Claudio Parmiggiani (ma anche già Stieglitz o Kandinskij): «La tavolozza è finita». Quindi l’artista mette dentro alla tavolozza pezzi di mondo, o pezzi di media. Così facendo, l’artista trasporta nell’arte anche ciò che caratterizza internamente questi media, compresa la questione dello star system, che egli può contestare oppure invece riprodurre. Braco Dimitrijevi ad esempio lo contesta, Matthew Barney, Damien Hirst e Maurizio Cattelan, invece, lo cavalcano.

Nicola Dusi: Una domanda sul post-human. Cosa pensi delle figure inventate da Barney che diventano l’emblema di uno stadio ibrido che non è quello del cyborg o del post-catastrofico tecnomorfismo, ma di un mondo pacificato, a volte nella fusione di uomo e animale, oltre l’umano?

Omar Calabrese: Penso al post-human ideologico, all’estetizzazione del ‘limite’; tutto piuttosto ‘sospettabile’…

Cosetta G. Saba: Il post-human dischiude molteplici letture. Credo che Barney si sia trovato all’interno di un percorso tracciato distintamente dalla mostra Post-Human (1992), curata da Jeffery Deitch, e che lo abbia usato abilmente proprio nella direzione della costruzione della star di cui si è detto. Mi sembra tuttavia che – inDRAWING RESTRAINT 7, in DRAWING RESTRAINT 9 e in CREMASTER Cycle – Barney abbia elaborato altrimenti le figure del post-human,coerentemente al processo di intensificazione della dimensione narrativa nella sua opera(DRAWING RESTRAINT 4, 1988; OTTO shaft Cycle, 1992, DRAWING RESTRAINT 7, 1993 eccetera).

Omar Calabrese: Sì, però ci sono in CREMASTER molti aspetti ideologicamente sospettabili… Un’estetizzazione dell’estremo… Nondimeno, le operazioni che fa Barney in CREMASTER Cycle sono notevoli dal punto di vista dell’innovazione che mette nel suo fare artistico.

* * *

Alle ore 15 di mercoledì 6 febbraio a Siena, nell’aula Meeting del Collegio Santa Chiara (via Valdimontone 1), Paolo Fabbri terrà una conferenza dal titolo “Arti e scienze: un ponte sospeso”.

Seguirà la presentazione dei volumi Matthew Barney. Polimorfismo, multimodalità, neobarocco con di Nicola Dusi e Sui collages di Picasso. Percorsi semiotici e teoria della rappresentazione con l’autrice Francesca Polacci (il Mulino 2012).

La giornata rientra nel ciclo di incontri Leggere le immagini, leggere la cultura, organizzato dal Centro studi di Semiotica e Teoria dell’Immagine Omar Calabrese e dedicato alla figura e al lavoro intellettuale di Omar Calabrese.

 

 [Questa intervista a Omar Calabrese già apparsa all’interno del volume Matthew Barney. Polimorfismo, multimodalità, neobarocco edito da Silvana Editoriale]

Note

[1] Cfr. Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2003 (ed. orig. 1983 -1998).

[2] Cfr. Arthur Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2008 (ed. orig. 1981).

[3] Omar Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1987.

[4] Umberto Eco, Filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984.

[5] Nicola Dusi, “Squarci di cinema nella videoaerte: CREMASTER 3 di Matthew Barney”, in Immagini migranti. Forme intermediali del cinema nell’era digitale, a cura di Luciano De Giusti, Marsilio, Venezia 2008.

[6] Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962.

[7] Antoine Compagnon, Poétique de la citation, in Chateaubriand memorialiste: Colloque du cent cinquantenaire(1848-1998), a cura di Jean-Claude Berchet, Philippe Berthier, Droz, Genève 2000.

[8]  Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1982.

[9] Pedro Aullón de Haro, Javier Panera, Omar Calabrese, Barrocos Y Neobarrocos: El Infierno De Lo Bello, Tapa blanda, Salamanca 2005.

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